Gli scrittori della porta accanto

Fuga sull'isola, un racconto di Franco Mieli

Quell’escursione sull’isola l’aveva programmata da tempo. 
Eppure, quando giunse il momento, gli sembrò come una conquista, l’ottenimento di un premio dopo una lunga battaglia, l’agognata ricompensa dopo enormi sacrifici. Certo, la stagione era molto avanti, rispetto a quando avrebbe voluto intraprenderla. Ma gli impegni di lavoro e la famiglia non gli avevano permesso di organizzarla prima. 
Così, stava ritto sul ponte di prua del traghetto, scrutando in lontananza il profilo scuro della terra che si avvicinava, come un antico capitano in vista della sua isola del tesoro. Interiormente si sentiva un po’ vigliacco. Si era dato alla fuga da tutto e da tutti. Dai contrasti con Carla, la moglie, dai confronti con i figli, che superata ormai l’adolescenza e avviati a diventare giovani uomini rivendicavano un loro spazio, che lui non si sentiva pronto a concedere. Era scappato dal lavoro, dalle responsabilità, che ormai sentiva come un peso, una barriera insormontabile invece di un ostacolo da affrontare e superare, come aveva fatto per tutta la vita.
Con Carla non s’intendeva più, non erano più in sintonia su niente, dall’educazione dei figli alle scelte per la famiglia. E poi lei non capiva quella sua nuova mania, come la chiamava, della scrittura, quel suo rinchiudersi nello studio per delle ore, a fare che? Possibile che lei non capisse? A lui serviva per riempire il vuoto lasciato proprio da lei, dai figli ormai grandi. O forse perché aveva qualcosa da dire? Non lo sapeva. 
Stava andando sull’isola anche per questo suo capriccio; per trovare l’ispirazione, per scrivere il grande romanzo
Ora, il profilo imponente dell’antico vulcano, ricoperto di scuri lecci, si ergeva davanti a lui, mentre il traghetto stava per attraccare. Angelo alzò lo sguardo sulla maestosa cima, lo fece scendere in basso sui lussureggianti vigneti, che contendevano la terra alla macchia mediterranea, giù giù fino alla piana, pullulante di ville e villette abusive, di alberghi e finalmente di case di pescatori. 
Aspirò l’odore di nafta del porto, misto a quello della salsedine, e fu il primo a scendere quando il battello si fermò e sollevò la prua. Prima di giungere in albergo, si fermò a un’edicola, dove comprò una cartina dell’isola e una guida illustrata dell’interno. L’avrebbe studiata la sera stessa. 

La mattina seguente, tramite la direzione dell’albergo, prenotò il giro dell’isola in pullman, pratica disdicevole per un turista d’avventura, come si definiva lui, ma utile per conoscere i luoghi d’interesse principali; poi, in quelli che avrebbe ritenuto interessanti, ci sarebbe andato da solo.
“Buongiorno, signori. Mi chiamo Antonio e oggi sarò il vostro autista, la vostra guida, la vostra scorta e anche il vostro capo, ¾ esordì il tizio alto, dalla corporatura asciutta e dai capelli lunghi, precocemente imbiancati, scendendo dal bus che li avrebbe portati a spasso per l’isola ¾ dovrete guardare dove dirò io, e non altrimenti. Fare silenzio quando spiego, e, quando faremo delle soste, rispettare l’ora di raduno che vi dirò, altrimenti sarete lasciati a piedi”. 
Ripetè la spiegazione in inglese e in tedesco; ad Angelo piacquero subito i suoi modi ironici e spicci; così, salendo sul pullman insieme agli obesi e anzianotti compagni di viaggio, si accomodò in prima fila per studiare da vicino quel tipo così singolare. Chissà, avrebbe potuto essere un soggetto su cui scrivere qualcosa. 
Mai scelta fu più indovinata. La gita si rivelò veramente interessante, e le esilaranti battute del personaggio, autista e guida nello stesso tempo, tennero allegra tutta la comitiva. Fu durante una sosta per gustare una spremuta d’arancia in un bar di proprietà di un parente di Antonio, che Angelo lo avvicinò.
“Posso offrirle io la spremuta?” gli chiese sorridendo. 
“Va bene paisà” rispose Antonio, fissandolo con i suoi occhi nerissimi. 
“Complimenti. Si vede che fa il suo lavoro con passione.” 
“Io sono nato qui, e ogni volta che porto una comitiva di turisti a fare il tour dell’isola, non è mai come la volta precedente, anche se conosco ogni sasso, ogni cespuglio, ogni sentiero.” 
“Sarebbe disposto a farmi da guida? In escursioni un po’ particolari, all’interno dell’isola, in cerca di posti inusuali, fuori dai normali giri turistici, intendo.” 
“D’accordo, lei mi è simpatico…” 
“Angelo, mi chiamo Angelo.” 
“Questo è il mio biglietto da visita. Mi chiami, informandomi dove vuole andare, ed io organizzerò la gita. Del prezzo parleremo poi.” 
Così si salutarono, promettendo di sentirsi al più presto.

La sera, prima di cena, telefonò a Carla: “Ciao, come stai?” 
“Come sempre, normale” fu la laconica e consueta risposta. 
“Ho conosciuto un tizio che mi farà da guida nelle prossime escursioni, una persona molto simpatica ed esperta.” 
“E quanto ti spillerà per le sue consulenze?” 
Angelo tacque. Non riusciva a trasmetterle neanche un grammo del suo entusiasmo, della sua ansia di vivere. 
“Ancora non lo so. Ma vedrai, non sarà un problema. Ciao, ci sentiremo domani.”

La mattina seguente, zaino in spalla e scarponcini da montagna ai piedi, uscì di buon’ora dall’albergo. Era ancora così irritato dalla telefonata con Carla la sera prima, che tralasciò di chiamare Antonio. Prese un autobus di linea, che lo portò fino al punto di partenza di un percorso che aveva studiato la sera prima sulla mappa. Era una piazzetta di una piccolissima frazione. La mappa indicava un sentiero a sinistra di una chiesetta intonacata di bianco, e lui s’incamminò. Presto la salita si fece ripida, il sole di settembre già bruciava sotto la camicia e ogni tanto si doveva fermare per ripararsi e riprendere fiato sotto qualche secolare castagno. Passò accanto a contorti vigneti, carichi di grappoli dorati, pronti alla vendemmia; costeggiò odorosi cespugli di mirto e di ginepro. Poco dopo i vigneti finirono, e i terrazzamenti abbandonati erano già preda della macchia mediterranea, che tentava di riprendersi ciò che l’uomo aveva lasciato: ginestre, corbezzoli, roverelle, eriche lottavano contro felci, lentischi e rovi, che lentamente stavano riconquistando lo spazio destinato loro da madre natura. 
Il sentiero proseguiva fiancheggiando un bosco di lecci e dopo mezz’ora di faticosa camminata, accompagnato solo dal frinire delle cicale e dallo stridio dei corvi che volteggiavano in alto, sbucò all’aperto, su un pianoro di roccia bianca. Guardò in basso: il mare era una distesa incendiata dal sole e dal vento. Poteva sentire il rumore delle onde sugli scogli e il profumo del rosmarino portato dal vento di ponente. L’aria salata e il frastuono delle onde lo riempivano di energia e con la mente dispiegò le ali e si librò nell’aria, planando poi in quel mare di un azzurro abbacinante, tuffandosi e riemergendo dalle sue onde poderose. 
Il romanzo della sua vita gli venne in mente, pagina dopo pagina. Tirò fuori dalla borsa il suo taccuino per prendere appunti, per non far dissolvere in pochi attimi quel flusso di pensieri e d’idee meritevoli, a suo giudizio, dei più grandi premi letterari. L’avrebbe fatto vedere a Carla di cosa era capace. Scribacchiò per una decina di minuti quelli che gli sembravano essere grandi concetti, e quando fu certo di aver fissato il tutto sulla carta, ripose il taccuino, ed estrasse dallo zaino la cartina dell’isola. La dispiegò davanti a sé per esaminare la via del ritorno, quando, per scacciare una vespa che gli ronzava intorno, abbandonò la presa, e una raffica più forte di vento, prima la sollevò in alto, poi la trascinò in basso, giù giù verso gli scogli. Persa. La osservò con rammarico volteggiare come un enorme gabbiano, per poi diventare sempre più piccola, scossa da folate rabbiose, finché sparì del tutto alla vista. Pazienza. Avrebbe fatto senza mappa. 
Mangiò con calma il pranzo al sacco preparato dall’albergo e si accinse a ritornare. Si avviò lungo il sentiero per il quale era salito. La discesa era facile e Angelo, con la mente e il passo leggeri, procedeva tra una folla di ginestre, euforbie e fichi d’india. Si addentrò in una scura lecceta, avendo una vaga sensazione che il percorso non fosse quello dell’andata. Gradatamente le querce sostituirono i lecci e ad Angelo sembrò di sentire il rumore di una cascata. La cercò e la trovò a una svolta del sentiero; acqua torbida, fangosa, che scendeva da un’enorme parete di tufo a picco su una profonda gola di erosione. Capì di aver sbagliato strada; se non voleva tornare indietro, doveva calarsi dentro di essa. Non sembrava difficile; qualche escursionista aveva disposto proprio lì una provvidenziale corda e Angelo gli mandò un sommesso ringraziamento. 
La discesa non fu poi così difficile e a mezza costa ritrovò un sentiero scavato nella roccia. Riprese le speranze, lo imboccò, procedendo in discesa per qualche minuto. 
A una svolta, ecco la sorpresa. Proprio in corrispondenza della curva il sentiero era crollato, eroso dalle forti piogge della passata stagione. Doveva saltare o tornare indietro; non aveva più molto tempo; il sole aveva già cominciato la discesa verso il mare. Esitò per un istante, poi l’adrenalina ebbe il sopravvento. Spiccò il salto, cercando di aggrapparsi alla parete. Sembrava avercela fatta, quando la roccia cominciò a franargli sotto i piedi. Cadde per qualche metro, avvertendo un forte dolore alla caviglia e batté la testa sul pietrisco che gli franava sopra. Scivolò ancora per una decina di metri, finché una provvidenziale ginestra, cresciuta strappando il nutrimento alla roccia, bloccò la sua caduta. 
E ora? 
Il dolore alla caviglia era forte, ma sopportabile; guardò in alto: pareti rocciose a picco, impossibile tentare una scalata. Guardò in basso: l’arbusto di ginestra era l’unica cosa che lo tratteneva da una rovinosa caduta di centinaia di metri; non riusciva a vedere il fondo dell’orrido nel quale rischiava di precipitare. Tentò di muoversi, con il solo risultato di provocare la caduta di altro pietrisco. Nulla da fare, era immobilizzato. Aveva anche dolore dietro alla schiena, come un sasso che gli premeva contro. Con sollievo si accorse che era il suo zaino. E dentro lo zaino c’era il cellulare. Era salvo. Se lo sfilò faticosamente e rischiando mille volte di farlo cadere in basso, estrasse il mai tanto bramato strumento. Compose subito il 112; poi il 113, il 118. Niente. Non c’era campo! Nessuna dannata tacca; era completamente isolato. 
Intanto il sole era scomparso nel mare color cobalto e il buio incombeva, come uno spettro maligno. Un venticello fresco aveva cominciato a soffiare da occidente, facendogli venire i brividi. Cercò di non farsi sopraffare dal panico, ma la paura della morte si affacciava prepotente nei suoi pensieri. Carla! Come avrebbe fatto senza di lui. Forse avrebbe fatto benissimo. O forse era lui, con il suo modo di fare, a determinare certi suoi atteggiamenti difensivi, certe sue ritrosie. In verità lui era troppo supponente, pieno di sé, sicuramente un egoista. Contava solo quello che voleva lui. Dei desideri degli altri non teneva alcun conto. Aveva allontanato da sé anche i figli, con quel suo egoismo, quel suo decidere per gli altri. Tutto preso nei suoi progetti, non afferrava che i loro desideri e le loro aspirazioni potessero essere diversi da quelli che lui aveva programmato per loro. Com’era stato cieco a non vedere questo, e sordo alle loro richieste di dialogo. Adesso non c’era più tempo per riparare. 
Sarebbe morto, lasciando quel cattivo ricordo di sé. Perché questo sarebbe successo. Però, quelli dell’albergo, non vedendolo rientrare per cena, si sarebbero preoccupati, avrebbero dato l’allarme, l’avrebbero cercato. E dove? Non aveva neanche detto dove sarebbe andato. Non lo sapeva neanche lui stamattina. 
Guardò di nuovo il cellulare. Riprovò a fare i numeri del soccorso. Niente. Completamente fuori campo. Cominciava a stare scomodo e provò a cambiare posizione togliendo una gamba dall’abbraccio salvifico con la ginestra. Fu un errore, perché cominciò subito a scivolare in basso insieme alle pietre e al terriccio. Era finita; si chiuse a riccio, senza tentare di opporsi alla caduta, aspettando il momento in cui sarebbe precipitato nel vuoto. Un acuto dolore alla schiena lo sorprese e lo scivolone si arrestò. Era buio pesto ormai, ma capì che era stato bloccato da un grosso masso sporgente dal terreno. 
Guardò in alto, sperando di vedere per l’ultima volta le stelle, quando la colonna sonora di Guerre Stellari eruppe dalla sua mano ancora stretta a pugno. Prendeva! Ora prendeva! 
“Pronto!Pronto!” rispose con voce concitata. 
“Angelo? Ciao, sono Antonio, l’autista. Ascolta, per domani organizzo…” 
“Antonio! Aiutami! Aiutami!” 
“Ma che succede?” 
In pochi secondi lo mise a conoscenza della sua difficile situazione. 
“Angelo, mantieni la calma e descrivimi esattamente dove ti trovi.” 
“E’ tutto buio. Non vedo nulla.” 
“Prima di cadere, che ti ricordi?” 
“Un bosco, prima di lecci, poi querce. E una cascata; di acqua torbida, solfurea.” 
“Va bene. Ora rimani fermo e aspetta. Non muoverti assolutamente. Capito?” 
Aspettò per un tempo che gli parve lunghissimo, in un dormiveglia reso agitato dai dolori e dai rimorsi che lo assalivano, dalla comparsa di una febbriciattola che cominciava a sentirsi addosso, finché non avvertì un vociare teso, nervoso. Fu illuminato dal raggio di una torcia elettrica; e finalmente la voce amica di Antonio: ”Eccolo laggiù. Portate le corde, che lo andiamo a prendere.”

L’effetto dei sedativi durò un giorno intero. Al risveglio, in ospedale, Angelo si trovò di fronte la figura allampanata di Antonio: “Ehi scrittore; che mi combini? La prossima volta che vuoi fare Indiana Jones, chiamami, che ti do qualche dritta.” 
“Antonio, amico mio! Che telefonata provvidenziale. Non finirò mai di ringraziarti. Ma ora, cerca il mio cellulare; voglio chiamare la mia famiglia. Ho tante cose da farmi perdonare.” 
“Non serve il cellulare; glielo potrai dire di persona.” 
E dietro ad Antonio, comparve Carla con Giorgio e Luciano, i due figli. 
“Avrai tempo per dirci tutto quanto, Angelo ¾ disse Carla ¾ abbiamo prenotato per due settimane nel tuo albergo. Finalmente faremo una vacanza tutti insieme.”




Franco Mieli
Da ragazzo scrivevo nel giornalino della scuola. Poi per decenni le varie fasi della vita mi hanno fatto abbandonare questa mia passione. Da circa 4 anni, con i figli ormai grandi, ho deciso di riprendere la scrittura. Coltivo la passione per l’archeologia e il trekking di cui ho trasferito le esperienze nei miei racconti.


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