Gli scrittori della porta accanto

Widad Tamimi sul burkini: i condizionamenti che proteggono e quelli che intrappolano

Widad Tamimi sul burkini: i condizionamenti che proteggono e quelli che intrappolano

A cura di Ornella Nalon. La scrittrice Widad Tamimi e la polemica sul burkini: «L'Occidente ha saputo diventare casa di molte libertà, come quella di superare i condizionamenti che educano e proteggono con il rischio di diventare condizionamenti che intrappolano e vanno superati».

Il clamore e le polemiche per il divieto di indossare il burkini su alcune spiagge francesi si sono un po' smorzati, vuoi per via della stagione estiva che sta volgendo al termine, vuoi per il fatto che altri eventi si sono succeduti, ad attirare l'interesse dei media e della gente. Ciò non toglie che in me, al riguardo, sia rimasta una certa confusione.

Sulle spiagge occidentali è corretto vietare l'uso di un costume che identifica immediatamente l'appartenenza ad altra etnia e la mancata integrazione con i propri usi?

Alla domanda, mi si apre un bel numero di considerazioni e supposizioni che non mi consentono di arrivare a una risposta che mi convinca del tutto, anche se, istintivamente, sarei orientata per il totale rispetto della libertà individuale, quando questa, ovviamente, non interferisca con il buon senso comune, il rispetto e la libertà altrui.
Certo che il mio essere occidentale e non sufficientemente edotta della cultura islamica, innegabilmente incide su una valutazione poco obbiettiva della questione, per cui ho pensato bene di porre la domanda di cui sopra alla scrittrice Widad Tamimi, le cui origini per metà sono arabe.
Di madre ebrea e padre palestinese, autrice di Le rose del vento, come ricorderete ho avuto il piacere di ospitare Widad Tamimi tempo fa (Un'esclusiva lettera aperta della scrittrice Widad Tamimi ai nostri lettori: resistere alla paura, alla discriminazione, al pregiudizio) e anche questa volta ha dimostrato la sua squisita disponibilità inviandomi il testo integrale di un pezzo pubblicato in versione ridotta sul n. 35 di Vanity Fair e che ora proponiamo per i nostri lettori.

Tre donne, tre islam. Tre storie, tre realtà differenti.

Sabah. Il peso dei condizionamenti stratificati in anni e secoli di storia.

Una mattina come un'altra, alle prime luci dell'alba, Sabah si preparava per uscire di casa. La prima lezione cominciava presto e lei, pendolare da una zona di periferia, impiegava quasi due ore a raggiungere l’Università. Sovrappensiero, abituata a quel rituale da anni, prese il foulard, lo puntò sulla testa, ripiegò gli angoli ai lati e, con un gesto rapido, una sorta di meccanismo istintivo, lo premette sotto il mento per fissare lo spillino nel tessuto.
Come ogni mattina uscì dalla propria stanza, percorse il corridoio fino allo specchio sopra il mobile di legno, si voltò per controllare la spessa linea di kajal attorno agli occhi, prima di entrare in cucina, dove sua madre la attendeva per il consueto caffè insieme, loro due sole. Ma quella mattina, scevra soltanto dall'aggravante della premeditazione, non sarebbe stata una mattina come tutte le altre.
Sabah, colta da un raptus improvviso, atto secco e teatrale, inconsciamente destinato ad abbreviare i tempi e a ridurre la fatica di una inesorabile metamorfosi, si strappò di dosso il velo. Con le dita scosse i capelli, come a spolverarli dal peso dei condizionamenti stratificati in anni e secoli di storia.
Molto tempo dopo, in una vacanza al mare con la madre, Sabah ripensa a quella mattina. Lo sconvolgimento nella sua famiglia, credente, praticante e molto tradizionale, era stato devastante. Eppure inevitabile. Come inevitabile è perseverare nella ormai lucida affermazione del binomio che la lega ai suoi, nell'amore e nella diversità.
«Mamma, sia chiaro: tu vestiti come vuoi, ma questo è il mio bikini.» Sfodera un due pezzi nero nuovo di zecca con lo stessa determinazione di un guerriero con la sciabola. Madre e figlia sono in spiaggia: Sabah mostra ventre, braccia e gambe; la madre si rifugia su una sedia sotto l’ombrellone, vestita di tutto punto, con tanto di velo sulla testa. Sabah si massaggia la pelle con creme e olii abbronzanti, la madre legge una rivista per signore. Chiacchierano, fanno le parole crociate, passano una bella giornata insieme. Niente di più, niente di meno.

Amal. La religione è una scelta personale e sostanziale che deve svincolarsi dagli usi sociali e dai costumi. L'abbigliamento è un condizionamento sociale, non un atto religioso.

Amal era sempre stata certa che non si sarebbe sposata. Per scelta, per sottrarsi al martirio della vita domestica e alle privazioni che sapeva non avrebbe tollerato. A cominciare dalle limitazioni della carriera, che era stata brillante, seguita rapidamente alla laurea in matematica, con posizioni di tutto rispetto in aziende giordane ed internazionali, cui non intendeva rinunciare.
Viveva da sola, alle volte ospitava fratelli e sorelle più giovani, poi con gli anni i nipoti, che sosteneva agli studi affinché si laureassero. Fino al traguardo dei suoi quarant’anni, festeggiati in Italia, a seguito di una rivoluzione non programmata. L'amore, bello e inaspettato come in ogni storia che fulmina, l’aveva saputa strappare alla promessa di vivere da sola. Fatte le valigie e comprato l'abito da sposa, era partita per unirsi al suo amore arabo e musulmano, ma – al contrario di lei – non praticante.
Amal si veste in modo discreto e poco appariscente come aveva sempre fatto, il velo non l’aveva mai portato, certa che l'abbigliamento è un condizionamento sociale, non un atto religioso. Digiuna nel mese di Ramadan, si rivolge alla Mecca cinque volte al giorno, non beve alcolici e non mangia carne di maiale, ma dedica tempo ed attenzioni ai capelli spessi e corvini che le cadono, invidiabili, sulle spalle. I figli li ha educati all'Islam, eppure ascolta i loro dubbi e discute le esigenze giovanili della sperimentazione. Crede nell’essenzialità delle cose, Amal, e nel confronto.
La religione è una scelta personale e sostanziale che deve svincolarsi dagli usi sociali e dai costumi. L’ostentazione, del troppo nudo così come del troppo coperto, stona.

Nadira. Decide di mettere il velo, per lei diventa di importanza fondamentale l’atto di appartenenza alla comunità musulmana.

Nadira non era praticante. Non era neppure certa di essere credente, se non per adesione alla tradizione, cosi come spesso accade con la pratica religiosa, quando essa è soltanto condivisione passiva di un tessuto storico sociale, non rivitalizzata da una decisione personale e trasformata in un sistema di valori della propria vita. Nadira era una donna curata, profumata di vanità, forse persino un po’ succube dei capricci della moda. Fino a un momento cruciale, quando un’esperienza di malattia irrompe nella sua vita a relativizzare tutto.
Nadira si angoscia, si interroga, cerca conforto e risposte di senso che la quotidianità' non sa offrirle. Si affida e confida nella fede. I passaggi sono graduali: prima la preghiera, poi il Ramadan, infine decide di mettere il velo. Per lei diventa di importanza fondamentale l’atto di appartenenza alla comunità musulmana e parte integrante del suo percorso di ricerca. Il marito rispetta la sua decisione, ma non aderisce alle scelte della moglie. Musulmano per tradizione, non avverte l'esigenza di praticare. Accetta con comprensione, non giudica, osserva rispettosamente la trasformazione della moglie in attesa del passare del tempo che guarisce, restituendo equilibrio e misura ai cambiamenti radicali.

Tre donne, tre storie, tre realtà differenti. Tre donne che vivono in Occidente e che sono accomunate da un tratto forte di personalità, quello di non poter rinunciare alla propria autodeterminazione.

L’opzione o la rinuncia dei segni e simboli della spiritualità islamica sono, più profondamente, l’espressione della propria indipendenza intellettuale.
Tutte e tre si giocano con libertà nei confronti dei condizionamenti, in quella dialettica costante e dinamica che caratterizza l’evoluzione di ciascuno di noi. Ci sono infatti da principio condizionamenti che educano, che proteggono, che ordinano, che strutturano, con il rischio di diventare, per alcuni, condizionamenti che inevitabilmente intrappolano e vanno superati.
È la maturazione della capacità di discernimento che ci permette di distinguere tra ciò che dobbiamo attivamente riconfermare nella sua validità perché ci appartiene e ci espande, da ciò che passivamente soffoca.
La libertà totale dai condizionamenti è un’utopia, importante è il rapporto vitale ed evolutivo nei confronti dei vincoli, dei costumi e delle tradizioni. La libertà di coscienza e l’indipendenza intellettuale sono una conquista esistenziale e culturale che avanza tra strappi e ricuciture, non linearmente, ma a salti e attraverso il complesso reticolo delle condizioni individuali e dei contesti relazionali che costellano le nostre vite. Animatrice di questo processo è l’inquietudine, intesa come insieme di non rassegnazione alla staticità, curiosità e apertura della mente, ingrediente essenziale per la trasformazione del pensiero e degli stili di vita. È lei a permetterci di confrontarci e magari scontrarci con i principi di coloro che ci hanno cresciuto, anche a costo della sofferenza acerrima che ogni recisione magari radicale comporta, ma a consentirci anche di investire in una ricostruzione diversa, cosi come di abbracciare valori e costumi che non credevamo fino ad ora i nostri.
Queste tre storie declinano in modo diverso questi cambiamenti. Essi erano a volte già preparati e rimasti sommersi in attesa di una scintilla, altri erano connaturati ad una non comune indipendenza della personalità, altri infine avevano rivestito, in un particolare momento della vita, un patrimonio di sicurezze consono a vestire le fragilità dell’animo.
L'Occidente ha saputo diventare casa di tutte queste libertà, rinunciarvi sarebbe un vero peccato.
Widad Tamimi

Ringrazio sentitamente Widad Tamimi per la sua risposta che, se pur non diretta, ha contribuito a fare chiarezza in me e, ne sono certa, a regalare a voi una lettura bella ed intensa.


Ornella Nalon


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