Gli scrittori della porta accanto

[Libri] "Volevo un marito nero" di Valentina Gerini, incipit #115

Africa. “Questo è il centro del mondo!” pensai non appena i miei piedi ebbero toccato il suolo dell’aeroporto di Zanzibar.

Volevo-un-marito-nero -Valentina-Gerini-incipit

Volevo un marito nero

di  Valentina Gerini
StreetLib
Gli scrittori della porta accanto

(seconda edizione)
cartaceo 5,99€
ebook 0,99€

Un caldo soffocante rendeva affannoso il mio respiro, una forte umidità non lasciava scampo al sudore. Dalla pista vedevo palme altissime, una vegetazione rigogliosa di un verde smeraldo intenso faceva capolino dietro al piccolo edificio adibito ad aeroporto. Il cielo azzurro lasciava spazio a un sole già alto, caldo e splendente, ed erano solo le 07:00 del mattino del primo Dicembre. Fummo indirizzati all’interno dell’aeroporto per compilare i visti e pagare la tassa d’entrata. Un aereo completo di almeno 200 passeggeri era stipato in una piccola stanza, intasando il passaggio tra la sala visti e il ritiro bagagli. Si iniziava letteralmente a morire di caldo!
Compilato il mio visto, pagai la tassa e mi recai a ritirare il bagaglio. L’aria condizionata era diventata ormai una necessità per la sopravvivenza, ma sembrava proprio che non ce ne fosse traccia. Alla ricerca del nastro trasportatore m’imbattei in un semplice bancone di legno, dietro il quale gli addetti ai bagagli sventolavano in aria valigie e borse come in un mercato, cercandone il proprietario. Scorsi le mie due piccole valigie rosse e, previo pagamento di una mancia quasi obbligatoria, riuscii a farmele consegnare.
Diretta verso l’uscita fui fermata da due agenti della polizia doganale che, impalati di fronte a me, decisero che sarei potuta passare solo se avessi aperto la valigia per un controllo; era chiusa con un lucchetto, e io non avevo assolutamente idea di dove fosse finita la chiave! Supplicandoli di lasciarmi passare non ottenni alcun risultato, quindi offrii loro la banconota di taglio più piccolo che avevo a portata di mano, 20 dollari, e si aprirono come un sipario lasciandomi passare come una regina.
Uscii finalmente da quell’incubo e fui catapultata in un ammasso di gente, per lo più uomini, ragazzini e anziani, che si offrivano di farti da facchini in cambio di due spiccioli. Scorsi il mio operatore turistico e mi avvicinai al banco per informare del mio arrivo. Ero stata mandata in Tanzania per la stagione invernale, come assistente turistica quale ero, dopo aver trascorso l’estate precedente in Grecia. Quella che si rivelò essere la mia responsabile, Sarah, dopo avermi gentilmente accolta, mi disse di lasciare i bagagli a un ragazzo locale attaccandoci sopra un’etichetta per riconoscerli, e di dirigermi al bus numero dieci. Mi separai dal mio bagaglio non molto convinta, guardandolo mentre veniva messo, o meglio lanciato, su di un carretto, e salii sul bus dieci. Anche qua l’aria condizionata non c’era, i sedili erano di dimensioni gnomiche e l’autista sembrava uscito da un cartone animato. Quando il bus fu pieno di quelli che, nei successivi giorni, sarebbero stati i gentili ospiti di cui mi sarei dovuta occupare al villaggio, partimmo in direzione Nungwi, a nord dell’isola.

Le strade erano malmesse e gli ammortizzatori del bus non erano certo in migliori condizioni, quindi il viaggio sembrò più un viaggio in nave che in autobus. 

Durante il tragitto avrei dovuto ascoltare il piccolo briefing fatto dall’assistente che avrei sostituito, ricco d’informazioni e nozioni utili sul posto, ma fui rapita dalle immagini che si sovrapponevano fuori dal finestrino. La vegetazione, le case, le capanne, le persone, le mucche. Donne con turbante portavano in testa grandi cesti colmi di ogni bene, bambini con uniformi andavano e uscivano da scuola, carretti erano trainati da mucche con la gobba, palme altissime riempivano i giardini e i boschi ai lati delle strade, banchetti di panini e carni alla brace contornavano le strade, si udivano grida e urla da mercato provenire da ogni lato, potevo sentire i rumori e gli odori di quella di cui sempre avevo sentito parlare, ma mai avrei pensato di vedere: l’Africa. Qua gli odori erano più odori, i colori erano più colori, i rumori erano più rumori.
In una specie di trance arrivai al villaggio e appena scesa dal bus m’incantai a osservare la danza di benvenuto che i Masai dell’hotel facevano in onore dei nuovi clienti arrivati, un benvenuto ricco di salti, strilli e canti. Delle figure nere, longilinee e forti erano avvolte in drappi colorati, prevalentemente sul rosso, bracciali di ogni genere, perline e orecchini, mazze e pugnali. I Masai, ne avevo sentito parlare forse una volta fino a quel momento. Bellissimi nel loro essere sé stessi, erano persone meravigliose, glielo si leggeva negli occhi.
Dopo aver atteso che i clienti facessero il check‐in in hotel fui accompagnata nella mia stanza, all’interno della staff house, dove avrei dormito per cinque lunghi mesi...IN AFRICA! Continuavo a ripetermi emozionata che sarei rimasta in Africa per cinque mesi. Eccitata, continuavo a pensare che sarei stata in Africa fino ad aprile.
Africa....

Nemmeno il tempo di farmi una doccia e incontrare il primo scarafaggio gigante di quest'avventura, tranquillamente appollaiato sul rubinetto, che fui subito chiamata a rapporto dalla responsabile.

Dovevo osservare cosa avrei dovuto fare una volta arrivata nel villaggio con gli ospiti: accoglienza, passaggio in spiaggia per verificare la soddisfazione dei clienti, entrata al ristorante con saluto, vendita escursioni. Non ero stanca, il fuso orario non era massacrante, soltanto due ore in più di differenza rispetto all'Italia, ma il caldo mi stava indebolendo. Mi sentivo letteralmente intontita, il sole sembrava picchiare sulla mia testa con un martello, l'aria era così calda e densa che sembrava uscire da un asciugacapelli a tutta potenza. Andai in spiaggia dove si trovavano il nostro ufficio operativo, il teatro e il ristorante. Praticamente il centro vitale dell'hotel si sviluppava in spiaggia. Misi un piede sulla sabbia bianchissima e rimasi sorpresa nel sentire che non bruciava, era semplicemente tiepida. Ovunque io fossi stata prima di allora la sabbia scottava a causa del calore del sole, ma questa no. La responsabile mi spiegò che era sabbia di origine corallina e che per questo motivo non bruciava. Vera o no questa spiegazione, la sabbia non bruciava affatto.

Quarta di copertina
"Volevo un marito nero" di Valentina Gerini, StreetLib - collana Gli scrittori della porta accanto, 2017.

Da Zanzibar ai Caraibi, inseguendo il sole e l'amore.
Molte ragazze sognano il principe azzurro ma Federica, che di lavoro fa l'assistente turistica, lo sogna nero.
Con la sua voglia di viaggiare, di vivere, di conoscere il mondo e le culture differenti, va da un capo all'altro del mondo col cuore aperto, accogliendo tutto ciò che il viaggio le regala.
Atterrata a Zanzibar, capisce subito che l'Africa la segnerà definitivamente. I Masai, gli odori delle spezie, i colori del mare. Tutto lascia pensare che abbia finalmente trovato il suo posto nel mondo.
Ma il Tour Operator per il quale lavora la sposta nuovamente, in Repubblica Dominicana. E il Mal D'Africa si fa sentire ed è così forte da sembrare una vera malattia. Poi la bachata, il merengue e il calore dominicano iniziano a fare effetto, come un antidoto e, piano piano, s'innamora anche di questa terra.
Tra le difficoltà che le si presentano di fronte in questo nuovo luogo, le scelte che si rendono necessarie, Federica ricomincia a vivere.

★★★★★

Il buon giorno si vede dal mattino, dicono, e un buon incipit e una copertina accattivante possono essere il perfetto bigliettino da visita di un libro.
Secondo voi, quante stelline si merita il biglietto da visita di questo libro?

Tutti i nostri incipit:




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