Gli scrittori della porta accanto

[Libri] "Questo canto selvaggio" di Victoria Schwab, incipit #123

La notte in cui decise di appiccare il fuoco alla cappella della scuola, Kate Harker non era né arrabbiata né ubriaca.

Questo-canto-selvaggio-Victoria-Schwab-incipit

Questo canto selvaggio

di Victoria Schwab
Giunti
cartaceo 15,30€
ebook 9,99€

Era disperata.
Dar fuoco alla cappella era davvero la sua ultima risorsa; aveva già rotto il naso a una ragazza, fumato nei dormitori, copiato al primo esame e molestato verbalmente tre suore. Qualunque cosa facesse, tuttavia, la St. Agnes Academy continuava a perdonarla. Era questo il problema, con le scuole cattoliche. Per loro lei aveva bisogno di essere salvata.
Kate, però, non sapeva che farsene della salvezza; tutto ciò che le serviva era una via d’uscita.
Era quasi mezzanotte quando si calò dalla finestra del dormitorio e atterrò sul prato. La gente la chiamava l’ora delle streghe, quel tempo oscuro in cui gli spiriti inquieti anelavano alla libertà. Gli spiriti inquieti, e le adolescenti intrappolate in un collegio troppo lontano da casa.
Imboccò l’immacolato vialetto di pietra che portava alla Cappella della Croce, con a tracolla una borsa piena di bottiglie che tintinnavano come speroni al ritmo dei suoi passi. Aveva preso di tutto, compreso un vino d’annata dalla riserva personale di sorella Merilee, che era riuscita a farsi amica.
Cominciarono a suonare le campane, basse e lente, ma i rintocchi provenivano dalla Cappella dei Santi, una chiesa più grande dalla parte opposta del campus. Quella non la lasciavano mai incustodita: madre Alice, la reverenda-preside-superiora della scuola, dormiva lì accanto, e anche se avesse voluto incendiare proprio quell’edificio, Kate non era così stupida da aggiungere l’omicidio all’incendio doloso. Non quando il prezzo da pagare era così alto.
La cappella più piccola veniva chiusa ogni sera, ma quel giorno, mentre si sorbiva il solito sermone di sorella Merilee sulla grazia di Dio, Kate si era messa in tasca una copia della chiave.
Entrò e poggiò la borsa sul pavimento, poco oltre la soglia. Non era mai stata nella cappella col buio, e alla luce della luna anche le vetrate blu parevano nere. Una decina di panche la separavano dall’altare, e per un attimo quasi le dispiacque dare fuoco a quel posticino così pittoresco. Non era l’unica cappella della scuola, però, e nemmeno la più bella, e poi alle suore della St. Agnes piaceva proprio tanto predicare sull’importanza del sacrificio.

Nel suo primo anno di esilio, Kate si era bruciata (in senso metaforico, stavolta) due collegi, e un altro nel secondo anno, sperando che potesse bastare. 

Suo padre però era testardo (da qualcuno doveva pure aver preso, lei) e aveva continuato a cercare nuove opzioni. La quarta scuola, una specie di riformatorio per ragazzi difficili, aveva resistito quasi un anno prima di espellerla. La quinta, un’accademia per soli uomini disposta a chiudere un occhio in cambio di una robusta donazione, era durata appena qualche mese, ma suo padre doveva avere già in memoria il numero di quell’infernale convento che chiamavano scuola preparatoria, e con un posto già prenotato, perché Kate ci si era trasferita senza nemmeno ripassare da V-City.
Sei scuole in cinque anni.
La St. Agnes però era quella giusta. Doveva esserlo.
Kate si rannicchiò sul pavimento di legno, aprì la borsa e si mise al lavoro.
Dopo il suono delle campane la serata era troppo tranquilla, e la cappella così silenziosa che metteva i brividi, allora intonò un inno sacro mentre tirava fuori le bottiglie: due di Jack Daniel’s e una da tre quarti di vodka, quasi piena, recuperate da una scatola di liquori sequestrati, insieme a tre bottiglie di rosso della casa, un whisky invecchiato qualche decennio, preso dall’armadietto di madre Alice, e il vino d’annata di sorella Merilee. Le allineò sull’ultima panca prima di avvicinarsi alle candele votive. Accanto alle tre file di vaschette di vetro c’era un piattino con dei fiammiferi, i lunghi bastoncini di legno vecchio stile.
Mentre ancora canticchiava, Kate tornò alla panca che aveva trasformato in mobile bar, svitò e stappò e benedì le panche, fila dopo fila, cercando di farsi bastare l’alcol che aveva a disposizione. Conservò il whisky di madre Alice per il leggio di legno davanti all’altare. Sopra c’era una Bibbia e, cedendo per un attimo alla superstizione, Kate decise di risparmiarla, gettandola sul prato attraverso il portone spalancato. Quando tornò dentro l’odore umido e dolciastro del liquore le assalì le narici. Tossì e sputò per levarsi di bocca quel sapore.

In fondo alla cappella, sopra l’altare era sospeso un enorme crocifisso, e anche al buio sentì lo sguardo della statua che la fissava mentre prendeva il fiammifero.

Perdonami, Padre, perché ho peccato, pensò, sfregandolo contro lo stipite della porta.
«Niente di personale» aggiunse a voce alta mentre il fiammifero si accendeva, con un bagliore improvviso. Per un lungo momento Kate lo guardò bruciare, fissando il fuoco che strisciava verso la punta delle dita. Poi, prima che potesse scottarsi, lo lanciò sul sedile della panca più vicina. Questa prese fuoco all’istante, e le fiamme divamparono con un sibilo, prima consumando l’alcol e poi intaccarono il legno. Pochi attimi dopo tutte le panche bruciavano, poi toccò al pavimento e per ultimo all’altare. Le fiamme si alzarono, prima piccole come unghie, poi come dotate di vita propria, e Kate rimase immobile, ipnotizzata, a osservarle danzare e arrampicarsi e consumare tutto, un centimetro dopo l’altro, finché il calore e il fumo la costrinsero a uscire all’aria fresca della notte.
Corri, le diceva una voce nella testa – dolce, insistente, istintuale – mentre la cappella bruciava.
Resistette all’impulso e, invece, si lasciò cadere su una panchina a distanza di sicurezza dall’incendio, strofinando le suole avanti e indietro nell’erba della tarda estate.
Se stringeva le palpebre vedeva, all’orizzonte, le luci della città satellite più vicina: Des Moines. Un nome di una volta, una reliquia di prima della ricostruzione. Ce n’erano una mezza dozzina sparpagliate alla periferia di Verity, ma nessuna andava oltre il milione di abitanti, tutti chiusi in casa, anzi barricati, e nessuna reggeva il confronto con la capitale. Che era esattamente quello che volevano. Non ci tenevano affatto ad attirare l’attenzione dei mostri. O di Callum Harker.
Prese l’accendino – un bell’oggetto d’argento che madre Alice le aveva sequestrato nella prima settimana – e se lo rigirò tra le dita per far smettere di tremare le mani. Quando vide che non ci riusciva tirò fuori una sigaretta dal taschino della camicia, anche questa trovata nella scatola dei beni confiscati, e l’accese, guardando la fiammella azzurra danzare davanti all’enorme vampata arancione.
Aspirò una boccata di fumo e chiuse gli occhi.

Dove sei, Kate?, domandò a se stessa.

Era un gioco che faceva, ogni tanto, da quando aveva imparato la teoria degli infiniti paralleli, stando alla quale una persona non attraversa la vita in linea retta, ma come sui rami di un albero, biforcandosi a ogni decisione, la sua identità che ogni volta prende una direzione diversa.
Le piaceva l’idea che ci fossero cento Kate diverse, che vivevano cento vite diverse. Forse, in una di quelle vite, non c’erano mostri.
Forse la sua famiglia era ancora unita.
Forse lei e la madre non erano mai fuggite da casa.
Forse non erano mai tornate indietro.
Forse, forse, forse... E se c’erano cento vite, cento Kate, allora lei era solo una fra tante, ed era esattamente ciò che doveva essere. E alla fine per lei era più facile fare ciò che doveva se riusciva a convincersi che, altrove, un’altra versione di sé faceva una scelta differente. Viveva una vita migliore o, almeno, più semplice. Magari le stava addirittura salvando. Permetteva a un’altra Kate di restare al sicuro, e sana di mente.
Dove sei?, ripeté.
Sdraiata su un prato.
A guardare le stelle.
La notte è tiepida. L’ aria pulita.
L’ erba sotto la schiena è fresca.
Nel buio non ci sono mostri.
Che bello, pensò Kate mentre, davanti a lei, la cappella crollava in una nuvola di scintille.
In lontananza ulularono le sirene e lei drizzò la schiena sulla panchina.
Ci siamo.
Di lì a pochi attimi le ragazze si riversarono fuori dai dormitori, e comparve anche madre Alice, in vestaglia, il volto pallido tinteggiato di rosso dal bagliore della cappella ancora in fiamme.
Kate ebbe il piacere di udire l’anziana, prestigiosa suora esplodere in una serie di esclamazioni piuttosto colorite prima che arrivasse il camion dei pompieri e le sirene coprissero tutto.

Quarta di copertina
"Questo canto selvaggio" di Victoria Schwab, Giunti, 2017.

Questo canto selvaggio, di Victoria Schwab, è un romanzo tenebroso, seducente e vividamente cinematografico.
A Verity City, spietata metropoli che per anni è stata teatro di attentati e crimini efferati, la violenza ha iniziato a generare mostri, creature d'ombra che appartengono a tre stirpi: i Corsai e i Malchai, avidi di carne e sangue umani, e i Sunai, più potenti, che come implacabili angeli vendicatori con il loro canto seducono e divorano l'anima di chi si sia macchiato di gravi crimini.
Kate e August si trovano costretti a una precaria alleanza, ma sono eredi dei due acerrimi nemici che si spartiscono la città. Quanto potranno sopravvivere in una città popolata da mostri e in cui nessuno è al sicuro?

★★★★★

Il buon giorno si vede dal mattino, dicono, e un buon incipit e una copertina accattivante possono essere il perfetto bigliettino da visita di un libro.
Secondo voi, quante stelline si merita il biglietto da visita di questo libro?

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