Gli scrittori della porta accanto

Amarcord la cabina telefonica

Amarcord la cabina telefonica

Di Elena Genero Santoro. Prima degli smartphone, prima ancora dei primi cellulari, quando fuori casa si era sempre irraggiungibili, c'era lei: la cabina telefonica.

Passeggiando sul lungo mare di Imperia, ho notato qualcosa che mi ha sorpreso. Seminascosta da un oleandro, c’è una coppia di cabine telefoniche funzionanti.
Primo pensiero: "Toh, guarda, non le hanno ancora smantellate".
Secondo pensiero: "Chi le userà mai?"
A giudicare dalle ragnatele che ci sono dentro, direi poche persone.
Ma la cosa più divertente, è stata condividere con i miei figli (bimba di sei anni e maschietto di tre) questa simpatica scoperta, tant’è che ho sacrificato ben 30 centesimi (molto più di quanto avrei speso con il cellulare) per una telefonata di pochi minuti a mia madre.
E pensare che c’è stato un tempo in cui chiamare dal cellulare aveva un costo proibitivo.

I miei figli erano divertiti, ma le più grasse e incredule risate se le sono fatte quando tentavo loro di spiegare che quello stanzino lercio, con quell’apparecchio unto attaccato, una volta era l’unico modo di telefonare quando ci si trovava fuori casa.
Dopodiché ho iniziato a raccontare loro come si viveva fino a qualche decina di anni fa...

In un mondo in cui sono circondata da colleghe impegnate a whatsappare con figlie adolescenti (“Dove sei? Cosa fai? Quando torni?”), realizzo che la mia adolescenza dissoluta è stata ben diversa.

Per quanto i miei genitori tentassero, esattamente come quelli di oggi, di avere un controllo assoluto su di me e sulle mie azioni, dovevano rassegnarsi ad attendere le mie chiamate quand’ero a zonzo.
Vent’anni fa la sottoscritta si alzava alle 6:15, prendeva l’autobus delle 6:50 e tutti i sacrosanti giorni raggiungeva il Politecnico, da cui usciva verso le 18:00. Se avevo bisogno di qualcosa, chiamavo casa col telefono pubblico del corridoio ed ero sempre attenta ad avere una scheda telefonica carica nel portafoglio.
Quel che invece non poteva accadere era l’inverso.

Quando ero fuori casa nessuno poteva rintracciarmi. Sparivo per tutta la giornata ed ero di fatto irreperibile. Oggi tutto ciò ci sembrerebbe inconcepibile.

Non dico che fosse meglio allora, infatti quando rincasavo non sapevo mai cosa potesse attendermi! Una sera, scesa dall’autobus, lessi un manifesto funebre. La defunta era omonima di mia nonna, lì per lì mi prese un colpo. Mia nonna è poi mancata qualche mese dopo un venerdì all’alba, quando io ero a casa, però in teoria la faccenda sarebbe anche potuta andare come avevo temuto: mia nonna poteva morire mentre ero a scuola e al mio ritorno l’avrei trovata quasi sepolta.

Invece oggi con Whatsapp ogni evento, anche minimo, viene comunicato in real time.

A quattordici anni facevo i campi estivi in montagna con la parrocchia. Nella casa della colonia c’era una stanza con un telefono ancora più giurassico che andava a gettoni. No gettoni, no chiamata, quindi nello zaino dovevo premurarmi di mettere anche quelle tipiche monetine coi solchi. Se avevo voglia della mamma, l’unico modo per sentirla era quello. Poi nella settimana di campo per tre giorni sparivamo nel rifugio e ogni contatto diventava impossibile.
Ora la mia domanda non è come potevo sopravvivere io, ma come poteva sopravvivere mia madre? Io oggi, a ruoli inversi, non ce la farei… Anche perché io mediamente una volta al giorno quando ero in vacanza mi facevo sentire, ma a diciotto anni, durante una tournée estiva con il coro gospel di cui ho fatto parte fino a ventitré anni, mi sono innamorata. Per quattro giorni non ho capito più niente, mi sono eclissata del tutto e mia madre non me l’ha ancora perdonata!

I primi cellulari sono poi comparsi alla fine della mia università.

Erano i primi, giganteschi Motorola, che costavano cinquecento mila lire, uno sproposito per il niente che sapevano fare (telefonate e sms, stop). In famiglia ne avevamo comprato uno e chi usciva di casa se lo portava dietro. Il mio ultimo anno al Politecnico mi ha visto con il Motorola nello zainetto.
Ricordo che in facoltà c’era sempre qualcuno che disquisiva sull’utilità o meno del telefono mobile. All’inizio il telefonino aveva anche molti strenui oppositori, che però poi si sono convertiti tutti.
Qualche mese dopo, con i miei risparmi, ho acquistato il mio primo Alcatel, per trecentomila lire. Era il dicembre 1999. La Omnitel (divenuta poi Vodafone) aveva iniziato ad abbassare le tariffe. Ho cambiato molti gestori inseguendo le tariffe migliori, ma il mio numero è ancora quello. Ormai è proprio il mio, mi appartiene tanto quanto il codice fiscale.

I miei figli tutte queste cose le ascoltano sgranando gli occhi.

Per loro il cellulare è quel mini computer che telefona, fotografa, manda messaggi e contiene numerosi giochini divertenti e colorati. Il resto ormai è storia. E nonostante tutto, la cabina telefonica non è morta, anzi si è persino evoluta. Ora manda anche SMS email e fax. Non ho ancora capito come ci riesca, ma cercherò di indagare.

di Elena Genero Santoro


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