Gli scrittori della porta accanto

L'incipit | #21 Twiggy


CAPITOLO I

La neve iniziava a rallentare la sua discesa.
Quasi tempestosa durante la giornata, si era fatta costante e regolare nel corso della sera, per poi affievolire la sua caduta durante la notte.
I fari della sua automobile illuminavano il manto bianco che sui Colli Euganei che sovrastano Padova si presentava ancora quasi intonso.
Il controluce dei radi fanali stradali rappresentava una moltitudine di immagini desuete e quasi irreali per la zona.
La Natura taceva: il silenzio era solo lievemente disturbato dal sottofondo del rombo al piccolo trotto dei cavalli della Kia Sorento.
Atmosfera ovattata resa ancora più magica dall’ora tarda della notte inoltrata.
La prossima sarebbe stata la prima alba del nuovo anno e Franco faceva rientro alla sua abitazione, quella villetta adagiata sulle pendici degli Euganei lungo la strada che, dalla pianura, porta all’abitato di Teolo.
All’inizio del tratto in salita accese gli abbaglianti: i lampioni cessavano al termine del tratto in pianura. L’andatura si fece più lenta e Franco raccolse tutte le sue forze per prestare attenzione alla via che doveva percorrere.
Sapeva che doveva andare lentamente: la neve e i postumi di una notte di festeggiamenti lo consigliavano.

Aveva lasciato alla pianura gli ultimi echi della festa: l’avvenuta cacciata dell’anno da poco terminato e l’accoglienza festosa all’anno entrante, la sepoltura delle delusioni e delle negatività di un anno trascorso sostituite ora dai propositi e dalle speranze che il nuovo anno portava con sé.
Quello trascorso era stato un periodo che aveva determinato profondi mutamenti nella sua esistenza e che aveva altrettanto decisamente provocato mutamenti nel suo carattere.
La separazione dalla famiglia, una moglie e due figli ormai grandicelli, non lo aveva, di fatto, abbattuto.
Pareva, anzi, averlo rinnovato. Pareva avere infuso in lui una nuova spinta di vita; o, forse, la spinta per una nuova vita.
Da cominciare a cinquant’anni da poco compiuti.
Aveva lasciato ai suoi ex-cari la casa del centro città; trasferendosi con tutte le sue cose, e i pochi ricordi ancora da cancellare, nella casetta sui colli che un tempo fungeva unicamente da ricovero estivo contro l’afa della città.
Una piccola casa tra tante tra loro distanti e separate da una natura che ora aveva il solo colore del bianco.
Di fatto, in questo periodo dell’anno era l’unico essere umano nel raggio di alcuni chilometri.
La strada ripiegava in un primo tornante a sinistra; la vettura slittò lievemente andando a lambire la rete di recinzione che delimitava il confine inferiore della sua proprietà: poche decine di metri in linea d’aria, quasi un chilometro lungo la strada asfaltata.
Dopo cinquecento metri, il nastro d’asfalto imbiancato tornava sui propri passi piegando in uno stretto tornante verso destra: la via per il ritorno a casa era, ora, una linea retta.
Sulla piazzola antistante una casa sostava una vettura.
“Ragazzi in cerca di intimità” pensò subito Franco. E la sua mente, sia pur brevemente, tornò alla memoria di analoghe situazioni vissute in gioventù: quando in macchina e riparato dall’eskimo cercava di far breccia tra i bottoni del montone di lei.
“Bei tempi.” Tempi passati.
La neve era prevista da tempo: lo avevano detto. La neve era attesa da molti, temuta dai più.
Pareva che solo le autorità comunali non avessero dato il dovuto credito a queste previsioni. E in strade di scarso afflusso veicolare, il procedere risultava assai rallentato e difficoltoso.
“Sono stato uno stupido” pensò.
Non aveva regolato il timer della caldaia a gas. Alle tre della notte la casa sarebbe stata abbastanza fredda.
Era solito far funzionare il riscaldamento dalle cinque del pomeriggio alle undici della sera; per poi riavviarlo dalle quattro della mattina alle sette. Durante il resto della giornata non era in casa.
Il suo lavoro di rappresentante farmaceutico lo portava a compiere numerosi e quotidiani viaggi, anche se limitati come raggio alle sole province vicine.
Questa volta non aveva considerato il cambio di orario del suo rientro.
Aveva trascorso la sera e la notte fino a quell’ora in compagnia degli amici di un tempo. O almeno con quella parte di essi con la quale condivideva il suo status di separato.
Alcuni di loro avevano già provveduto a scegliersi una nuova compagna.
“Poveri illusi” era il suo pensiero.
A una certa età e con un portafogli di tutto rispetto è più facile essere preda che cacciatore.
Avevano scelto tra coloro che lo avevano scelto. Era la sua opinione.
E lui non ne aveva intenzione.
O almeno così pensava, ora che la famiglia era ancora esperienza recente.
Di certo le occasioni non gli mancavano.
C’erano le colleghe; e le amiche di un tempo tornate attuali. Spesso anche loro rese di nuovo al libero stato o, spesso, di fatto ancora impegnate ma desiderose di rinfrescare il ricordo di avventure passate in gioventù.
Franco giunse così lentamente, come lenti apparivano i suoi pensieri, dinnanzi all’ingresso carrabile della sua villetta. Fermò la vettura sul ponticello d’accesso.
Il telecomando per l’apertura era fissato accanto al volante.
Aveva dovuto prendere questo provvedimento in quanto, spesso, accadeva che nel momento del bisogno il magico strumento tendesse a svanire nel nulla. Spesso inghiottito a livello della giunzione tra la seduta di destra e il relativo schienale.
Lentamente, le due ante in ferro battuto, opera quasi artistica di un artigiano locale, iniziarono a schiudersi. Dapprima, e con più decisione, si allontanava l’anta di destra: per essere poi seguita, dopo pochi secondi, dal movimento dell’anta sinistra.
«Che cazzo succede?»
Fu la frase pronunciata ad alta voce che venne a interrompere il silenzioso scorrere del suo pensiero.
Non aveva compiuto che un breve tragitto, che l’anta di destra fermò la sua corsa. Il motore del cancello elettrico continuava a ronzare; e lo fece per alcuni secondi ancora.
Per poi zittirsi a rispettare il silenzio della natura in una notte innevata.
La parte sinistra della cancellata, per contro, non fece accenno ad alcun movimento, non essendo ancora sufficiente il tragitto percorso per consentirne il richiamo.
E il cancello rimase così: immobile. Lasciando lo spazio per l’agevole ingresso di una persona, ma impedendo l’accesso di una vettura.
Scese dalla Sorento e oltrepassò il cancello. Doveva fare in fretta. Il telecomando accendeva i lampioni del viale d’accesso, una settantina di metri all’incirca, e disattivava l’impianto d’allarme. Ma solo per pochi minuti. Dopo era necessaria una conferma con la chiave elettronica da inserire al fianco del portoncino d’accesso all’abitazione.
“Che diamine! Ne è venuta di neve!” pensò osservando la massa di neve impaccata che limitava la corsa dell’anta di destra, di fatto impedendo la completa apertura della cancellata.
In preda a un’improvvisa eccitazione, in gran parte dettata dall’euforia che qualche bicchiere di troppo è in grado di conferire a una persona prima di conciliarne il sonno, si ricordò dei badili che teneva nel sottoportico per i lavori di giardinaggio estivo.
Ma prima era necessario disinserire l’allarme.
Con movimento cauto iniziò a lasciare le sue impronte sul manto nevoso. Un manto in più punti interrotto e disordinato.
“Lotte tra qualche animale” pensò Franco. “Come riescano a entrare dappertutto rimane un mistero”.
Era in effetti un periodo nel quale era stata segnalata una notevole presenza di suini selvatici nella zona.
Con passo incerto e malfermo, a causa delle recenti abbondanti libagioni e dell’indubbia presenza di uno strato di ghiaccio che andava formandosi sotto la neve più recente, giunse davanti l’ingresso della villetta.
Il breve tragitto era valso a raffreddare il suo corpo, le mani in particolare.
Dita insensibili iniziarono a lavorare sulle quattro cerniere, due per ogni lato, che erano la dotazione del suo giaccone imbottito. Difficile era il riconoscimento tattile di quanto cercava; le tasche erano ampie e dovette perlustrarle con dovizia prima di giungere alla conclusione:
«Cazzo! Non trovo le chiavi.»
Eppure la casa era chiusa. Eppure le chiavi le metteva quasi sempre in tasca.
Quasi…
… O le faceva cadere sul sedile di destra dell’automobile così come un tempo faceva con il telecomando d’accesso.
Chiaro quindi che le chiavi erano all’interno della Sorento che gli ammiccava da dietro una cancellata in ferro battuto.
Era contrariato con se stesso per la poca attenzione che aveva riposto quella sera alla chiusura della propria abitazione.
Andando a vivere da solo in una villetta isolata, gli erano tornate le paure che già caratterizzavano le sue notti di fanciullo.
Ma ora si trattava delle paure di un uomo; che vive da solo convinto di aver riacquistato da poco la sua libertà.
Talora col dubbio di aver incontrato la solitudine.
E poi, di questi tempi, è logico avere timore; di notte, in un luogo isolato. Un luogo sconosciuto anche alle onde della telefonia.
Non è certo una novità incontrare sulle prime pagine dei giornali, tra le cronache cittadine, notizie di rapine, percosse o anche uccisioni. Come mezzo per appropriarsi dell’altrui privatezza.
«Se poi si è venuto a sapere che vivo da solo!»
Certo, questi ragionamenti li aveva già fatti in un recente passato e, proprio per tale motivo, si era procurato una pistola Beretta che sapeva anche utilizzare in virtù di un corso seguito al tiro a segno di Padova.
Ma la pistola era sopra il comò, nella sua stanza da letto. Non la portava con sé. Lo scopo era quello di sentirsi tranquillo quando, in casa, sentiva rumori sospetti o, talora, suoni a lui sconosciuti. Evenienze che si erano verificate, ma che erano tutte risultate attribuibili ai rumori della natura e ai componenti della ricca fauna dei colli.
Non vi era scopo per recarsi armato a un veglione di capodanno.
«Ma no, porca Eva!»
La sua voce ancora echeggiò nel silenzio della nottata. Era ovvio e lui avrebbe dovuto saperlo: trascorso il tempo prestabilito l’anta della cancellata si sarebbe richiusa.
Prigioniero in casa propria!
Il telecomando gli stava probabilmente sorridendo dalla sua comoda posizione accanto al volante; e le chiavi? Ormai ne era certo; probabilmente danzavano sulla seduta di destra della sua vettura che lo guardava con gli occhi brillanti.
Sono situazioni nelle quali anche a un uomo viene da piangere.
La rabbia era tale che dovette inspirare profondamente un paio di volte per riprendere una calma apparente. Le narici quasi parevano bruciare a causa del freddo che le aveva invase con prepotenza.
Sia perché ne aveva necessità, sia in senso di spregio, urinò contro quell’opera d’arte in ferro battuto che lo teneva prigioniero. Subito, un brivido lo scosse per il calore ceduto dal corpo con la minzione.
Si volse e appoggiò le spalle alla cancellata: quasi un momento di riposo prima di ripercorrere il vialetto d’accesso alla villa.
“Tornerò verso casa e troverò riparo nel sottoportico”.
Fece appena in tempo a riguadagnare il porticato, che calò improvviso il buio mentre beffarde piccole luci rosse brillavano come lucciole nell’oscurità a indicare la riattivazione del sistema d’allarme.
«Calma Franco. Calma.»
Parlava ad alta voce a se stesso; per infondere in se stesso maggiore coraggio.
«In fondo si tratta solo di attendere.»
Aveva il cellulare, ma non gli sarebbe servito. Ci sono zone che la natura stessa intende proteggere dall’invasione dell’uomo.
«In fondo tra poche ore tornerà la luce e tutto sarà diverso.»
Ma erano solo le tre della notte appena trascorse.
Chiaramente, e questo lo sapeva, non doveva attendere il risveglio mattutino di qualche passante. Ma il ritorno della luce e il potersi muovere con la certezza che deriva dalla visione delle forme delle cose, avrebbe fatto tornare in lui una sicurezza che, ora, sentiva di non avere.
«Starò calmo e aspetterò» si disse.
«Da solo. E… al buio» soggiunse.
In fondo era in casa sua. O nel giardino di casa sua. Di quel luogo incantevole che dominava la valle sottostante, con la città di Padova ai suoi piedi.
Almeno quando c’era la luce.
Dormire?
Convenne che non era il caso. Non sarebbe stato opportuno cedere alla stanchezza esponendosi passivamente al freddo. Sapeva che poteva essere pericoloso.
La sua mente era ingombra di mille pensieri e di fantastiche paure che scaturivano da qualche suono che appariva ignoto e che, d’improvviso, risaltava nel silenzio dell’atmosfera ovattata.
Ricordò della presenza, probabile più che certa, del barbecue e della carbonella in sacchetti, che si era sempre ripromesso di riporre nel garage senza averlo in realtà fatto. Se non la salvezza, si trattava sicuramente di un aiuto a trascorrere quelle ore in compagnia di una fonte di calore e di luce.
Non fu facile accendere quel piccolo fuoco; la carbonella esposta all’umidità era restia ad accogliere l’invito della sottostante fiamma. Ma alla fine il suo scopo venne ottenuto.
Ora, le prospettive della parte finale della sua prima notte dell’anno erano sicuramente più rosee e l’umore più sorridente.
Si accese una sigaretta.
«Me ne mancano due: poi smetterò di fumare. In fondo ci vuole un limite temporale per dare fiato a queste decisioni. E il sorgere del primo sole del nuovo anno, può diventare il limite oltre il quale diverrò più virtuoso.»
Nuovi rumori, nuovi segnali di probabili ignote presenze, vennero a interrompere l’ottimismo del suo pensare.
Rimase alcuni istanti come impietrito; si rendeva conto di essere in preda alla paura. Non si trattava più di un timore di fronte all’immaginato. Era una situazione reale che stava, suo malgrado, vivendo.
Tutti i sensi erano ipereccitati in un stato d’allerta: pronti ad accogliere un suono o percepire una visione. Sia pure nel buio. Il tutto, trasmesso alla mente, avrebbe dovuto tradursi in messaggi cui attribuire un significato.
Ma nulla pareva avere un senso.
Non gli stimoli che apparivano confusi e mal interpretabili. Non la situazione in cui si trovava.
«A meno che…»
Era relegato nel sottoportico, laddove i sensori d’allarme non giungevano, quando udì accendersi il motore della Sorento.
A meno che non ci fosse qualcuno con lui nel giardino.
I fanali della sua vettura lo inquadrarono, abbagliandolo, da dietro la cancellata.
Una breve retromarcia a riguadagnare la sede stradale.
Poi l’incerta andatura di due grossi fanali arrossati che, in breve, divennero due punti in lontananza.
E tornò il buio.
La rabbia non riuscì a superare lo stupore.
Franco rimase bloccato. Incredulo. Forse convinto, per un attimo, di essere parte di un brutto sogno dal quale si sarebbe ben presto risvegliato.
Ma dovette ricredersi; il freddo, che ora percepiva più intenso, era reale.
Doveva chiedere aiuto.
E l’unico modo per farlo era quello di fare scattare l’allarme collegato con la centrale della Securitas, un’agenzia di vigilanza privata con la quale aveva stipulato un contratto.
A passo veloce, tenendosi ai margini del vialetto d’accesso, ed evitando la corsa per non scivolare, si diresse con decisione verso la cancellata.
Al suo passaggio la quiete apparente venne squarciata dal sibilo alternato dell’allarme in funzione.
Franco giunse alla cancellata e si rannicchiò alla base di uno dei due pilastri che la delimitavano sorreggendola.
Osservava quella costruzione che gli era casa e quindi sicurezza, ma che ora assumeva la connotazione del mistero, dell’ignoto, del pericolo.
Dopo un paio di lunghi minuti, cessò il suono della sirena e tornò un ovattato silenzio.
E, con esso, per Franco l’angoscia della paura.



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