Gli scrittori della porta accanto

L'incipit | #28 Ombre pagane


CAPITOLO 1

Nel Santuario di Diana. 29 agosto 2011 ore 1.30

Il cielo senza luna permetteva di distinguere tutte le costellazioni celesti. Le Perseidi lasciavano la loro scia luminosa con repentini lampi. A nord, bassa sull’orizzonte si distingueva l’Orsa Maggiore, mentre poco più in là Cassiopea iniziava la sua ascesa. In mezzo a loro, la sicura guida notturna degli antichi marinai, la Stella Polare. A nordest dominavano le costellazioni di Andromeda e Perseo. A est era appena comparsa Aldebaran, già preceduta dalle sette sorelle della costellazione del Toro: le Pleiadi.
Lo sguardo rivolto in alto a contemplare l’affascinante spettacolo, il Pontefice Massimo rifletteva sull’aspetto di quello stesso cielo più di duemila anni prima, quando sotto di esso, in quello stesso luogo, la solenne processione notturna in onore della Dea attraversava il bosco, l’antico nemus, alla luce delle torce e arrivava al santuario dove avevano luogo le preghiere e i sacrifici. Quei tempi erano finiti e loro, i discendenti degli antichi, dovevano nascondersi per celebrare i riti. Addirittura avevano dovuto spostare il giorno. Non più il tredici agosto, solenne ricorrenza della Dea. In quel periodo, il sito era occupato giorno e notte da gruppi di cosiddetti neopagani con i loro canti e le loro musiche. Il ventinove gli era sembrato la data ideale. Il primo giorno di luna nuova, la rinascita della Dea. Ma quella notte le preghiere e il sacrificio in onore di Diana non sarebbero stati gli eventi principali. Qualcuno aveva strappato il ramo dall’albero sacro. Il Rex era stato sfidato…


“Pontifex, siamo quasi pronti. Le sacerdotesse e i fedeli stanno per arrivare.”
Le parole della Gran Sacerdotessa, bellissima nella sua tunica bianca e oro interruppero le sue riflessioni. Era l’ora.
Si girò verso di lei: “Il ragazzo è con loro?”
“Si. Sono quasi alla fine della discesa. Tra pochi minuti saranno qui.”
Disse agitando i capelli corvini che spuntavano da sotto il velo. Il viso anch’esso bruno, le braccia tornite, il corpo statuario, il portamento altero e regale la rendevano simile alle raffigurazioni delle antiche dee greche scolpite dai grandi artisti del passato.
Il Pontefice Massimo scrutava le buie pendici del monte. Poteva solo intuire dove fosse la fila dei fedeli che percorrevano il bosco nell’oscurità, mentre migliaia di anni prima i suoi predecessori avevano il privilegio di vedere chiaramente le luci delle fiaccole portate dai seguaci della dea che percorrevano il bosco come una sottile vena d’oro. Guardando poco più in alto scorgeva le luci di Nemi, arroccata sullo sperone roccioso che dominava la conca del lago. Ritto in piedi sulle rovine di quello che una volta era un teatro e che ora mostrava solo delle pietre semisepolte dal tempo, scorse le prime sacerdotesse che precedevano la processione, spuntare dal bosco. Dietro, in un silenzio irreale in cui si poteva percepire il fruscio delle vesti, seguivano gli adepti. In mezzo a loro, a piedi nudi e indossando solo un perizoma, un ragazzo poco più che ventenne, alto e muscoloso. Fu portato al cospetto del Pontefice.
Questi lo fece inginocchiare: “Claudius, sei consapevole della prova che stai affrontando?”
“Sono pronto, Pontifex” fu la risposta del ragazzo.
“Bene. Andiamo” disse il Pontefice destinando un fugace sguardo alla sagoma scura del piccolo casale in rovina alla sua sinistra. La leggenda diceva che era sorto su quello che era stato l’altare della dea nei tempi arcaici. In gran segreto, d’inverno e sempre di notte aveva fatto eseguire degli scavi all’interno per una decina di metri in profondità, ma non avevano trovato nulla. Si mise a capo della processione e si avviò per un buio sentiero delimitato da giovani alberi di noce. Costeggiarono alla loro sinistra un muro di contenimento in cui si aprivano una serie di nicchie circolari, mentre a destra una rete chiudeva l’ampia pianura che precedeva il bosco sacro. Arrivarono davanti a un gigantesco noce. La Gran Sacerdotessa lo osservò accigliata. Si rivide poco più che adolescente danzare intorno a esso con altre giovani vestite di bianco dopo che le avevano fatto ingerire una bevanda calda e inebriante. Ricordò la danza divenire man mano più sfrenata, le compagne più anziane che la circondavano e con dolcezza la facevano sdraiare in terra togliendole la candida tunica. Poi i visi degli uomini sopra di lei. Così era cominciato il lungo percorso che l’aveva portata molti anni dopo a rivestire la carica di Gran Sacerdotessa della dea dai molti nomi. L’espressione dolce degli occhi color nocciola s’indurì al ricordo, ma subito distolse lo sguardo e proseguì. Giunsero infine al cospetto di un colonnato coperto da un’ampia tettoia montata dagli archeologi per proteggere il sito dagli eventi atmosferici. All’entrata, il Pontefice Massimo si fermò, girandosi verso la piccola folla. Due sacerdotesse con delle fiaccole in mano lo affiancarono mentre la Gran Sacerdotessa, rimasta a capo della processione che seguiva, intonò una preghiera, a cui si unì il resto dei seguaci:
“Diana, dea Lucina, Artemide cacciatrice, signora delle selve e degli animali. Ecate signora degli Inferi, Diana Aricina, Dea lunare, Grande Madre che doni al mondo la vita, la luce e le nascite. Dea delle foreste, onore dei cieli esaudisci la nostra preghiera in questo giorno solenne. Artemis Taurica, accetta questa notte il nostro sacrificio.”
La maestosa vestale tacque. Il Pontefice volse le spalle ai fedeli e riprese a camminare, scendendo le scalette di ferro che introducevano nel buio colonnato. Con passo rapido si diresse verso il fondo dell’ambiente ove in un angolo si intravedeva un piccolo altare. I fedeli, via via che scendevano si dirigevano a destra, andando a posizionarsi tra i resti delle colonne e i pali in ferro che sorreggevano la struttura. Solo il ragazzo, circondato da quattro sacerdotesse si fermò dopo pochi passi. Il Pontefice alzò il braccio destro e centinaia di fiaccole si accesero nelle mani dei fedeli rendendo visibile colui che immobile al centro dell’arena, fino a quel momento era stato solo un’ombra: il Rex!
Il ragazzo lo fissò con un’espressione di sfida. Ora si sentiva meno sicuro rispetto al giorno in cui aveva staccato il rametto di vischio dalla quercia sacra cedendo a quell’impulso giovanile che fa credere di essere invulnerabile. Era impressionato dalla sensazione di forza che il re del bosco di Nemi emanava. Anche i fedeli stavano guardandone con ammirazione i muscoli possenti segnati dalle cicatrici delle passate battaglie. Tutti compresero come mai, nonostante affiorasse qualche capello grigio sulle tempie, il Rex Nemorensis era saldo sul trono da quindici anni. Il Pontefice in quello stesso momento si scostò dall’altare, che rivelò il simulacro di Artemis Taurica, la sanguinaria dea dell’antica Tauride da cui traeva origine quell’arcaico rito che si perdeva nella notte dei tempi, addirittura prima della fondazione di Roma. Il volto scolpito della dea era di una bellezza severa e seducente allo stesso tempo. L’antico artista le aveva donato dei capelli a caschetto che le arrivavano appena sotto la nuca e un naso dal profilo greco. Gli occhi dal taglio orientale e la bocca piccola e carnosa completavano quell’arcaico volto. La dea aveva una veste che le arrivava al ginocchio e impugnava un arco. Il Pontefice s’inginocchiò davanti alla statuetta mormorando una preghiera sottovoce. Con il passare degli anni si era reso conto sempre di più che il simulacro somigliava alla Gran Sacerdotessa. Aveva scelto bene. Ai lati del simulacro c’erano due gladi scintillanti sulle cui lame si rifletteva la luce delle torce mandando rossi bagliori. Il Pontefice li impugnò entrambi e ne provò il filo delle lame sugli avambracci. Subito una delle sacerdotesse corse a tamponare il sangue che colava da essi con un panno di lino. Quindi il Pontefice si avvicinò al Rex e gli porse il gladio che teneva nella mano destra. Poi si avvicinò allo sfidante e gli porse quello che impugnava con la sinistra. A passi lenti si diresse al centro del colonnato, davanti alla piccola folla di spettatori. La Gran Sacerdotessa, lanciando un fugace sguardo al corpo statuario del Rex, raggiunse il Pontifex, porgendogli un cofanetto di bronzo intarsiato in legno. I due contendenti si posizionarono uno di fronte all’altro.
Il Pontefice Massimo, dopo qualche secondo di silenzio, sollevò in alto il cofanetto e parlò: “Magnifica Dea, signora del sacro Nemus, scegli il guerriero degno di custodire il Bosco Sacro, la cui forza e virtù gli permetterà di preservarlo e tutelarlo dai tuoi nemici.”
Dette queste parole, aprì il cofanetto. Dal suo interno prese il ramo di vischio che lo sfidante aveva reciso dalla sacra quercia qualche settimana prima e che, oramai secco, aveva assunto un colore dorato. Lo mostrò alla schiera dei fedeli. Poi con un gesto improvviso lo gettò in terra tra i due avversari. Il silenzio calò sull’arena. Si avvertiva solo il respiro affannoso dei due antagonisti, che si studiavano in attesa di sferrare il primo attacco. Il ragazzo era stato addestrato per affrontare alla pari lo scontro. Aveva frequentato le migliori scuole di scherma e aveva una preparazione fisica eccezionale. Tuttavia impugnare il corto gladio romano gli procurava un sottile disagio, così lo passava da una mano all’altra per acquisire con esso una certa padronanza e provarne la maneggevolezza senza mai perdere di vista la figura granitica del Rex. Ora comprendeva perché era stato soprannominato dai fedeli il colosso di Rodi. Il ragazzo sapeva di poter contare sulla sua giovane età e sulla sua forza fisica. Stava per combattere contro un avversario che aveva il doppio dei suoi anni e pensò che se fosse riuscito a superare indenne i primi minuti dello scontro, presto la maggiore freschezza atletica gli avrebbe consentito di prevalere. Il Rex non aveva fretta. Guardava l’avversario negli occhi seguendo i suoi movimenti, in cerca dell’opportunità per colpire. Erano entrambi armati del solo gladio. Non avevano né scudo né elmo. Erano scalzi e nudi, coperti da un solo perizoma bianco e un colpo in qualsiasi parte del corpo poteva essere fatale. Le armi che impugnavano erano forgiate in bronzo come quelle possedute dai primi soldati dell’epoca di Romolo e venivano utilizzate solo in quel crudele rito. Quella del Rex ne aveva il nome inciso sulla lama dopo che aveva vinto la prima sfida, come voleva la tradizione del Nemus. Con un movimento fulmineo lo sfidante, fintando un colpo con la punta allo stomaco del Rex, abbassò improvvisamente il braccio cercando di colpirne la gamba con un colpo di taglio. Questi, che si aspettava una simile mossa arretrò velocemente schivando il colpo. Poi lanciandosi repentinamente in avanti, con un salto tentò un fendente mirando al capo del giovane, che con gran velocità riuscì a portare il braccio in alto e parare quel tremendo colpo che gli avrebbe aperto la testa. Le due lame, incrociandosi, produssero una miriade di scintille mentre gli spettatori trattenevano il respiro intuendo il cruento finale che sarebbe seguito. I sassolini e la ghiaia presenti sul terreno avevano già prodotto delle ferite sulle piante dei piedi dei due contendenti che non davano segno di preoccuparsene. Però senza rendersene conto tentavano di accelerare la conclusione dello scontro per porre fine a quella sofferenza. Cercarono di colpirsi con tremendi fendenti, incrociando ancora le lame in una serie di colpi e parate. L’ora notturna non aveva affatto mitigato l’afa estiva e l’umidità era altissima. I corpi lucidi di sudore e i volti contratti dalla fatica calamitavano gli sguardi attenti degli spettatori. Il Pontifex seguiva preoccupato il Rex che cominciava a difendersi con affanno dai violenti colpi portati dal più giovane avversario. In quegli anni era diventato un valido collaboratore e un convinto seguace della Dea e gli sarebbe dispiaciuto perderlo. In quell’attimo il giovane, accorgendosi dei primi segni di stanchezza del rivale tentò un furioso affondo mirando all’inguine. Il Rex stavolta non arretrò, ma si spostò rapidamente di lato, trovandosi con il volto dell’avversario vicinissimo al suo fianco sinistro. Caricando con tutto il peso della spalla lo colpì con un gancio devastante sullo zigomo. Il ragazzo, stordito ma ancora con la spada in mano si appoggiò con la schiena a una delle colonne a ridosso degli spettatori che si scansarono disordinatamente. Il dolore alla testa era fortissimo e le schegge delle ossa facciali frantumate erano penetrate nell’occhio aumentando la sua sofferenza. Mentre ansimava rumorosamente, vide attraverso un velo rosso l’ombra del suo avversario farsi sempre più grande. Il Rex, implacabile gli fu addosso affondandogli il gladio nel ventre. Mentre l’unico occhio intatto del giovane lo fissava ancora incredulo, fece una torsione con il polso e tirò su con tutta la forza fino allo sterno. L’urlo di orrore dei seguaci accompagnò il fiotto di sangue scuro che imbrattò il viso e il torace del Rex, mentre l’avversario si accasciava a terra e le sue viscere si allargavano sul terreno. Il Pontefice Massimo prese la parola, rompendo il silenzio che era sceso sull’arena: “Marcus, in nome di Diana cacciatrice ti proclamo ancora una volta Rex Nemorensis, protettore del Sacro Bosco e del simulacro di Diana Taurica fino al giorno in cui un nuovo sfidante strapperà il ramo d’oro dalla sacra quercia.” Poi rivolgendosi al simulacro: “Dea protettrice dei boschi, degli animali, delle donne e delle sacre acque, accogli benevola il sangue che ti offriamo in sacrificio.”
Mentre pronunciava queste parole ebbe l’impressione che le labbra della dea si schiudessero in un tenue sorriso. Chiuse gli occhi per un attimo e li riaprì. Il simulacro di Artemis Taurica era sempre lì, fisso e immobile, identico a come era stato scolpito migliaia di anni prima.
Gli astanti proruppero in un’ovazione: “Marcus Rex! Marcus Rex! Marcus Rex!”
Solo uno dei presenti rimase in silenzio, le labbra tremanti, affrettandosi ad asciugare una lacrima con il dorso della mano. Nella confusione generale, mentre l’attenzione di tutti era rivolta al Rex, furtivamente entrò nell’arena. Raccolse un oggetto da terra e lo nascose nell’ampia manica della tunica.
Le vestali si affrettarono con bacili e panni di lino e in pochi minuti lavarono e ripulirono il Rex che indossò una candida tunica indirizzando un sorriso alla Gran Sacerdotessa che lo ricambiò chinando impercettibilmente il capo. Prima di abbandonare l’arena si inginocchiò di fronte al simulacro della Dea che avrebbe custodito ancora fino alla prossima sfida. Altri adepti intanto avevano rinchiuso il corpo e le viscere del giovane ucciso in un sacco mortuario e lavato il sangue dal terreno.
Ancora un’ora e l’alba sarebbe sopraggiunta. I membri della setta si preparavano a lasciare il sito e ritornare ognuno alla propria vita.
Il Pontefice Massimo prese sottobraccio il Rex mentre si avviavano verso le automobili: “Stavolta ho avuto paura, amico mio. Forse è giunto il momento di pensare al tuo ritiro dalla carica di Rex Nemorensis. La settimana prossima ci vedremo nel mio ufficio. Dobbiamo organizzare l’adunanza con gli altri grandi sacerdoti. Sta per arrivare il momento in cui torneremo a occupare il posto che ci spetta.”
Marcus fingeva di ascoltarlo con attenzione. Invece il suo sguardo era fisso sul corpo statuario della Gran Sacerdotessa che, vestita ora con un aderente tailleur si apprestava a salire in auto per tornare alle sue normali occupazioni. La donna si girò per un attimo a guardare i due uomini. Li salutò con un cenno della mano senza sorridere, poi entrò nell’abitacolo.


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