Gli scrittori della porta accanto

La luna sul lago, un racconto di Ornella Nalon

Continuerò ad azzardare, a cambiare, ad aprire la mente e gli occhi, rifiutando di lasciarmi incasellare e stereotipare. Ciò che conta è liberare il proprio io: lasciare che trovi le sue dimensioni, che non abbia vincoli
Virginia Woolf, Diario di una scrittrice
La luna è piena, questa notte. Un volto pallido e gigantesco che mi osserva, benevolo, dall’alto. Irradia luce argentea e tenue, quel tanto che basta a delineare gli alberi, attorno a me, che si stagliano, come grandi ombre, verso il cielo. Si specchia nelle acque calme del lago e le rischiara per un grande tratto.
Calma, tranquillità, silenzio, interrotto soltanto dalla serenata di qualche un grillo e dal bubolare lontano di un gufo.
Chiudo gli occhi, per qualche secondo e mi concentro ad assaporare gli odori blandi che possono giungermi all’olfatto; colgo un’essenza di muschio, di terra bagnata dalla rugiada e un aroma floreale indefinito. Mi inebrio di essi; sanno di natura, di solitudine cercata, di libertà.
Libertà: quanti significati può avere questa parola! Ogni persona, al mondo, potrebbe tradurla in maniera diversa, a seconda del peso che sente dei propri legami. I miei erano grevi e stretti, talmente stretti che cominciavano a incarnirsi nella pelle. Facevamo male e li ho strappati di netto.
Ora sono libero? No, non lo sono del tutto, perché la libertà assoluta è un’utopia. Ma lo sono in maniera sufficiente per addormentarmi con l’animo leggero ed alzarmi, il mattino, con la stessa leggerezza.
Vivo di musica ed è quanto ho sempre voluto, ed è quanto mi basta.

«Alzati Luca, è tardi! Possibile che ti debba chiamare dieci volte, ogni mattina?»
Per la decima volta aprii gli occhi e poi li richiusi, mi tirai il lenzuolo fin sopra la testa, per mitigare quel lieve bagliore che filtrava dalla finestra. Avrei voluto che fosse ancora notte per continuare a dormire. Non era per il sonno, ma per l’assenza di entusiasmo.
Non avevo voglia di alzarmi, per ripetere, ogni giorno, gli stessi gesti insulsi e imposti che mi rendevano un burattino senza anima e cuore, mosso soltanto da fili azionati da altri.
Ho preso la laurea per far piacere a mia madre. Povera donna! Una vita di duro lavoro per garantire, al suo unico figlio, tutto quello che lei non ha potuto avere.
Mi diceva sempre: «Devi studiare, soltanto un titolo di studio ti potrà permettere un lavoro ben retribuito senza doverti spaccare la schiena».
Ogni giorno una nuova ruga le solcava il volto; oramai, della sua giovanile bellezza, sciupata dalla fatica e dai dolori, restava ben poco. Come potevo confidarle che la mia unica aspirazione era quella di suonare la chitarra? Fare soltanto musica sarebbe stato il mio intento, che andava a contrastare le sue più pratiche aspettative.
La facoltà di economia e commercio l’ho scelta quasi a caso; tra le innumerevoli possibilità che mi si presentavano e che non muovevano alcun mio interesse, forse era quella che più mi si addiceva.
Mi sono ingobbito sopra i libri per cinque lunghissimi anni, lasciandovi pure un paio di diottrie ma, alla fine, un bel foglio di pergamena portava il mio nome stampato sopra. Era un traguardo di certo, ma non era il mio e mi avrebbe lasciato del tutto indifferente se non fosse stato per la luce d’orgoglio che ho visto riflessa negli occhi di mia madre.
Pensando a tutti quei giovani che avrebbero fatto carte false per trovare subito un posto di lavoro, mi sono sentito un ingrato quando ho vinto il concorso per un posto di cassiere in una banca ed era come se fossi stato invitato a un funerale.
«Tesoro, grazie al cielo, la fortuna ti assiste!» esclamò mia madre, quasi commossa, paragonando il mio sicuro e comodo futuro lavoro con quello sfibrante di mio padre. Non che fare il camionista fosse stata una delle mie più grandi aspirazioni, tanto più che al mio povero genitore era costato pure la vita, tuttavia, non me la sentivo di prostrarmi ai piedi della dea bendata.
Giornate intere a distribuire banconote, a sorridere a persone per lo più scontrose che mi guardavano senza vedermi, volti che si susseguivano indistinti, in un carosello incessante e monotono.
Quanto avrei potuto resistere se non mi fossi sorretto alla mia unica passione? Quando le mie dita toccavano le corde della chitarra, si librava una musica magica che scioglieva tutte le mie frustrazioni.
Non succedeva spesso, negli ultimi tempi, ma quelle due serate a settimana che riuscivo a suonare con i miei amici, erano sufficienti a sopportare i miei affanni.
Quasi sempre, ci riunivamo in un magazzino attinente alla casa di Giovanni, che avevamo insonorizzato alla bene meglio. Vi trascorrevamo dalle tre alle quattro ore a serata, provando in continuazione i repertori dei nostri cantanti preferiti, ubriacandoci più di note che di birra.
Quelli, erano gli unici momenti in cui la gioia, l’esaltazione, l’appagamento, riuscivano a emergere e prendere il sopravvento sul grigiore della consuetudine.

Avrei voluto suonare per tutta la mia esistenza, fare della musica il mio lavoro e il mio scopo di vita, ma ero costretto a relegarlo solamente a qualche ritaglio di tempo.
Avrei potuto sopportarlo, nonostante tutto. Con la sola promessa di qualche ora di libertà, avrei continuato a sottomettermi al dovere, forse per sempre. Ma quando anche questa è venuta a mancare, si è aperto un baratro, davanti ai miei passi. Continuare per la strada che mi si era prospettata, significava caderci dentro, in un vuoto profondo da cui non sarei più emerso.
«Non ce la faccio più, ragazzi, ho troppi impegni!» disse Giovanni che era arrivato con mezz’ora di ritardo a uno degli ultimi incontri.
«Non sapete quanto mi dispiace, ma devo eliminare qualcosa dalla mia vita, altrimenti scoppio! Dal momento che non posso mollare la famiglia e nemmeno il lavoro, non mi resta che fare questa scelta. Posso venire ancora a suonare, ma senza impegno».
Giovanni era il bassista e cantante; senza di lui come potevamo continuare a suonare il rock? Tanto più che anche Luca, fattosi forza della scelta dell’amico, esternò la sua difficoltà a proseguire con i nostri incontri bisettimanali.
Non potevo crederci! Eravamo cresciuti assieme, percorso la stessa strada e condiviso la stessa passione per oltre quindici anni e ora finiva tutto!
«No, vi prego, non lasciate! Non capite che ne va del mio equilibrio mentale?» avrei voluto supplicarli e invece me ne stavo zitto, ad ascoltare le loro assurde motivazioni e a guardare le loro espressioni, leggermente contrite, ma anche sollevate.
Avevano scelto di essere più liberi, sacrificando il mio unico anelito di libertà.
Quella sera, ci salutammo con una pacca sulla spalla e la promessa di ritrovarci appena gli impegni ce lo avrebbero permesso, ma io sapevo che il nostro gruppo si era definitivamente sciolto in quel momento.

Claudia ne fu felice. Non me lo disse apertamente, sapendo che avrebbe mosso le mie ire, ma lo capivo dal suo volto. Aveva l’espressione soddisfatta di chi si è liberato da un fastidio. Non era mai riuscita ad accettare, a cuor leggero, quegli appuntamenti fissi che avevo con i miei amici. Forse, per una subdola forma di egoismo, che mi avrebbe voluto totalmente dedicato a lei o, magari, per gelosia, subodorando di essere messa al secondo posto dopo la musica. In effetti, non era così o, comunque, non propriamente. Io amavo Claudia, di un amore romantico e profondo. Ciò nonostante, sapevo che non avrei mai potuto renderla felice. I nostri progetti non coincidevano, le nostre aspettative addirittura opposte.
Io credo che ci siano dei giusti momenti per ogni cosa; per giocare, per imparare, per divertirsi, per maturare, per l’esigenza di crearsi una famiglia. Ecco, i nostri tempi non coincidevano. Per lei la fase della famiglia era già arrivata, per me, ancora lontana anni luce. Possibile che lei avesse raggiunto anche la maturità e io per niente, ma questa era quanto.
Con tutta probabilità, riteneva che lo scioglimento del mio gruppo musicale apportasse un vantaggio per i suoi piani, concependo l’improbabile equazione: meno distrazioni, uguale più sobrietà.
Tuttavia, non aveva considerato che la musica, per me, era come l’ossigeno; mi era indispensabile per la sopravvivenza. Per lei avrei barattato qualunque cosa, amore compreso.

Quella mattina, dopo il decimo risveglio, ebbi un’illuminazione. In quell’attimo, presi la decisione più importante della mia vita. Decisi di recidere ogni legame, di liberarmi da ogni imposizione e di compiere un percorso, finalmente, scelto da me stesso. Il proprio essere si può sopprimere per un certo periodo ma, alla fine, prenderà sempre il sopravvento. Magari tardi, ma quel momento era arrivato anche per me.
Scostai le tende dalla finestra; la luce vivida del sole che penetrò nella stanza, sembrò benedire la mia decisione. Mi vestii con i primi indumenti che mi capitarono in mano, preparandomi, emotivamente, ad affrontare mia madre.
Lei era in cucina e mi guardò con un’espressione perplessa, cogliendo, all’istante, un sentore di novità poco gradite.
«Questa mattina non vado a lavoro. Ho deciso che, finalmente, voglio vivere a modo mio. Me ne andrò per un po’ di tempo a inseguire il mio sogno di libertà».
«Cosa significa che te ne andrai e dove?» chiese lei incredula, totalmente spiazzata dalla mia asserzione.
«Non so ancora dove andrò, ma so che mi allontanerò da questo posto. Non ha importanza dove, bensì come. Lascio tutto, mamma, porterò con me soltanto la mia chitarra; l’unica compagnia che desidero e che ho trascurato per troppo tempo».
«Ma non pensi a me, alla tua ragazza, ai tuoi amici?».
«Ho trascorso trent’anni a pensare a te e agli altri, ti prego, adesso consentimi di pensare a me stesso».
«E’ pazzesco quello che vuoi fare. Come pensi di vivere?».
«Quella che tu chiami pazzia è la decisione più saggia che io abbia mai preso. Promettimi di non preoccuparti per me, riuscirò a cavarmela, stanne certa. So che mi ami e che desideri soltanto il mio bene, ecco, questo è ciò che voglio e che mi renderà felice».
«Quando tornerai?».
«Quando avrò trovato il mio equilibrio, quando imparerò ad amare le persone più della musica e comincerò a provare nostalgia di ciò che ho lasciato».

Quello fu un giorno molto triste. Non risultò facile abbandonare le persone che amavo, né sopportare il senso di colpa per il dolore che stavo loro infliggendo. Dovetti sostenere il peso di molte lacrime, di offese e di ricatti morali, ma nulla di questo riuscì a incidere sulla mia risolutezza.
Il primo mattino del giorno successivo ero già a bordo della mia utilitaria; nel bagagliaio una piccola valigia con pochi abiti messi alla rinfusa, sul sedile posteriore la mia amata chitarra, nella tasca della giacca i miei quattro risparmi e nel mio animo la leggerezza di chi, dopo un’infinità di tempo, si sente in pace con il mondo.
Il frinire dei grilli, ora, mi giunge come una cantilena che asseconda e alimenta la mia sonnolenza. Mi abbandono al torpore come un bimbo tra le braccia della sua mamma; tranquillo come le acque del lago, sereno come il cielo che mi fa da manto.


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