Gli scrittori della porta accanto

[Libri] "La donna di Einstein" di Marie Benedict, incipit #116

Mattina. 20 ottobre 1896. Zurigo, Svizzera.

incipit-la-donna-di-einstein

La donna di Einstein

di  Marie Benedict
Piemme
cartaceo 15,73€
ebook 9,99€

Lisciai le pieghe che si erano formate sulla camicetta bianca appena stirata, aggiustai il fiocco che mi cingeva il collo e rinfilai una ciocca vagabonda nella crocchia annodata stretta. La passeggiata fino al Politecnico federale svizzero per le umide e nebbiose vie di Zurigo si era divertita a farsi beffe del mio aspetto, curato meticolosamente. La cocciutaggine con cui i miei folti capelli scuri si rifiutavano di stare a posto era frustrante. Quel giorno volevo che ogni dettaglio fosse perfetto.
Raddrizzai le spalle, decisa a guadagnare almeno un filo di altezza su quella mia statura così minuta, e posai la mano sul pomolo d’ottone massiccio dell’aula. Istoriato con una greca usurata dalla stretta di generazioni di studenti, faceva sembrare minuscola la mia manina da bimba. Mi bloccai. Giralo e apri questa porta, forza!, ordinai a me stessa. Ce la puoi fare. Varcare una soglia del genere non è certo una novità, per te. Hai già superato tante sfide, e messo in discussione le differenze tra i sessi in un’infinità di occasioni, anche se tutti pensavano che non ci saresti riuscita. Ma ce l’hai fatta, sempre.
Ciò nonostante, esitavo. Sapevo fin troppo bene che il primo passo era certo il più difficile, ma il secondo non lo era poi molto di meno. In quell’istante, appena più lungo di un sospiro, riuscii quasi a sentire papà che mi incitava. «Sii coraggiosa» avrebbe sussurrato in serbo, rispolverando quella lingua nativa che tanto di rado usavamo. «Tu sei una mudra glava, una bella testa. Nel tuo cuore pulsa il sangue di una stirpe di banditi. Ricordi i briganti slavi nostri antenati? Ricorrevano a qualunque mezzo per prendersi ciò che gli spettava. Va’ a prendere quel che ti spetta, Mitza. Va’ a prendere ciò che è tuo.»
Non potevo deluderlo.
Ruotai il pomello e spalancai la porta. Sei volti mi fissarono: cinque studenti scurovestiti e un professore nerotogato. Visi pallidi, che si accesero all’istante lasciando trapelare grande turbamento, e un certo sdegno. Nulla – neppure le voci di corridoio – li aveva preparati a vedere davvero una donna nei loro ranghi. Con quegli occhi strabuzzati e le bocche spalancate avevano un’aria sciocca, ma sapevo bene che non era il caso di ridere. Mi costrinsi a non dare peso a quelle espressioni, a ignorare i visi terrei dei miei compagni che cercavano a tutti i costi di sembrare più grandi dei loro diciotto anni, con quei baffi pesantemente impomatati.

Era stata la ferma intenzione di padroneggiare la fisica e la matematica a condurmi al Politecnico, non il desiderio di farmi degli amici o di ricevere l’approvazione altrui. 

Rammentandolo a me stessa, mi feci animo e affrontai il docente.
Il professor Heinrich Martin Weber e io ci guardammo. Con il naso lungo, le sopracciglia folte e la barba curata, il famoso insegnante di fisica aveva un aspetto minaccioso all’altezza della sua reputazione.
Attesi che parlasse per primo. Agire in modo diverso sarebbe stato considerato un’impudenza bell’e buona e non potevo permettermi niente del genere, dato che in molti già consideravano un’impudenza la mia sola presenza al Politecnico. Tra la mia ostinazione a voler percorrere un sentiero quasi mai battuto e il conformismo che mi veniva comunque richiesto, mi muovevo sul filo del rasoio.
«E lei sarebbe?» Come se non mi stesse aspettando, come se non avesse mai sentito parlare di me.
«La signorina Mileva Marić, professore.» Pregai che la mia voce non risultasse tremula.
Con calma esasperante, Weber consultò il registro degli studenti. In realtà sapeva benissimo chi ero. Quale direttore del corso di fisica e matematica, che fino a quel momento aveva ammesso tra le sue file solo quattro altre donne prima di me, era a lui che avevo dovuto presentare la domanda per poter frequentare il corso quadriennale noto come Sezione VI A. Era stato lui in persona ad approvare la mia immatricolazione! Consultare l’elenco era un gesto plateale e calcolato, il modo per comunicare ai miei colleghi la sua opinione su di me. E così, implicitamente, dava a tutti loro il permesso di imitarlo.
«La signorina Marić dalla Serbia o giù di lì? Una regione austroungarica, comunque, ricordo bene?» chiese senza sollevare lo sguardo. Quasi che ci potesse essere un’altra signorina Marić nella Sezione VI A, una sbucata da un posto più decoroso. Con quella domanda aveva chiarito alla perfezione cosa pensava degli slavi: europei dell’Est, scuri stranieri in qualche modo inferiori alla stirpe germanica della ribelle, neutrale Svizzera. Ecco un altro pregiudizio che avrei dovuto sfatare, se volevo coronare il mio sogno. Come se essere l’unica donna della Sezione VI A – la quinta in tutta la storia a venire ammessa al corso di fisica e matematica! – non fosse già abbastanza difficile.
«Sì, professore.»
«Si accomodi» concesse infine, indicando la sedia vuota. Per mia fortuna, era la più distante dalla predella.
«Abbiamo già iniziato.»

Già iniziato? La lezione non sarebbe dovuta cominciare che di lì a quindici minuti! 

I miei compagni avevano ricevuto qualche comunicazione che a me non era arrivata? Avevano tramato per riunirsi prima? Avrei voluto chiederlo, ma mi trattenni. Sollevare una discussione sarebbe servito solo a mettermi tutti contro una volta di più. In ogni caso, non importava. La soluzione era semplice: l’indomani sarei arrivata con un quarto d’ora d’anticipo. E ancora prima, sempre prima ogni mattina, se si fosse reso necessario. Non mi sarei persa una sola parola di quelle lezioni. Se Weber credeva che dovermi svegliare presto mi avrebbe scoraggiata, si sbagliava. Ero figlia di mio padre.
Con un cenno d’assenso, gettai un’occhiata al lungo tratto che separava la porta dalla mia sedia e, come d’abitudine, calcolai il numero di passi che mi sarebbe occorso per coprirlo. Come gestirlo al meglio? In un primo momento pensai di ostentare un’andatura regolare e celare la claudicazione, ma il trascinarsi del piede zoppo riecheggiò nell’aula. D’impulso, optai allora per non nasconderla affatto. Avrei esibito apertamente davanti ai colleghi la malformazione che mi segnava sin dalla nascita.
Tonfo e trascinata. Ancora e ancora. Diciotto volte, finché non raggiunsi la sedia. Era come se stessi facendo una dichiarazione d’intenti a ogni strattone del mio piede difettoso. Eccomi qua, signori! Date un’occhiata, forza! Leviamoci il pensiero una volta per tutte.
Sudando per lo sforzo, mi resi conto che sui miei colleghi era calato un silenzio di tomba. Aspettavano che mi accomodassi e, forse imbarazzati dalla mia zoppia, o dal mio sesso, o da entrambi, avevano distolto lo sguardo.
Tutti tranne uno.
Alla mia destra, un giovanotto con una zazzera scarmigliata di riccioli scuri non mi levava gli occhi di dosso. In un gesto alquanto insolito per me osai incrociarne lo sguardo, ma persino quando lo fissai a viso aperto, sfidandolo a prendersi gioco dei miei sforzi, quegli occhi dalle palpebre un po’ cadenti non mutarono direzione. Al contrario, si incresparono agli angoli mentre il proprietario sorrideva sotto l’ombra scura gettata dai baffi. Un ghigno sconcertato. Ammirato, persino.
Chi credeva di essere? Cosa voleva dire con quell’occhiata?
Non avevo tempo di ragionarci mentre prendevo posto. Frugai nella borsa, estrassi carta, inchiostro e pennino e mi accinsi a seguire la lezione. Non mi sarei lasciata turbare dalla sfrontatezza e dall’eccessiva disinvoltura di un compagno privilegiato. Consapevole di quello sguardo sempre inchiodato su di me, ma agendo come se non lo fossi, mi concentrai sull’insegnante.
Weber, tuttavia, non era mosso dalla mia determinazione. O forse non era altrettanto indulgente. Fulminò il giovanotto con un’occhiataccia e si schiarì la gola; ma dal momento che non riuscì comunque ad attrarre la sua attenzione, lo riprese apertamente: «Herr Einstein, esigo l’attenzione di tutta la classe. È il suo primo e ultimo avvertimento!».

Quarta di copertina
"La donna di Einstein" di Marie Benedict, Piemme, 2017.

Ci sono amori che fanno la Storia.
C'è un personaggio nella vita di Albert Einstein senza il quale la sua storia - e la nostra - non sarebbero quello che sono. Fu il suo più grande amore, ma anche qualcosa di più: la donna che lo ispirò, lo incoraggiò e lo aiutò a concepire quella formula che avrebbe cambiato il mondo.
Mitza Maric era sempre stata diversa dalle altre ragazzine… Appassionata di numeri, fu la prima donna a iscriversi a fisica all'università di Zurigo, più interessata a quello che non a sposarsi come la maggior parte delle sue coetanee. E quando a lezione incontrerà un giovane studente di nome Albert Einstein, la vita di entrambi prenderà la strada che era fin dall'inizio scritta nel destino. La loro sarà un'incredibile unione di anime e menti, un amore romanzesco e tormentato, destinato a finire e, allo stesso tempo, a restare nella storia.
Marie Benedict firma un romanzo potente, intenso e romantico, che è un ritratto di due figure straordinarie, un incredibile affresco storico, e al tempo stesso la grande storia di un amore.

★★★★★

Il buon giorno si vede dal mattino, dicono, e un buon incipit e una copertina accattivante possono essere il perfetto bigliettino da visita di un libro.
Secondo voi, quante stelline si merita il biglietto da visita di questo libro?

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