Gli scrittori della porta accanto

[Libri] "Cercando Grace Kelly" di Michael Callahan, incipit #93

Dicembre 1955. “Può andare” conclude tamponandosi ancora una volta con un fazzolettino.


Cercando Grace Kelly

di Michael Callahan
Piemme

ebook 9,99€
cartaceo 13,00€
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Si sposta appena dal tavolo da toeletta per un ultimo controllo. Forse ancora un tocco di cipria chiara per dare più luce. Chiude l’astuccio con uno scatto, si alza e si allontana dallo specchio. Un’ultima lunga occhiata: tailleur di lana di buona fattura (quindici dollari da Oppenheim Collins sulla West 34th Street), un filo di perle, guanti, cappello. Da quando è diventata grande abbastanza da capirci qualcosa di moda, ha sempre obbedito a un solo e unico comandamento, che è poi quello di Edna Woolman Chase, redattrice di «Vogue»: «La moda la si può comprare. Lo stile bisogna possederlo».
Si infila il cappotto. Non resterà fuori a lungo ma dovrà comunque uscire. Respira a fondo.
“Sono pronta.”
Sarà il caso di prendere la borsa? Sì, dentro ci sono i suoi documenti. La infila sulla piega del braccio, poi beve l’ultimo sorso di whisky dal bicchiere di cristallo sulla toeletta e se lo sente scendere in gola, caldo e forte. Le sfugge un sorriso guardando valigia e cappelliera accanto alla porta. Tutt’e due vuote. Grazie a Dio nessuna delle ragazze le ha sollevate prima di andarsene. L’avrebbero subito scoperta. E allora cos’avrebbe fatto?
Esce in corridoio. Tutto tace. È l’ultimo venerdì prima di Natale. Buona parte delle ragazze è fuori. Le più fortunate sono uscite con qualche ragazzo, e saranno a bere champagne in un posto come lo Stork, le altre già su treni e autobus che le riportano a casa per le vacanze, con le valigie piene e una scorta di bugie sulla loro vita spumeggiante nella grande città. Le poche rimaste sono sparpagliate in giro per l’edificio: le “Zitelle”, come tutti le chiamano anche se non apertamente, rinchiuse ciascuna dietro la sua porta, con la sola compagnia di una tazza di tè tiepido e di un cruciverba.
Passa davanti agli ascensori. Se ne prendesse uno dovrebbe sopportare le domande dell’operatrice, perennemente affamata di storie. Passa invece dalla porta in fondo al corridoio e imbocca le scale, cominciando un’ascesa lenta e costante.
Quindici minuti più tardi apre la porta che dà sull’esterno e avverte il soffio freddo dell’aria notturna. È senza fiato dopo tutte quelle scale con i tacchi alti, ma inspira con piacere l’aria gelida che le penetra nei polmoni. Esce sulla veranda e ammira New York, la splendida, meravigliosa, inebriante New York che brulica di vita, una storia dietro ogni minuscola finestra illuminata: qualcuno, qualcosa, cuori spezzati e trionfi e gioia e dolore e stupidità e tristezza e sesso e risate e tradimento e solitudine.
Un altro respiro profondo, e appoggia le mani sulla balaustra. “È una splendida notte per morire.”

Giugno 1955 

Era curioso che un posto così grande, con tutta quella gente che si affrettava in ogni direzione, potesse essere così silenzioso. Eppure nella Grand Central, più che il frastuono che ci si sarebbe aspettati nella “stazione per eccellenza”, si avvertiva un ronzio basso e costante, come un flusso continuo di elettricità alimentato da centinaia e centinaia di persone che si sfioravano e incrociavano.
Laura avrebbe voluto rimanere lì. Restarsene semplicemente immobile ed “esserci”. Ferma, invisibile e tranquilla, vicino all’elegante orologio nel bel mezzo dell’atrio, a studiare le facce di ogni persona che andava e veniva. Immaginare le loro storie, inventare vicende di innamorati riuniti dopo lunghe separazioni, che si correvano incontro mentre il sole li inondava di luce dall’alto, come in una cattedrale, dai finestroni lunghi e stretti. In momenti come quelli il suo corpo sembrava vibrare d’energia. Poteva scrivere le loro storie. Le avrebbe scritte. Era per quello, in fondo, che era venuta.
Guardò di nuovo l’orologio. L’una.
“Meglio che telefoni.”
Trascinò le valigie verso una serie di cabine telefoniche e scivolò nell’ultima della fila. «Centralino?» chiese. «Vorrei fare una chiamata a carico del destinatario a Greenwich, Connecticut. Greenwich-1, 3453, per favore.»
Rispose David. Per avere undici anni, aveva una strana fissazione per il telefono e voleva sempre rispondere lui: nessuno capiva perché ma tutti glielo lasciavano fare, grati che non avesse manie peggiori. Suo cugino Donald, per esempio, lo avevano scoperto a provarsi di tanto in tanto i gioielli della madre: tutti lo sapevano ma facevano finta di niente. Di certe cose non si parlava, nella famiglia Dixon.
«Ehi, grand’uomo, sono Laura» gli disse, godendosi l’evidente gioia nella sua voce mentre la travolgeva con una valanga di domande, sul viaggio in treno, sull’appartamento – aveva rinunciato a spiegargli ogni volta che era solo una stanza – in cui doveva ancora mettere piede.
«No, no, no» stava dicendo cercando di interromperlo. «Sono ancora alla stazione. Prometto che ti scriverò una lunga lettera per raccontarti ogni dettaglio, appena avrò qualcosa da raccontare. Quello che posso dirti è che ho già comprato una cosa per te.»
Mancò poco che uscisse direttamente dalla cornetta per venirsela a prendere: «Cosa?! Cosa?!».
«L’ultimo Batman. Credo che qui arrivino prima che da Carson.» Ormai in pieno delirio, cominciò a insistere per sapere cosa c’era in copertina, di cosa parlava la storia. Laura trafficò per tirare fuori dalla borsa il numero di luglio di «Detective Comics». «Le milleuno fughe di Batman e Robin» riferì, descrivendo la copertina con Batman e il suo fido compagno legati come salami e sul punto di affogare. Marmy non approvava che David leggesse i fumetti – «non sarà certo Superman a farlo entrare a Yale» era il suo assioma preferito – ma il padre di Laura ribatteva che era sempre meglio quello che starsene tutto il giorno davanti al televisore. «Te lo farò avere tramite Marmy, appena viene a trovarmi.»
«No, no» protestò il ragazzo. «Lei lo butterà via e basta.»
Non aveva torto. «Oh, va bene. Allora facciamo così: lo nascondo dentro un altro regalo per te. Visto che idea? Così riceverai ben due cose, da New York».
Così rabbonito, andò a cercare sua madre. Laura si era immaginata Marmy in attesa accanto al telefono, invece sentì David che urlava su per le scale, dicendole di prendere il ricevitore. Forse aveva uno dei suoi mal di testa.
Sentì crepitare l’altro apparecchio. «Riappendi pure, David» disse sua madre. Si sentì il clic del telefono della cucina. «Bene, allora sei arrivata sana e salva? Sei già in albergo?»
«No, sono ancora alla Grand Central Station. È...»
«Terminal, cara. Si chiama Grand Central Terminal. Devi essere precisa, Laura. Le vere signore sono sempre precise.»
Laura inspirò bruscamente. «Certo» borbottò. Le sarebbe piaciuto dire a sua madre che non era poi così importante essere precise, non era quello che contava. Sarebbe stato molto più importante, in quel momento, starsene seduta giù all’Oyster Bar, a sorseggiare un Tom Collins chiacchierando argutamente con un commerciante di St Louis che la considerasse la ragazza più affascinante e sofisticata mai conosciuta e che non avesse mai sentito parlare di Greenwich, Connecticut, né avesse la minima intenzione di metterci piede.
Ma non poteva e sapeva che non l’avrebbe fatto. Bastava una parola sbagliata e si sarebbe ritrovata di nuovo a Greenwich prima di sera. E forse non avrebbe avuto una seconda occasione.
«Ricordati. Io e zia Marjorie saremo lì fra quindici giorni, per andare a comprare il resto del tuo guardaroba» stava dicendo Marmy. «Non possiamo certo farti lavorare in Lexington Avenue se non ti presenti al meglio delle tue possibilità.»
«È solo per un mese» le rammentò Laura.
«È “Mademoiselle”, Laura. Non puoi entrare nella redazione della migliore rivista per ragazze d’America e non essere all’altezza della parte.» Le sfuggì un sospiro di stanchezza. «Andremo da Bendel e da Bergdorf, ovviamente, e poi magari faremo anche un salto alla cappelleria Knox, se c’è tempo. La zia vorrà di certo pranzare al Colony Club, e mi porterà all’esasperazione, ma suppongo di non poterlo evitare.» Laura stava intanto guardando una donna che aveva indosso il nuovo abito a pois creato da B. Altman, e stava giusto per fare un commento, quando sua madre si schiarì appena la voce, il suo delicato segnale che la conversazione stava per finire. «Dirò a tuo padre che sei arrivata. Va’ subito in albergo, e richiamaci domani. Voglio sapere com’è la sistemazione, e se è tutto a posto.»
Dieci minuti dopo la città le sfilava accanto mentre il taxi sfrecciava lungo la Third Avenue in direzione della East 63rd Street. Laura avrebbe voluto vedere ogni minimo dettaglio ma si impose di trattenersi. “Ci sarà tempo per tutto” pensò. “Non sono una turista. Abito qui, adesso. Anche se solo per un mese.”
Le altre ragazze – come lei nominate “redattrici temporanee” di «Mademoiselle» con l’incarico di preparare il consueto numero universitario di agosto – sarebbero tutte arrivate nel corso del weekend. Laura aveva supplicato Marmy e papà di lasciarla arrivare con qualche giorno di anticipo, per sistemarsi con calma ed essere più fresca e pronta delle altre quando si fossero presentate tutte insieme negli uffici della Street & Smith per il loro primo giorno di lavoro. Marmy era la competizione fatta persona, come potevano ben testimoniare le sue compagne di bridge. Ma arrivare il venerdì precedente era il meglio che fosse riuscita a strappare ai genitori. Se non altro, l’avevano lasciata venire da sola.
Il taxi accostò a sinistra e l’autista fermò il tassametro con una manata. «Quaranta cent, tesoro.»

Quarta di copertina
"Cercando Grace Kelly" di Michael Callahan, Piemme, 2016.

È l'estate del 1955 e tre ragazze arrivano a New York da tre angoli diversi d'America per seguire le proprie aspirazioni. Laura si prepara al suo nuovo lavoro nella redazione della rivista Mademoiselle, sapendo che se la moda si può comprare, lo stile invece no; Dolly arriva dalla provincia e ha lasciato la famiglia bigotta per diventare qualcosa di più che una moglie, anche se non sa ancora cosa; e Vivian, dai capelli rosso fuoco, per ora si mantiene vendendo sigari in un locale, e intanto insegue il sogno di cantare a Broadway. E per una ragazza di provincia decisa a cambiare la propria vita nella città che non dorme mai, c'è un solo posto dove stare: il famoso Barbizon Hotel, alloggio per sole ragazze dove sono cominciate le storie di tante altre come loro, che ora tutto il mondo conosce. Una per tutte, Grace Kelly - chissà, magari le ragazze la incontreranno durante quest'estate di sogni folli, nuove amicizie, nuovi amori... O forse no. Quel che è certo è che a New York troveranno molto, molto altro.
Con le stesse atmosfere di intramontabili classici newyorchesi come Colazione da Tiffany, con una perfetta ricostruzione storica degli anni Cinquanta, una romanticissima storia con tre irresistibili protagoniste, che vi ricorderanno come il sapore dei sogni sia quello più dolce di tutti.

★★★★★

Il buon giorno di vede dal mattino, dicono, e un buon incipit e una copertina accattivante possono essere il perfetto bigliettino da visita di un libro.
Secondo voi, quante stelline si merita il biglietto da visita di questo libro?

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