Gli scrittori della porta accanto

Dario Fo: il giullare dal grande sorriso

Dario Fo: il giullare dal grande sorriso

Palcoscenico Di Tamara Marcelli. Dario Fo, l'Artista. Giullare, giocoliere dell’Arte, funambolo delle scene, faccia mimicamente insuperabile, camaleonte del palcoscenico.

Dario Fo, l'Artista. Un giullare che non si piegò mai alle logiche di una corte corrotta, giocoliere dell’Arte, musicante, funambolo delle scene, una faccia mimicamente insuperabile, maschera multiforme, un camaleonte del palcoscenico. Premio Nobel per la Letteratura nel 1997 con la seguente motivazione: "Perché, seguendo la tradizione dei giullari medioevali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi".
Per comprendere il perché di tale motivazione e la grandezza della figura di Dario Fo è necessario tornare indietro nella storia del Teatro, nella nostra storia letteraria ed artistica. Purtroppo troppo spesso dimenticata.

Perché “giullare”?

I Giullari erano artisti che si esibivano per vivere: attori, musicisti, ballerini, trovatori, cantastorie e giocolieri che nel Duecento e Trecento rappresentarono il punto d’unione tra la letteratura colta e quella popolare.
Il Teatro di Dario Fo fa propri gli stilemi comici della Commedia dell’Arte del XVI° secolo basata sui “canovacci”, elementi base della trama di un’opera su cui l’attore crea di volta in volta il testo. Il “canovaccio” era una traccia su cui si fondava l’improvvisazione degli attori, strumento che, lasciando ampio spazio alla fantasia e all’estro, metteva in luce e a dura prova l’abilità dell’attore stesso. Indicati i punti essenziali, la successione delle scene, l’attore poteva reinventare ogni volta una rappresentazione diversa. Con un uso dello spazio scenico totalizzante che comprende il pubblico come elemento vivo, partecipe, sempre coinvolto nello spettacolo.
L’improvvisazione teatrale permetteva agli attori di inventare il testo in maniera estemporanea nutrendosi anche delle reazioni del pubblico, modellando le scene in base alla tipologia di persone che assistevano allo spettacolo. Per questo ogni rappresentazione era diversa dall’altra.
Prima regola: nella satira non ci sono regole.


I suoi testi teatrali spesso erano pura satira, politica e sociale.

Nato a Sangiano (VA) il 24 marzo 1926, attore, regista, scrittore, drammaturgo, Dario Fo si dedicò anche alla scenografia e alla pittura. Frequentò la celebre Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, fondata nel 1776 dall’imperatrice Maria Teresa d’Austria. Le materie insegnate erano architettura, pittura, scultura, prospettiva, anatomia artistica, ornato, incisione, figura, storia dell’arte: conoscenze fondamentali per una formazione artistica di livello elevato. Ed infatti Dario Fo aveva una cultura che ben si confaceva al suo innato talento. Binomio decisamente vincente.
Lavorò anche per la televisione come autore e per il cinema come attore e soggettivista.

Negli anni ’60 fondò insieme all’attrice e moglie Franca Rame, una compagnia teatrale che nel 1968 prese il nome di Nuova Scena inglobando attori come Massimo De Vita, Vittorio Franceschi, Nanni Ricordi.

Scrisse commedie che avevano la struttura della farsa, impreziosite da satira spesso spietata, di critica aperta contro alcuni aspetti della società contemporanea.
I suoi spettacoli erano rappresentati nelle piazze, in luoghi comuni, accessibili al popolo, in chiara antitesi con quel che lui definiva “teatro borghese” che era lontano dalla vita delle persone reali. Luoghi alternativi e prezzo minimo per avvicinare il popolo all’arte.
Il suo pubblico era molto diverso da quello che si poteva normalmente trovare nei teatri, era gente comune, spesso rappresentante delle classi meno abbienti della società. Il suo intento era quello di ritornare al Teatro d’origine, quello in cui il popolo era protagonista e spettatore al tempo stesso.

Dario Fo inventò un linguaggio suo, il “grammelot”, costituito da suoni e fonemi privi di significato, alternati a parole dialettali, e che fonda le sue radici nella Commedia dell’Arte.

La recitazione che ne deriva è molto espressiva, musicale, ritmica, sottolineata da una gestualità iperbolica e da una mimica in grado di comunicare e suggestionare.
Fondatore del Teatro di Narrazione in cui gli autori si presentano sul palcoscenico senza indossare i panni di un personaggio, senza una maschera, soli davanti al pubblico a cui raccontare storie, senza una rappresentazione canonica. Così viene ricostruito quel primordiale rapporto tra palcoscenico e spettatori, riconducendo l’Arte al suo scopo: raccontare. Che sia una storia, un’emozione, un fatto, un pensiero, un’immagine o una melodia. Raccontare la vita nelle sue contraddizioni, mostrando strade nuove che vengono da lontano. Spesso dal passato che abbiamo calpestato.

Fu rappresentante di quel Teatro di strada in cui attori, mimi, giocolieri, musicisti si esibiscono nei luoghi pubblici, interagendo con gli spettatori casuali.

Espressione di quell’arte che vuole incontrare la gente nei luoghi della sua quotidianità, senza confini mentali o materiali, quell’arte che vive solo di sé.
Nel 1968 scrisse il testo di una canzone dal titolo Ho visto un re che ebbe un grande successo, seppur subendo per anni la censura. Cantata da lui e insieme ad altri grandi artisti italiani del calibro di Jannacci, Rossi, Gaber e Celentano, anche nel 2001 in uno spettacolo televisivo in Rai, confermò l’attualità della sua critica al potere, satira pungente contro i ricchi. La voce narrante è quella di alcuni contadini che notano come i possidenti si disperino subito non appena vengono toccati i propri interessi, mentre i poveri devono sempre ridere e sorridere dei propri bisogni perché altrimenti il loro «pianger fa male al re fa male al ricco e al cardinale, diventan tristi se noi piangiam, pianger fa male al re fa male al ricco e al cardinale, diventan tristi se noi piangiam».

Nel 1969 mise in scena il Mistero Buffo, un monologo in atto unico in cui recitò rielaborando testi antichi ispirati ai Vangeli apocrifi e a racconti popolari.

Nell’opera teatrale il perno è rappresentato dalla presa di coscienza dell’esistenza di una cultura popolare, cardine della storia del Teatro, unica vera linfa dell’Arte.
Nel 1970 in Morte accidentale di un anarchico si ispirò al caso di Giuseppe Pinelli, anarchico morto in circostanze ritenute dubbie, a seguito di un arresto avvenuto dopo la strage di piazza Fontana a Milano (12 dicembre 1969). In quest’opera appare la figura del “matto” personaggio molto frequente nel repertorio di Dario Fo, maschera spesso utile per rivelare verità o presunte verità scomode o poco aderenti alle versioni ufficiali.

Le sue rappresentazioni sono satiriche, fortemente critiche verso la politica e la società volte a mostrarne le contraddizioni per favorire un percorso di cambiamento.

Offrono dei punti di vista alternativi, veicolando con la risata le verità spesso indicibili, seminando dubbi. La satira come genere letterario fisiologicamente offre molta libertà d’espressione, permette all’autore di polemizzare su temi importanti senza dover rispondere all’esigenza di schemi fissi. Lo spettatore assume un ruolo fondamentale, socialmente rilevante. Fa parte del “gioco”.
Nel 1977 apparve in tv su Rai2 con il programma Il teatro di Dario Fo in cui venivano proposte le pièces: Il mistero buffo, Settimo: ruba un po’ meno, Isabella, tre caravelle e un cacciaballe, La signora è da buttare, Ci ragiono e canto, Parliamo di donne. La sigla del programma era Ma che aspettate a batterci le mani che ebbe un notevole successo.
Nel 1989 partecipò come attore allo sceneggiato televisivo I promessi sposi interpretando l’avvocato Azzecca-garbugli al fianco di un impareggiabile Alberto Sordi nel ruolo di Don Abbondio.
Nel 1999 ottenne la Laurea honoris causa all’Università di Wolverhampton, nel 2005 quella all’Università Sorbona di Parigi e nel 2006 alla Università La Sapienza di Roma.
Nel 2007 partecipò al film Zero - Inchiesta sull’11 settembre.

Leggi anche Tamara Marcelli | Monologo da Lo stupro, di Franca Rame

Nel 1989 pubblica insieme a Franca Rame Le commedie di Dario Fo, venticinque monologhi per una donna che raccoglie testi nati sul palcoscenico.

Feydeau diceva che scrivere testi per attori femmina è un lavoro immane perché difficilissimo è riuscire a travestirsi da donna calzando oltre la pelle anche il suo cervello. Per me è stato piuttosto facile, il cervello per il travestimento l’ho sempre avuto a domicilio: era quello di Franca.
Nel 2001 pubblica Lezioni di teatro, edizioni Stile Libero, in cui riversa l’esperienza delle celebri lezioni tenute nel 1984 al Teatro Argentina di Roma, e nel 2009 Manuale minimo dell’attore che diventerà un punto di riferimento per gli attori e le scuole di recitazione.

Esce nel 2011 Arlecchino, che ripropone lo spettacolo scritto per la Biennale di Venezia nel 1985 in occasione dei 400 anni dalla nascita della maschera.

Arlecchino era fondamentalmente un amorale. Quelle sue provocazioni suscitarono un successo incredibile; con le sue entrate oscene aveva rotto le normali convenzioni dello spettacolo.
Figura notevole e popolarissima della Commedia dell’Arte, è la maschera per eccellenza. Folle ma saggio, sciocco ma arguto, provocatore, sboccato e impertinente. Con la sua straordinaria gestualità, Fo rappresenta lo spirito, l’anima di una maschera che porta su di sé il peso della storia della Commedia. La maschera di Arlecchino, infatti, fu inventata da Tristano Martinelli (1557-1630), il 25 febbraio 1545, giorno in cui fu stipulato a Padova il primo contratto di compagnia di comici, e si fa coincidere con la nascita dell’attore di professione e della Commedia dell’Arte.

E dalla Commedia dell’Arte Dario Fo riprende quella gestualità ricavata dal teatro di varietà e dal cinema muto.

Charlot usa, pochi lo sanno, dei “lazzi” propri della Commedia dell’Arte.
I lazzi erano piccole azioni che improvvisamente gli attori inserivano nel mezzo di una scena e che procuravano ilarità nel pubblico. Una frase o un atto buffonesco tipico della Commedia dell’Arte, diventarono parte del repertorio degli attori che li usavano per “spezzare le scene”, per coprire eventuali errori o semplicemente per rendere partecipe il pubblico distratto.
Nel 2012 pubblica Ruzzante ispirato alla figura di Angelo Beolco, detto Ruzzante, un autore-attore vissuto nella prima metà del Cinquecento. Ruzzante rappresenta il modello storico del teatro a cui Dario Fo si rifà nel suo utilizzo della satira e del grottesco.
Il più grande autore di teatro che l’Europa abbia avuto nel Rinascimento, prima ancora dell’avvento di Shakespeare. Sto parlando di Angelo Beolco, detto il Ruzzante, il mio più grande maestro insieme a Molière: entrambi attori-autori, entrambi sbeffeggiati dai sommi letterati del loro tempo. Disprezzati soprattutto perché portavano in scena il quotidiano, la gioia e la disperazione della gente comune, l’ipocrisia e la spocchia dei potenti, la costante ingiustizia.

Nel 2014 esce Lu santu jullare Francesco ispirato alla vita di San Francesco d’Assisi, a leggende popolari e testi del Trecento.

Allestito con nuove scenografie dipinte da Dario Fo stesso, al Teatro Duse di Bologna, quest’opera prende vita facendo emergere il lato umano e multiforme del Santo, inserendo la speranza di un continuum con il papa che fortemente volle assumere il suo nome prospettando un cambiamento nella Chiesa. Prima di Bergoglio, nessun papa aveva osato scegliere il nome di Francesco e questo non può considerarsi un caso. La semplicità e la parola di Dio sono un’arma contro la società corrotta. I peccatori possono tornare indietro, essere perdonati aprendo il proprio cuore, ma i corrotti no perché sono induriti dalla propria brama per i beni terreni. Un’opera da leggere con spirito aperto, senza cadere in facili pregiudizi laici.
Nel 2014 pubblica La figlia del papa, un romanzo ispirato alla vita di Lucrezia Borgia, e nel 2015 Un uomo bruciato vivo, tratto da un cruento fatto di cronaca.

Dario Fo fu questo e molto altro che evidentemente non è possibile riassumere in poche righe. 

Fu il teatro di strada e le battaglie per il cambiamento, fu un giullare che non si piegò mai alle logiche di una corte corrotta e senz’anima, fu un giocoliere dell’Arte nelle sue molteplici forme espressive, fu un musicante allegro e impertinente, un mimo impareggiabile e senza freni, mai stanco della vita e della bellezza delle emozioni. Il popolo, quel popolo a cui lui si rivolgeva e rivolgeva la sua Arte ha continuato ad apprezzarlo nonostante la censura che a volte si abbatté contro di lui e i suoi spettacoli irriverenti. Fu un funambolo delle scene, una faccia mimicamente insuperabile, una maschera multiforme, un camaleonte delle assi.

Il Teatro gli deve molto, noi gli dobbiamo molto.

Nonostante la critica sia stata spesso molto spietata anche nei suoi confronti, come avvenne per altri grandi della Storia del Teatro Italiano, non si può sottacere la sua abilità nello scandagliare le molteplici anime di quel popolo a cui indirizzava i suoi spettacoli. La sua speranza nel cambiamento, la sua convinzione del potere grandioso della risata, mezzo con cui il popolo può ritrovare se stesso e affrontare al meglio la vita. Perché il senso di tutto sta nel come si guardano le cose, nello spirito che si agita in ogni uomo, che lo rende vivo e lo distingue dalla massa informe e banale. In Dario Fo c’è tutto questo: andare oltre la risata, osservando in profondità, riscoprendo i passi che si sono lasciati dietro di sé. Per trovare un equilibrio, una serenità, ciò che rende la vita una «meravigliosa occasione fugace da acciuffare al volo tuffandosi dentro in allegra libertà».

Le frasi celebri di Dario Fo.

Il pubblico di oggi è drogato di banalità.
Fermare la diffusione del sapere è uno strumento di controllo del potere perché conoscere è saper leggere, interpretare, verificare di persona e non fidarsi di quello che ti dicono. La conoscenza ti fa dubitare. Soprattutto del potere. Di ogni potere.
Abbiamo perso l’indignazione, la dignità, la coscienza, l’orgoglio di essere persone che hanno inventato la civiltà. Siamo degli ingiusti che se ne fregano della giustizia. Cosa lasciamo ai nostri figli?
Non temo la morte, ma neanche la corteggio. Se hai campato bene è la giusta conclusione della vita.
Ancora non si è capito che soltanto nel divertimento, nella passione e nel ridere si ottiene una vera crescita.
La satira è un’espressione che è nata in conseguenza di pressioni, di dolore, di prevaricazione, cioè è un momento di rifiuto di certe regole, di certi atteggiamenti: liberatorio in quanto distrugge la possibilità di certi canoni che intruppano la gente.
Il Mistero Buffo racconta proprio come il popolo è stato derubato, defraudato da secoli della propria cultura, non solo il padrone se l’è fatta propria e l’ha camuffata e la impone di nuovo scorrettamente al popolo.
La risata, il divertimento liberatorio sta proprio nello scoprire che il contrario sta in piedi meglio del luogo comune, anzi è più vero o, almeno, più credibile.
La cultura non si può ottenere se non si conosce la propria storia.


Tamara Marcelli


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