Gli scrittori della porta accanto

Con la mia valigia gialla, di Stefania Bergo: incipit #124

Ricordo bene il giorno in cui sono partita. Il 22 dicembre 2004, un mercoledì.

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Con la mia valigia gialla

di Stefania Bergo
StreetLib
Gli scrittori della porta accanto

(seconda edizione)
cartaceo 9,99€
ebook 0,99€

Ero in ritardo ma anche il mio treno lo era. Il destino voleva proprio che io partissi. Salii al volo, con la mia pesantissima valigia gialla, sbirciando appena tra la gente rimasta sul marciapiede della stazione. E incrociai gli occhi lucidi del mio papà che mi salutava.
Il treno era pieno di gente, persone che tornavano a casa per Natale o che andavano da qualche parte, in posti dove c’era altra gente ad aspettarle. E sembravano tutti così felici, così eleganti. Io no. Mi ero sistemata nel corridoio, seduta sulla mia valigia gialla, appoggiata al finestrino. Guardavo fuori, sforzandomi di ricordare come fossi arrivata fin lì.
Appena venti giorni prima avevo trovato l’associazione “Un ospedale per Tharaka, Kenia” su internet. Mi era piaciuto il nome. Già, perché io avrei voluto andare in un ospedale. E proprio in Kenya.
Non so perché, forse era solo il mio destino che si stava delineando, che mi stava portando nella giusta direzione senza che nemmeno me ne rendessi conto. Sapevo solo che volevo scappare dal Natale, dalla gioia degli altri. Ma andare semplicemente in vacanza era troppo facile e scontato. E poi avrei trovato altre famiglie, altra gente felice, altre persone che si vogliono bene solo un mese l’anno perché ci si sente obbligati da un’entità superiore o, peggio ancora, dall’abitudine, dalla pubblicità che confeziona sentimenti di plastica.
Avevo telefonato ad almeno dieci associazioni. Ma c’erano sempre mille problemi: non ero un medico, avrei dovuto stare in Africa per non meno di sei mesi, fare dei corsi di preparazione, pagare una quota di iscrizione elevata. Ormai ero demoralizzata. Perché doveva essere così difficile fare qualcosa di buono? Poi, all’ultimo tentativo, dall’altra parte della cornetta trovai il sole. Antonia. L’entusiasmo della sua voce mi travolse subito.
«Sì, vieni pure, abbiamo bisogno di giovani che abbiano voglia di fare…», mi disse al telefono.
E poi c’era un’ala pediatrica da progettare quindi avevo anche la possibilità di fare il mio lavoro. Perfetto! Nel giro di due giorni avevo il biglietto aereo tra le mani. Tutto così, d’istinto, come ho sempre vissuto la mia vita.

Ecco com’ero arrivata fin lì, su quel treno. 

Mi sentivo sola. Ero quasi pentita di aver agito così impulsivamente. Avevo paura. Non sapevo cosa avrei trovato là, non conoscevo nessuno. Avevo incontrato un’unica volta, per circa dieci minuti, il dottor Giorgio e la signora Antonia. Ma allo stesso tempo ero determinata ad andare fino in fondo, forse anche per mettermi alla prova, per dimostrare che ero in grado di cavarmela con le mie sole forze. Ho sempre detestato dipendere da qualcuno, soprattutto quando quel qualcuno non c’è mai al momento giusto.
È vero, forse sono partita più per aiutare me stessa che gli altri. Ma, come mi aveva detto un prete a cui avevo parlato della mia voglia di partire per l’Africa come volontaria, non ci è chiesto di fare qualcosa esclusivamente per gli altri, non ci è chiesto di soffrire come dei santi per salvare vite altrui. Siamo modesti esseri umani. E se parte di quel bene che facciamo ci torna indietro non è una colpa e non toglie certo valore alla nostra scelta.
Arrivai a Milano. Quanto pesava la mia valigia gialla. O forse era l’anima a pesare. All’aeroporto, ancora gente indaffarata, felice, entusiasta, così lontana da me e dai miei pensieri. Feci le ultime telefonate prima di uscire dall’Italia, sperando forse che qualcuno mi chiedesse di non andarmene. E poi, finalmente, l’aereo decollò.
Lo scalo a Londra durò un’intera notte. L’albergo era davvero lussuoso, assolutamente in contrasto con la mia destinazione finale. Una volta lì, mi resi conto che ormai la mia avventura era decisamente e irreversibilmente iniziata. Ma non avevo ancora lo spirito giusto e avevo solo marginalmente intuito quanto sarebbe stato importante e liberatorio per me questo viaggio.
Sms del 22.12.0, ore 23.14
Sono solo all’inizio… e già mi sento sola… beh, forse xchè sono in questa stanza d’albergo ultra lusso, a Londra, e sto guardando un film in spagnolo… magari domani, in una terra vera e calda come l’africa, mi sentirò meno sola…. un abbraccio

Con la luce del giorno finalmente riesco a godermi Nairobi e a rendermi subito conto che non mi piace del tutto. 

C’è qualcosa che non mi convince. È una città dall’apparenza occidentale, con alti grattaceli, alberghi e auto lussuose − tante auto, che portano i livelli di inquinamento sopra i limiti sopportabili, tenendo presente che tutti i rifiuti dell’occidente, auto non catalitiche comprese, finiscono sul mercato Africano − uomini d’affari, ragazzi e ragazze che siedono ai pub chiacchierando, ridendo e bevendo birra. Ma poi, magari proprio dietro a una Mercedes, si può vedere un carretto carico di stracci e immondizia spinto da bambini logori e sporchi che hanno passato la giornata a rovistare tra i rifiuti e ora portano a casa il bottino. O capita di attraversare alcune zone, magari adiacenti alle ville lussuose degli ambasciatori, tenute al sicuro dal filo spinato elettrificato, e vedere i mercati locali, le bancarelle improvvisate con rami contorti e i sacchi neri della spazzatura per ripararle dal sole, la gente che passeggia nel fango e compra la frutta per pochi scellini, i bambini che aspirano la colla e chiedono spiccioli a tutti i passanti. Si sente l’odore nauseante della frutta marcia gettata ai lati della strada. Si vedono vecchi nei loro abiti strappati, consumati dal tempo. E ogni edificio, dalla catapecchia al palazzo, ha le sbarre a porte e finestre. È questo che non mi piace, il contrasto eccessivo che salta subito agli occhi, l’idea di una città da cui ti devi proteggere. Ma ci sono anche alcuni aspetti che mi affascinano. I negozietti minuscoli carichi di merce esposta, per esempio, un’infilata di bassi edifici variopinti che si posano su alte piattaforme in cemento per separarli dagli scoli ai lati della strada, rigagnoli di acqua e melma che emanano un olezzo tutt’altro che piacevole. Le signorine eleganti, con i tacchi alti, che disinvoltamente saltano tra le pozzanghere. Le mamme che passeggiano nei loro vestiti colorati con i bambini legati sulla schiena. I matatu veloci che scivolano nel traffico colmi di viaggiatori stipati come sardine in una scatola di latta. Le sfumature della frutta e delle stoffe dei mercati rionali.

Finalmente imbocchiamo la Thika Road, la strada che ci porta fuori Nairobi, in direzione nord. E uscendo dalla città, vedo l’ Africa. 

È amore a prima vista. Dio, quanto è bella questa terra così primitiva, onesta, vera. È una donna morbida, nuda, stesa al sole. Profumata. Calda. È un chiacchiericcio di colori, di voci, di suoni, di canti. È un fiume che scorre pigro e poi improvvisamente si aggroviglia veloce attorno alle rocce. Ci sono circa duecento chilometri tra Nairobi e Matiri. E io me li sto assaporando fino all’ultimo respiro. Kithinji mi descrive il paesaggio mano a mano che avanziamo. Mi racconta delle usanze locali, di quello che coltivano, dei primi coloni che hanno costruito ponti e scuole. Attraversiamo villaggi distesi lungo la strada, spazi interminabili di natura grezza, le risaie di Mwea, che è anche la città degli asinelli, Embu, spartana ma ordinata ed elegante − «very polite», per bene, come dice Kithinji − e i mercati della frutta, poco prima di Chuka, dove finisce la strada asfaltata.
Chuka. Me ne innamoro subito, malgrado Kithinji mi dica che sia l’anticamera dell’inferno. È chiassosa, coloratissima, affollata. Il centro della città è una stazione di servizio. Di fronte, dall’altra parte della strada, svettano due interi piani di negozi. No, non negozi a due piani, ma due piani di chioschi vivaci accessibili, al piano superiore, tramite un lungo terrazzo, impilati come libri in bilico su una scrivania troppo piena, ovvero, la stazione degli autobus. I matatu affollano lo spiazzo alla rinfusa, arrivando da Meru e da Nairobi come se avessero poi fretta di ripartire. Ma qui i matatu partono a persone, non a orario. Quando sono pieni, cioè. Ne noto alcuni con delle barre sul tetto per accomodare i bagagli. E le capre, legate come pacchi, immobili, impaurite. Davanti alla pompa di benzina, c’è una piattaforma di un paio di metri quadrati su cui siedono dei ragazzini. Poco più che bambini, in realtà. Assolutamente bambini, realizzo. Stanno lì, accovacciati gli uni accanto agli altri, respirando le esalazioni della colla da piccole bottigliette trasparenti che tengono infilate nella manica dei maglioni sporchi e strappati che indossano. Sono i bambini di strada, i bambini dimenticati. Anzi, quelli di cui non si conosce nemmeno l’esistenza, per lo più. Chiedo a Kithinji come possano procurarsi la colla. La ruberanno, penso, o forse c’è qualcuno che la compra per loro. Invece no, entrano semplicemente in un negozio e la acquistano, mi fa sapere. Al negoziante poco importa di vendere un’arma che consuma il cervello e il fegato a dei bambini, di essere complice di un lento omicidio.
« It’s only a business», aggiunge con semplicità. Sono solo affari.
Magari fingono di pensare che la colla possa servire loro per riparare le scarpe, mi illudo. Kithinji scende a comprare qualcosa da bere, lasciandomi chiusa in macchina per sicurezza, dice lui. E in effetti non appena entra nel piccolo bazar, il matatu viene circondato da donne che vogliono vendermi delle banane − banane piccole piccole, disposte come un ventaglio − ragazzini con gli occhi iniettati di sangue e l’aria allucinata di chi sta viaggiando con la mente, che mi chiedono qualche scellino per mangiare − scellini che poi invece spenderebbero per comprare altra colla… la colla non fa loro sentire la fame, mi ha detto Kithinji, ecco perché la aspirano − uomini che vendono giornali e bibite. Niente di pericoloso, comunque. Al massimo fastidioso.

Imbocchiamo lo sterrato, l’ultimo tratto che ci separa da Matiri. 

Gli ultimi quaranta chilometri inerpicati tra i sassi. Il matatu comincia ad arrancare, ma sorprendentemente avanza. La strada è affollata. Gente che cammina, tanta gente che cammina. Persone che vanno da qualche parte o che camminano semplicemente perché è l’unica cosa che possono fare. Bambini che spuntano ovunque dall’erba. Bambini che ridono. Bambini. Belli come perle preziose. E poi una grande pianura, una grande pace. Montagne e colline che si innalzano qua e là, senza pretese, come increspature verdi di una carta rossa. Provo un inaspettato senso di libertà guardando questi paesaggi, l’occhio spazia in ogni direzione, senza limiti, come se vedesse per la prima volta. Resto senza fiato, incantata. Nel Tharaka, la regione che stiamo attraversando, ci sono immense risaie, campi di frumento, patate, fagioli. Un paesaggio quasi familiare per me, apparentemente molto simile alle campagne venete, penso. Ma qui non ci sono case di mattoni. Ci sono capanne di fango e arbusti, con tetti di lamiera che attirano i fulmini.
Superiamo due fiumi, il Mara e il Mutonga. Bellissimi. Gonfi di pioggia per la stagione appena passata. Tutto prende vita lungo le loro sponde, la natura e le persone, che poi qui sono la stessa cosa. Intravedo delle donne che lavano i panni e li stendono per terra o tra i rami ad asciugare. E dei bambini che fanno il bagno − insieme ai coccodrilli? In questi fiumi ci sono i coccodrilli, no? − e poi riempiono d’acqua immense taniche gialle, più grandi di loro, e se le caricano sulla schiena assicurandole alla testa con una corda. E poi camminano, camminano ancora, camminano sempre.

Quarta di copertina
"Con la mia valigia gialla" di Stefania Bergo, StreetLib collana Gli scrittori della porta accanto (seconda edizione), 2017.

È un diario di viaggio autobiografico. Uno spaccato d'Africa e di vita.
Stanca della superficialità di una vita nemmeno troppo tranquilla, Stefania decide di partire. Da sola. Casualmente, trova in internet i contatti di un'associazione che gestisce il St. Orsola, un ospedale in un'area rurale del Kenya, Matiri. E parte con una valigia gialla, poche aspettative, tanta curiosità e voglia di cambiare, non certo il mondo, ma almeno la sua piccola insignificante esistenza.
"Con la mia valigia gialla" è il racconto dei piccoli eventi quotidiani (solo apparentemente banali) accaduti in quelle tre settimane, conditi con una manciata di riflessioni dell'autrice sulle diverse abitudini e sulla cultura locali, scanditi dai messaggi che inviava regolarmente via mobile a un caro amico con cui ha voluto condividere, in tempo reale, la sua esperienza.
Contrariamente a quanto si pensi, però, non è un libro sul volontariato. Il volontariato è solo un dettaglio. L'intenzione dell'autore era di raccontare il viaggio, una piccolissima parte d'Africa, quella che lei ha conosciuto, diversa dalla miriade di altre facce di una terra magica, unica. Ne racconta le usanze locali, i profumi, i colori, i suoni, il quotidiano. Le emozioni. E ne ha dato una sua personale chiave di lettura, intervallando ai dipinti della natura le sensazioni restituite, i pensieri suggeriti, le domande che si è posta e che pone a chi vorrà leggere le pagine del suo libro e soffermarsi, come lei, a cercare una risposta. Anche se spesso risposte non ce ne sono. Ecco perché questo libro non vuole insegnare nulla. È un semplice mezzo messo a disposizione dall'autrice per far compiere al lettore lo stesso viaggio (anche se non sarà mai lo stesso) senza prendere un aereo, semplicemente con l'immedesimazione.

★★★★★

Il buon giorno si vede dal mattino, dicono, e un buon incipit e una copertina accattivante possono essere il perfetto bigliettino da visita di un libro.
Secondo voi, quante stelline si merita il biglietto da visita di questo libro?

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2 commenti
  1. Partire per il Kenya, per fare la volontaria, nel periodo di Natale, quando tutti fanno i buoni per convenzione unanime, e pronti a lamentarsi di tutto e bestemmiare subito dopo la Befana. Scelta coraggiosa della nostra protagonista con relativa valigia gialla, che ci fa capire sia anche difficile entrare nel “giro”, non è che accettino sempre tutti. Riesce ad avere un incarico e parte, in aereo, da Milano, ci dipinge bene, il contrasto tra il lusso dell’aereo e le immagini di miseria africana che le passano per la mente. Anche se non sarà solo un viaggio di lavoro ma giustamente anche di esplorazione di questa terra così povera ma anche ricca di emozioni; Lo scopo di una simile scelta è fare del bene a chi ne ha bisogno, ma in una punta di autoanalisi capisce che lo fa anche per se stessa. Pechè no, magari raggiungessimo tutti un cosiffatto egoismo, la ricerca del proprio benessere, legata al benessere degli altri, il Pianeta sarebbe migliore. In realtà il comune sentire è all’opposto, siamo abituati a misurare il nostro bene sul male altrui , la soddisfazione di uno che ha il telepass presuppone che sull’altra corsia ci sia la coda. Perciò auguri per un libro utile, educativo.

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    1. Grazie Angelo, che belle parole, mi hai commosso (e tutto questo solo dall'incipit ^_^)..condivido la tua analisi sul senso del benessere spesso misurato sul male altrui, ahimè...

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