Shahla ci aspettava davanti al portone di casa, di ferro verde brillante che si arrugginiva sui bordi. Allungava il collo. Io e Parwin girammo l’angolo e leggemmo il sollievo nei suoi occhi. Non potevamo fare tardi di nuovo. Parwin mi scoccò un’occhiata e accelerammo il passo. Più veloci che potevamo ma senza metterci a correre. Le suole di gomma schiaffeggiavano la strada e sollevavano nuvolette di polvere. Gli orli delle sottane ci sbattevano contro le caviglie. Il fazzoletto che avevo in testa mi si appiccicava alla fronte sudata. Immaginai che fosse lo stesso per Parwin, perché non le era ancora volato via. Maledetti! Era colpa loro! Quei ragazzi con i calzoni cenciosi e i sorrisi impudenti. Non era la prima volta che ci facevano fare tardi.
Superammo di corsa le altre porte, azzurro, viola, bordeaux. Macchie di colore su una tela d’argilla.
Shahla ci fece segno di sbrigarci.
«Presto!» sibilò frenetica.
Ansimanti, la seguimmo oltre la soglia. Il battente di ferro si chiuse con clangore.
«Parwin! Perché l’hai fatto?»
«Scusa, scusa! Non credevo che sbattesse così forte.»
Shahla levò gli occhi al cielo, e anch’io. Parwin faceva sempre sbattere la porta.
«Perché ci avete messo tanto? Non avete preso la strada dietro la panetteria?»
«Non potevamo, Shahla! Lui stava proprio lì!»
Avevamo dovuto fare la strada più lunga che girava attorno al mercato, per evitare la panetteria dove ciondolavano i ragazzi, le spalle incurvate e gli sguardi che perlustravano la giungla incolore che era il nostro villaggio. Insieme alle partite improvvisate di calcio per strada, era quello il passatempo preferito dei ragazzi in età scolare: guardare le ragazze. Stazionavano lì attorno, in attesa che finissero le lezioni. Appena uscivamo dal recinto della scuola ce n’era sempre qualcuno che scattava zigzagando fra le auto e i pedoni, per inseguire la ragazza che aveva colpito la sua attenzione. Seguirla era come esercitare il suo diritto di preda. Questa è la mia ragazza, intimava agli altri, e qui c’è spazio per una sola ombra. Quel giorno era mia sorella Shahla, dodicenne, il magnete di attenzioni indesiderate. Per i ragazzi era una forma di omaggio. Ma alla ragazza che ne era oggetto faceva paura: per la gente era facile concludere che fosse stata lei a sollecitare quelle attenzioni. Il problema era che i ragazzi non avevano altri modi per divertirsi.
«Shahla, dov’è Rohila?» sussurrai. Il cuore mi batteva forte mentre facevamo il giro dal retro, in punta di piedi.
«È andata a portare del cibo ai vicini. Madar-jan ha preparato delle melanzane per loro. Dev’essere morto qualcuno.»
Morto? Mi si strinse lo stomaco e mi concentrai per seguire i passi di Shahla.
«E Madar-jan dov’è?» bisbigliò Parwin nervosa.
«Sta mettendo a letto la piccola» si voltò a dirci Shahla.
«Quindi cercate di non fare troppo rumore, altrimenti capirà che state rientrando solo adesso.»
Io e Parwin ci immobilizzammo. Shahla cambiò espressione vedendo i nostri occhi sgranati. Si girò di scatto e si trovò davanti Madar-jan, che, uscita dalla porta posteriore, ora ci si parava davanti nel cortiletto lastricato dietro casa.
«Vostra madre sa benissimo quando voi ragazze siete tornate a casa, e sa benissimo che razza di esempio vi sta dando la vostra sorella maggiore.» Teneva le braccia conserte sul petto.
Shahla chinò il capo, vergognandosi. Io e Parwin cercammo di evitare lo sguardo di Madar-jan.
«Dove siete state?»
Quanto avrei voluto poterle dire la verità!
Un ragazzo, abbastanza fortunato da possedere una bicicletta, aveva seguito Shahla, prima pedalandoci accanto e poi sfrecciandoci attorno, avanti e indietro. Shahla non gli aveva prestato attenzione. Quando le avevo sussurrato che la stava guardando mi aveva fatto tacere, come se parlarne lo rendesse più reale. Al terzo passaggio il ragazzo si era accostato un po’ troppo. Ci aveva superate, e poi era tornato indietro. Pedalava a tutta velocità e aveva rallentato mentre si avvicinava. Shahla continuava a guardare altrove, fingendosi arrabbiata.
«Parwin, attenta!»
Prima che potessi spingerla via, la ruota davanti del nostro molestatore era finita su una lattina abbandonata in terra; dopo aver ondeggiato da una parte e dall’altra, lui aveva scartato di colpo per evitare un cane randagio. La bici aveva puntato dritta su di noi. Il ragazzo aveva spalancato occhi e bocca, mentre cercava di recuperare l’equilibrio. Dopo aver sfiorato Parwin si era rovesciato sugli scalini di una drogheria.
«Oh Dio» aveva esclamato Parwin con voce stridula e spaventata. «Guardalo! È caduto!»
«Si sarà fatto male?» aveva detto Shahla. Teneva la mano sulla bocca, come se non avesse mai visto una scena così tragica.
«Parwin, la tua gonna!» Il mio sguardo era corso dalla faccia preoccupata di Shahla all’orlo strappato di Parwin. I pezzi di fil di ferro che tenevano insieme i raggi della ruota avevano lacerato la stoffa.
Era la sua divisa scolastica nuova, e Parwin era subito scoppiata a piangere. Sapevamo che se Madar-jan lo avesse detto a nostro padre, lui per punizione ci avrebbe tenute a casa da scuola. Era già successo.
"Due splendidi destini" di Nadia Hashimi, Piemme, 2015, una storia piena di tenerezza, bellezza, tradizione e magia.
«Perché ve ne state zitte solo quando vi chiedo qualcosa? Non avete niente da dire? Non solo tornate tardi, ma da come siete conciate sembra che vi siate azzuffate con i cani randagi!»
Shahla aveva parlato per noi non so quante volte e sembrava esasperata. Parwin era un fascio di nervi, lo era sempre, e non riusciva a fare altro che agitarsi. Sentii la mia voce prima di rendermi conto di cosa stessi dicendo.
«Madar-jan, non è stata colpa nostra! C’era quel ragazzo in bicicletta, e noi abbiamo fatto finta di niente però lui ha continuato a venirci dietro e gli ho persino urlato contro. Gli ho detto che era proprio scemo, se non riusciva a ritrovare la strada di casa.»
A Parwin sfuggì una risatina incontrollata e Madar-jan le lanciò un’occhiataccia.
«Si è avvicinato?» chiese rivolta a Shahla.
«No, Madar-jan. Insomma, era qualche metro dietro di noi. Non ha detto niente.»
Madar-jan sospirò e si portò le mani alle tempie.
«Bene. Filate dentro a fare i compiti. Vedremo cosa ne dirà vostro padre.»
«Glielo dirai?» gridai io.
«Certo che glielo dirò» rispose, e mi tirò uno sculaccione mentre le passavo davanti per entrare in casa. «In questa casa non abbiamo l’abitudine di nascondere le cose a vostro padre!»
Al lavoro con matite e quaderni, ci interrogammo a bisbigli su cos’avrebbe detto Padar-jan appena tornato a casa. Parwin aveva qualche idea in proposito.
«Secondo me dovremmo dire a Padar-jan che gli insegnanti sanno già di quei ragazzi e adesso finiranno nei guai, così non ci daranno più fastidio» suggerì entusiasta.
«Parwin, non funziona. Come te la caveresti quando MaHAsHiMi-due dar-jan andrà a controllare con Khanum Behduri?» Shahla, la voce della ragione.
«Be’, allora potremmo raccontargli che quel ragazzo si è scusato e ha detto che non ci darà più fastidio. Oppure che faremo un’altra strada per andare a scuola.»
«Bene, Parwin, allora diglielo tu. Io comunque mi sono stufata di dover sempre parlare anche per voi.»
«Parwin non dirà proprio niente. Lei è brava a parlare solo quando non c’è nessuno che ascolta» dissi io.
«Molto divertente, Rahima. Invece tu sei tanto coraggiosa, vero? Vediamo quanto coraggio avrai quando torna Padar-jan» disse Parwin mettendo il broncio.
Poco ma sicuro, quando veniva il momento di affrontare Padar-jan non ero molto coraggiosa per i miei nove anni. Tenevo i pensieri ben chiusi dietro le labbra serrate. Finì che Padar-jan decise di tenerci di nuovo a casa da scuola. Lo implorammo e supplicammo di lasciarci tornare in classe. Una delle insegnanti di Parwin, un’amica di infanzia di Madar-jan, arrivò al punto di presentarsi a casa per cercare di ragionare con i nostri genitori. In passato Padar-jan si era già arreso, ma questa volta era diverso. Avrebbe voluto mandarci a scuola, ma non trovava un modo per farlo senza problemi. Che figura ci avrebbero fatto le sue figlie, a farsi correre appresso dai ragazzi per strada, sotto gli occhi di tutti? Terribile.
«Se avessi un figlio maschio questo non succederebbe! Maledizione! Perché mi ritrovo una casa piena di femmine? Non una, non due, ma addirittura cinque!» urlava.
Allora Madar-jan si fingeva indaffarata con le faccende, mentre tutto il peso della frustrazione paterna ricadeva su di lei.
In quel periodo Padar-jan era di umore anche peggiore del solito. Madar-jan ci raccomandò silenzio e rispetto. Ci disse che gli erano capitate troppe cose brutte, e lo avevano reso un uomo pieno di rabbia. Disse che se avessimo fatto le brave sarebbe presto tornato a essere l’uomo che era. Però diventava sempre più difficile ricordarsi un Padar-jan che non fosse furibondo e irascibile. Adesso che eravamo costrette in casa, mi toccavano le commissioni nei negozi. Le mie sorelle maggiori erano in quarantena, perché essendo più grandi non passavano inosservate. Io invece, almeno per il momento, ero ancora invisibile per i ragazzi, e perciò non a rischio. Ogni due giorni riponevo qualche banconota nella taschina segreta che Madar-jan mi aveva cucito all’interno del vestito, così non avrei avuto scuse se le avessi perse. Poi mi infilavo nel dedalo di stradine e in una mezz’oretta arrivavo al mercato che mi piaceva tanto. I negozi erano pieni di vita. Le donne sembravano diverse, rispetto a pochi anni prima. Alcune indossavano lunghi burqa azzurri, altre portavano sottane lunghe e semplici fazzoletti sul capo. Gli uomini erano tutti vestiti come mio padre, lunghe tuniche con i pantaloni a sbuffo, incolori come il nostro paesaggio. I ragazzini più giovani sfoggiavano berretti decorati con minuscoli specchietti tondi e ghirigori dorati. Quando arrivavo al mercato avevo le scarpe coperte di polvere e mi riducevo a usare il velo come filtro per le nuvole di polvere sollevate dalle centinaia di auto in transito. Era come se il paesaggio beige si dissolvesse nell’aria sopra il paese.
Nelle due settimane trascorse dal nostro ritiro da scuola, i negozianti avevano ormai imparato a conoscermi. Non erano molte le ragazzine di nove anni che giravano decise per i negozi. E dopo aver visto i miei genitori contrattare sui prezzi, avevo concluso che dovevo fare altrettanto. Discussi con il fornaio che cercava di farmi pagare due volte di più di quello che chiedeva a mia madre. Litigai con il
droghiere quando tentò di convincermi che la farina richiesta era d’importazione e perciò soggetta a sovrattassa. Gli feci notare che potevo comprare quella stessa farina di lusso da Agha Mirwais, poco più avanti, e risi del prezzo che chiedeva. Lui strinse i denti e mise la farina nella borsa con gli altri acquisti, borbottando fra sé parole che nessun bambino dovrebbe ascoltare.
★★★★★
Il buon giorno di vede dal mattino, dicono, e un buon incipit e una copertina accattivante possono essere il perfetto bigliettino da visita di un libro.
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