Gli scrittori della porta accanto

[Professione lettore] L'editoriale di Ornella Nalon: “Io che vi parlo”, intervista a Primo Levi, dopo trent'anni una preziosa biografia


Giovanni Tesio, ordinario di letteratura italiana presso l’Università del Piemonte Orientale, nonché amico e biografo ufficiale di Primo Levi, ha deciso di pubblicare l’intervista che gli ha fatto, in vista di una biografia autorizzata, poco meno di trent’anni fa. Gli incontri avvennero nell’arco di tre settimane nel Gennaio del 1987, solo due mesi prima della tragica morte dello scrittore.
Trent’anni sono un lasso di tempo lunghissimo che sottintende un profondo rispetto nei confronti del grande scrittore e della sua famiglia, tanto che lo stesso Tesio ha detto: “Primo Levi mi diceva spesso che queste erano confessioni da tradurre. Doveva nascere una biografia autorizzata e mi sono sempre chiesto cosa avrebbe pensato Levi di questa intervista, ho sempre avuto scrupolo nei suoi confronti. Senza l’approvazione di chi ha rilasciato l’intervista resta sempre qualcosa di irrisolto”.
Per contro, la decisione di pubblicarla evidenzia il desiderio e forse la necessità di dare all'amico ancora una volta voce. Sarebbe stato un autentico scempio non condividere con la collettività le ultime parole di quest’uomo timido, garbato e discreto che sa parlare con l’animo e all’animo di ogni lettore.
Ed ecco, dunque, che a fine marzo,  Einaudi ha messo in commercio “Io che vi parlo”, un libro che corre sul filo della memoria, in cui il grande Levi racconta di sé, della sua infanzia, della scuola, dei giochi, delle gite in montagna, della famiglia, della sua giovinezza non propriamente felice, degli anni di formazione durante il fascismo, degli amici, dell'innata timidezza, delle profonde ferite inflitte dal campo di Auschwitz che gli ha minato il corpo e ancora di più lo spirito, tanto da lasciargli quel profondo senso di colpa per essere ancora vivo che sarà, si presume, anche la causa o concausa della sua unica, tragica resa. Un senso di colpa profondo che si riscontra in numerosi suoi scritti ed che è perfettamente descritto in alcuni brani di I sommersi e i salvati

Hai vergogna perché sei vivo al posto di un altro? Ed in specie, di un uomo più generoso, più sensibile, più savio, più utile, più degno di vivere di te? Non lo puoi escludere: ti esamini, passi in rassegne i tuoi ricordi, sperando di ritrovarli tutti, e che nessuno di loro si sia mascherato o travestito; no, non trovi trasgressioni palesi, non hai soppiantato nessuno, non hai picchiato (ma ne avresti avuto la forza?), non hai accettato cariche (ma non ti sono state offerte…), non hai rubato il pane di nessuno; tuttavia non lo puoi escludere. E’ solo una supposizione, anzi, l’ombra di un sospetto: che ognuno sia il Caino di suo fratello, che ognuno di noi (ma questa volta dico “noi” in un senso molto ampio, anzi universale) abbia soppiantato il suo prossimo, e viva in vece sua. E’ una supposizione, ma rode; si è annidata profonda, come un tarlo; non si vede dal di fuori, ma rode e stride...
[...] E c’è un’altra vergogna più vasta, la vergogna del mondo. E’ stato detto memorabilmente da John Donne, e citato innumerevoli volte, a proposito e non, che “nessun uomo è un’isola”, e che ogni campana di morte suona per ognuno. Eppure c’è chi davanti alla colpa altrui, o alla propria, volge le spalle, così da non vederla e non sentirsi toccato: così hanno fatto la maggior parte dei tedeschi nei dodici anni hitleriani, nell'illusione che il non vedere fosse un non sapere, e che il non sapere li alleviasse dalla loro quota di complicità o connivenza. Ma a noi lo schermo dell’ignoranza voluta, il “partial shelter” di T.S.Elliot, è stato negato: non abbiamo potuto non vedere. Il mare di dolore, passato e presente, ci circondava, ed il suo livello è salito di anno in anno fino quasi a sommergerci. Era inutile chiudere gli occhi o volgergli le spalle, perché era tutto intorno, in ogni direzione fino all’orizzonte. Non ci era possibile, e non abbiamo voluto essere isole; i giusti fra noi, non più né meno numerosi che in qualsiasi altro gruppo umano, hanno provato rimorso, vergogna, dolore insomma, per la colpa che altri e non loro avevano commessa, ed in cui si sono sentiti coinvolti, perché sentivano che questo era avvenuto intorno a loro, ed in loro presenza, e in loro, era irrevocabile. Non avrebbe potuto essere lavato mai più; avrebbe dimostrato che l’uomo, il genere umano, noi insomma, eravamo potenzialmente capaci di costruire una mole infinita di dolore; e che il dolore è la sola forza che si crei dal nulla, senza spesa e senza fatica. Basta non vedere, non ascoltare, non fare...

IO CHE VI PARLO
Einaudi  
ISBN 9788806229290
cartaceo 10,20€  | Acquista 


La trama. La famiglia, l'infanzia, gli anni di formazione durante il fascismo, gli amici dell'adolescenza, le letture, la timidezza, la passione per la montagna. E ancora la guerra, il ritorno a casa e un mestiere «che è poi un caso particolare, una versione più strenua del mestiere di vivere». Quasi trent'anni di silenzio per questa fitta conversazione che Primo Levi ha intrecciato nei primi mesi del 1987 con Giovanni Tesio, in vista di una convenuta «biografia autorizzata». Domande discrete e mai troppo incalzanti a cui Levi risponde con una disponibilità vigilata ma a tratti molto esplicita, che spariglia il risaputo, lasciando trasparire un lato di sé più intimo. E ci regala un dialogo intenso che corre sul filo della memoria, carico di vita, di storie e di Storia; un dialogo che si interrompe proprio prima di Auschwitz. Una interruzione dovuta alla morte improvvisa di Levi.

Torniamo ancora un poco sull’amicizia. Sentivi la differenza dell’amicizia maschile e di quella femminile?
«Qui tocchi un tasto molto delicato, perché io ero un timido, un timido patologico, per cui avevo delle amicizie femminili, ma si fermavano lì. La mutazione, il salto della barricata è arrivato per me estremamente tardi, dopo Auschwitz. È un argomento di cui parlo con un certo imbarazzo, una certa difficoltà. Sta di fatto che io ero un inibito, lo si vede dalle cose che ho scritto. Io ero fortemente inibito, anche per via delle campagne razziali, perché era un taglio netto. Molte ragazze, con le buone, senza offendere, si allontanavano, ma io cercavo proprio quelle con cui non potevo avere rapporti».

Cercare chi ti respinge?
«Forse sì, ma io questo lo lascio agli altri. Di fatto ho avuto parecchie amicizie femminili, ma nessuna è sfociata in amore».

Neanche con la compagna d’università con cui – ne hai parlato sotto mentite spoglie nel Sistema periodico – vi scambiavate le letture?
«Neanche. Cioè, sì. Io ne ero vagamente innamorato, ma in modo estremamente casto». E ne soffrivi? «Sì, ne soffrivo tremendamente, soffrivo in modo pauroso perché vedevo tutti i miei amici che ci passavano da questa esperienza, avevano esperienze anche sessuali. Io no e ne ho sofferto in un modo spaventoso, fino a pensare al suicidio».

Ma tu nel complesso ti giudichi una persona di natura vincente?
«Mah! Io mi ritengo uno che ha combattuto parecchie battaglie. Che ne ha perse alcune e ne ha vinte altre. Devo avere una certa forza profonda, perché sono sopravvissuto ad Auschwitz, questa è una grossa battaglia. Anche come chimico ho sopportato sconfitte, ma ho vinto parecchie volte. Poi, come scrittore. Mi sono ritrovato a diventare uno scrittore quasi mio malgrado, ho aperto un capitolo nuovo. Mi è venuta addosso a scalini, prima in Italia e poi all’estero, questa ondata di successo che mi ha squilibrato profondamente, mi ha messo nei panni di qualcuno che non sono io».

A volte, nelle tue opere questo tuo limite si avverte. Come se esistesse una sorta di barriera al di là della quale tu non riesci ad andare... Una sorta di resistenza
«Certamente c'è. Ce n'è traccia – questo te lo posso anche dire – nelle prime pagine di Se questo è un uomo. Si accenna a una donna, io questa donna l'ho corteggiata a modo mio, mettendola molto in imbarazzo, perché si rendeva conto della mia estrema timidezza e irresolutezza. Siamo stati catturati insieme, anzi in un modo abbastanza banale. Eravamo nascosti nel Col di Joux, siamo scesi insieme per non so quale missione politica e ci è stata offerta l'ospitalità a valle per non risalire la notte. Noi abbiamo rifiutato, non mi ricordo bene per quale ragione, e siamo saliti di notte, siamo stati arrestati e io ho portato sovente un senso di colpa».
Per avere favorito involontariamente l'arresto?
«In più questa donna ha tentato il suicidio per non farsi deportare, si è tagliata le vene, poi se le è fatte ricucire. Insomma, io ho portato il peso di questa morte – perché poi è morta – fino a quando ho incontrato la mia attuale moglie. Per me era proprio una situazione disperata, essere innamorato di una persona che non c'era più, in più averne provocato la fine e questo penso che si senta...» 

Un piccolo spaccato della profonda sensibilità di un uomo che nemmeno la deportazione e la barbarie di cui è stato oggetto e testimone, sono riusciti a debellare. Primo Levi si chiede e ci chiede "se questo è un uomo". Non c'è ombra di dubbio che lui lo sia stato!



Ornella Nalon
I miei hobby sono: il giardinaggio, la buona cucina, il cinema e, naturalmente, la scrittura, che pratico con frequenza quotidiana. Scrivo con passione e trasporto e riesco a emozionarmi mentre lo faccio. La mia speranza è di trasmettere almeno un po’ di quella emozione a coloro che leggeranno le mie storie.
Quattro sentieri variopinti”, Arduino Sacco Editore
Oltre i Confini del Mondo”, 0111 Edizioni
Ad ali spiegate”, Edizioni Montag
Non tutto è come sembra”, da 0111 Edizioni.



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