Gli scrittori della porta accanto

L'inferno nei disegni e nelle parole dei bambini di Terezin

L'inferno nei disegni e nelle parole dei bambini di Terezin

Poeticamente Di Stefania Bergo. Terezin era un ghetto sito nei pressi di Praga. Fra i prigionieri, circa 15.000 furono bambini, compresi i neonati. Ne sopravvissero meno di cento.

Terezin è un incubo ricorrente negli occhi di chi è sopravvissuto. Una realtà da cui chiunque vorrebbe scappare.
Ai bambini non era risparmiata alcuna fatica, nessun occhio di riguardo. Soffrivano fame e sete e violenza come tutti gli altri deportati in qualsiasi altro campo nazista. Ma grazie all'insegnamento clandestino messo in atto durante la ghettizzazione e alla presenza di intellettuali reclusi, artisti e musicisti, questi bambini hanno lasciato una testimonianza della loro vita a Terezin, attraverso migliaia di disegni e poesie.

Bambini cresciuti prima del tempo. Bambini che non cresceranno mai.

Bambini che indosseranno per sempre un paio di "scarpette numero ventiquattro" senza rovinarle mai. Perché "i bambini morti non consumano le suole".
Le parole delle poesie di Terezin sono a volte di una freddezza disarmante, di quella lucida pazzia che precede la morte, alimentata dalla straziante consapevolezza di un destino inesorabile. Nulla hanno a che vedere con le infantili esternazioni dei bambini, non c'è alcuna traccia di innocenza se non come luce in fondo ad un tunnel, sprazzo vitale, incoscienza che acquieta la mente, oblio che nega la realtà, almeno per pochi istanti. Come il battito d'ali di una farfalla gialla. L'ultima. Una fanciullezza negata che a tratti riemerge. Più spesso si arrende ad un cinismo che mette in ginocchio anche il lettore. Impotente. Come lo furono i genitori cui questi bambini vennero strappati, per morire come orfani.

La farfalla

L’ultima, proprio l’ultima,
di un giallo così intenso, così
assolutamente giallo,
come una lacrima di sole quando cade
sopra una roccia bianca
così gialla, così gialla !
L’ultima,
volava in alto leggera,
aleggiava sicura
per baciare il suo ultimo mondo.
Fra qualche giorno
sarà già la mia settima settimana
di ghetto:
i miei mi hanno ritrovato qui
e qui mi chiamano i fiori di ruta
e il bianco candeliere del castagno
nel cortile.
Ma qui non ho visto nessuna farfalla.
Quella dell’altra volta fu l’ultima:
le farfalle non vivono nel ghetto.

Bambini che provano empatia per i vecchi, bambini che anelano la morte come salvezza per un corpo che non riesce più a sopportare il dolore, per gli occhi che non riescono più a guardare l'orrore. Occhi che continuano a vedere anche quando sono chiusi.
Vorrei andare sola dove c’è un’altra gente migliore, in qualche posto sconosciuto dove nessuno più uccide. Ma forse ci andremo in tanti verso questo sogno, in mille forse … e perché non subito?

Disegni e poesie virano da un passato di bambini felici, al loro drammatico presente di allora. 

I ricordi dei giochi, dei colori, degli abbracci di mamma e papà sono lame che fendono la carne e sanno far male quanto le sferzate dei nazisti. Di contro, le rappresentazioni delle baracche del ghetto, delle brande a tre piani, degli ospedali. Della morte.
Un bambino non dovrebbe essere in grado di rappresentare la morte. E invece i bambini di Terezin ce la raccontano come fosse una consueta compagna di giochi. Una compagna che li terrorizza, perché li decima uno ad uno, divertendosi sadicamente a dare spettacolo, come succede ai vitelli nei mattatoi. Ognuno di loro è così morto due volte: quando il sangue ha cessato il suo giro, in realtà il corpo ha già assorbito, attraverso le immagini e le grida, l'odore della nera Signora. Eppure, in alcune poesie, più che rassegnazione si avverte un guizzo vitale,  emerge l'istinto di sopravvivenza, forse la speranza di un domani a colori. Perché i bambini non vogliono morire, restano attoniti e increduli di fronte all'inspiegabile crudeltà dei grandi, quelli che li dovrebbero proteggere. Loro credono ancora in un mondo migliore...

È così

In quella che è chiamata la piazza di Terezìn
è seduto un piccolo vecchio
come se fosse in un giardino.
Ha la barba e un berretto in testa.
Col suo ultimo dente
mastica un pezzo di pane duro.
Mio Dio, col suo ultimo dente:
invece d’una zuppa di lenticchie
povero superstite.

Il giardino

È piccolo il giardino
profumato di rose,
è stretto il sentiero
dove corre il bambino:
un bambino grazioso
come un bocciolo che si apre:
quando il bocciolo si aprirà
il bambino non ci sarà.

La paura

Di nuovo l’orrore ha colpito il ghetto,
un male crudele che ne scaccia ogni altro.
La morte, demone folle, brandisce una gelida falce
che decapita intorno le sue vittime.
I cuori dei padri battono oggi di paura
e le madri nascondono il viso nel grembo.
La vipera del tifo strangola i bambini
e preleva le sue decime dal branco.
Oggi il mio sangue pulsa ancora,
ma i miei compagni mi muoiono accanto.
Piuttosto di vederli morire
vorrei io stesso trovare la morte.
Ma no, mio Dio, noi vogliamo vivere!
Non vogliamo vuoti nelle nostre file.
Il mondo è nostro e noi lo vogliamo migliore.
Vogliamo fare qualcosa. È vietato morire!

Ho letto il libro I bambini di Terezin quasi trent'anni fa, ormai non è nemmeno più in commercio. Mi sono sorpresa di come alcune delle poesie siano rimaste indelebili. 

Già allora hanno segnato un solco profondo, come le ruote dei carri nazisti sulla fronte dei bambini.
Pesanti ruote ci sfiorano la fronte e scavano un solco nella nostra memoria.
Dimenticare non è possibile. O meglio, dimenticare dovrebbe essere impossibile. Così come non lo è per i pochi bambini sopravvissuti, oggi vecchi che continuano a disegnare l'orrore della guerra, un tormento che non li lascerà più respirare senza sentire un peso metallico sul petto. 
Ricordare è per noi, meri spettatori, un dovere. Lo dobbiamo alle vittime sacrificate su un lugubre altare quasi ottant'anni fa. A chi l'olocausto lo vive ancora oggi, nel ricordo e nella quotidianità di un mondo che pare aver invece scordato ogni cosa. 


Stefania Bergo


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