Gli scrittori della porta accanto

Sa femina agabbadora, storia o tradizione letteraria?

Quale profumo invade oggi il mio salotto, preannunciando l’arrivo della nuova ospite? È aroma di miele e ginepro.

Eccola varcare la soglia: l’aroma è, adesso, ancora più intenso: l’orbace della gonna e le ciocche dei capelli brizzolati sanno di salsedine, e farina, e tizzoni, e brace, e candele che si consumano in chiesa, e lana di pecora, e sughero, e fieno raccolto negli stazzi. È l’aroma antico della mia terra.
Oggi il dialogo sarà uno scambio di sguardi, le mie iridi nocciola a cercare i suoi neri spinelli incastonati in pietra di luna, e di sussurri, perché una parola basta, due sono troppe. Certe cose si sanno, non si dicono.
L’agabbadora (variante del più conosciuto “accabadora”) è seduta accanto a me. Lei avvolta nel tradizionale abito nero da vedova, io stretta in cristalli rosa e chiffon, eppure sorelle, figlie dello stesso sangue, svezzate dalle stesse mammelle della nostra Isola.
Le guardo le mani, ha svolto la professione di levatrice, ossia di “sa mastra de paltu”, al servizio della vita, ma anche della morte. «Che poi sono la stessa cosa, inscindibili come il giorno e la notte, come il bene e il male. Senza uno, l’altro non si definisce», mi dice, ieratica.
Ma davvero in Sardegna si praticava una forma di eutanasia legata alla pietà, ma eseguita tramite un barbaro colpo di bastone ligneo, detto “matzolu”? Davvero?
Seguitemi a ritroso nel tempo.
Siamo nel III secolo a.C., quando i vecchi, secondo una tradizione di ascendenza ellenica, venivano uccisi, tramite l’ingerimento di una pianta velenosa, e sacrificati a Saturno, dio del Tempo. La morte così indotta lasciava sul viso una particolare smorfia di dolore che tutt’oggi conosciamo: il riso sardonico, dal nome l’erba assassina, quello che Omero descrisse sulle labbra di Odisseo.
Da tale arcaica cerimonia sarebbero, in seguito, derivate le figure di “sas feminas agabbadoras” che, come Parche, recidevano il destino di coloro che erano topi nel morso di una morte felina, che giocava con il loro martirio, protraendone l’agonia straziante?
Accadde davvero o si tratta di una mera leggenda, rielaborata fra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, quando, per i Romantici, la Sardegna era il luogo mitico dell’ignoto?
“Acabài”, in spagnolo “acabàr”, vuol dire “finire” nel senso di uccidere, o nel senso di risolvere e portare a termine?
Siamo alle prese con la Storia o con un simbolo, ennesimo, della Donna quale manifestazione vivente della Grande Dea Madre?
E se dividessimo l’appellativo e lo scomponessimo in tre parti, confrontandolo con il greco dorico, cosa potrebbe accadere?
AC deriverebbe da aken, ossia silenziosamente; CABO da Kataballo, ossia uccidere, e DORA da tor, che definisce colui che agisce. Ossia Colei che uccide silenziosamente.
La verità, dunque? Ah no, quella la mia ospite non ce la svela, la copre con il suo scialle eburneo, come fosse una jana, ossia una fata notturna, che teme la luce della parola.

ANTOLOGIA DELLA FEMINA AGABBADÒRA

di Pier Giacomo Palas
Galluras editore
cartaceo 20,00€

Nel 1993, abbattendo un muretto a secco in uno stazzo di Luras, Pier Giacomo Palas trovò un martello di legno e dei frammenti di orbace nero. Da questa scoperta, che fu l’esito agognato di una annosa passione, nasce il suo saggio intitolato “Antologia de la femina agabbadòra”, edito nel 2012.
Attraverso una attenta e scrupolosa raccolta di documentazioni raccolte a partire dal Settecento, di aneddoti, scovati anche sul web, di tesi di laurea e di spettacolari fotografie in bianco e nero, l’autore, proprietario del Museo Etnografico Galluras, dove il prima citato reperto rinvenuto è esposto, ci conduce per mano attraverso millenni, sollevando il velo della leggenda.




di Emma Fenu
Nata e cresciuta respirando il profumo del mare di Alghero, ora vive, felicemente, a Copenhagen, dopo aver trascorso un periodo in Medio Oriente. Laureata in Lettere e Filosofia, ha, in seguito, conseguito un Dottorato in Storia delle Arti. Scrive per lavoro e per passione.


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