Inediti d'autore Racconto Un amore di tanto tempo fa di Stefania Bergo, il racconto di un amore destinato a finire, con un ultimo, indimenticabile guizzo vitale.
Il treno sfilava veloce lungo il litorale. Si poteva godere il mare semplicemente guardando fuori dal finestrino, volgendosi a sinistra. Di tanto in tanto sorrideva, pensando a quello che aveva fatto. E ancor più fantasticando su quello che sarebbe successo di lì a poco.«Ho un importante incontro di lavoro, il capo manda me, questa volta… » si era limitata a dire a sua madre, senza troppi dettagli.
Meno male che non poteva vederla, al telefono, altrimenti avrebbe sicuramente notato le sue guance avvampare. In realtà il suo viaggio non aveva niente a che vedere col dovere, anzi. Era una vacanza di puro piacere. Simone la aspettava alla stazione e subito sarebbe iniziata la loro avventura, una luna di miele furtiva, due giorni solo per loro, lontano da tutto, liberi di amarsi senza nascondersi. Anche se la moglie di lui lo attendeva a un centinaio di chilometri, parcheggiata nella casa che avevano affittato. Lei e i due figli. Ignari di tutto.
«Ma come ci sei riuscito, che le hai detto? Io non capisco… ma sei sicuro che si possa fare?», gli aveva chiesto Gaia, incredula e in imbarazzo.
«Sta tranquilla, le ho detto che mi prendevo due giorni per me, per seguire il vento e fare un po’ di vero surf più a nord».
Simone era un surfista, alto, con le spalle larghe e i capelli scuri.
Invece, successe qualche giorno dopo, una sera.
Dopo quella prima volta, si amarono ancora. Furtivamente in ufficio, nelle calde serate estive, quando lui riusciva a ritagliarsi del tempo rubandolo alla sua famiglia, palesemente durante le loro trasferte di lavoro o con la complicità degli amici con cui andavano a fare surf. Quelli erano i momenti più belli del loro amore, uniti anche dalla passione per lo sport che invece la moglie non riusciva a comprendere. Lei non lo seguiva mai, non aveva mai espresso il desiderio di imparare a sfidare le onde sul pelo d’acqua. Mentre Gaia adorava il surf, si sentiva libera e potente, domando il vento, appesa alla sua vela trasparente con un cerchio dorato come il sole. Insieme a Luca e Andrea partivano all’alba, con il loro furgoncino della Volkswagen, verde smeraldo. Si drogavano di rock a tutto volume e arrivavano carichi alla spiaggia. Stavano in mare tutto il giorno e finivano con una pizza al locale di Marisa, anche lei complice, dove tra birra e marijuana condividevano i segreti e i sogni delle loro vite. Amici inseparabili, amanti indivisibili.
Indivisibili. Fino a quando si resero conto che non potevano andare oltre. Il loro amore era così travolgente che non poteva più restare nell’ombra, accontentandosi dei ritagli. In loro era cresciuta la consapevolezza che non si trattasse di passione passeggera, di desiderio di trasgressione. Forse era Simone il vero amore di Gaia. E forse era lei la sua metà, la donna che aveva sempre sognato di avere al suo fianco, ancor prima di conoscerla. Tutto di lei era perfetto, combaciava col suo disegno: i capelli scuri, gli occhi verdi e luminosi, un corpo atletico, asciutto, sempre scattante, plastico, un’indole disinibita e senza freni, una passione per il surf, la danza e la natura, una mente vivace, intuitiva, una dolcezza sensibile e una femminilità disarmante. E soprattutto una passione totalizzante.
Ma entrambi sapevano che Simone avrebbe onorato il suo impegno ad ogni costo, mai avrebbe lasciato i suoi figli o avrebbe fatto loro del male. In tutto questo la moglie non c’entrava, lei non era sangue del suo sangue.
«Posso tradire Anna, ma non i miei figli… »
«E l’amore allora?»
Ma quella domanda restava sempre senza risposta, seguita da una devastante sensazione d’impotenza, come quando si sgretola la propria vita tra le mani.
Quella sarebbe dovuta essere la loro vacanza d’addio. Una luna di miele che invece di iniziare una vita insieme ne avrebbe suggellato la fine. Ma si erano ripromessi di viverla come se il domani non esistesse, come se il tempo avesse potuto fermarsi per sempre nella notte e quei due giorni si fossero trasformati in infinito.
Il treno entrò nella stazione e mentre rallentava Gaia sbirciò sul marciapiede in cerca di Simone. Lui la attendeva, puntuale, con il suo sorriso più bello.
Scese dal treno e gli saltò letteralmente in braccio, lasciando cadere lo zaino a terra, baciandolo come in un film, mentre lui le infilava le mani sotto la gonna, incurante del resto del mondo, stringendole le natiche.
«Quanto sei bella» le disse, come se ne fosse rimasto folgorato solo in quel momento.
«Ciao amore mio» rispose Gaia, mordendosi il labbro subito dopo, quasi a tenere a freno la lingua per non continuare a baciarlo o forse semplicemente per fargli capire quanto avesse voglia di lui.
Salirono in auto e si diressero verso la città, attraversando vaste terre di ulivi e mandorli. Lui le accarezzava le cosce abbronzate mentre lei guardava dal finestrino aperto riempiendosi gli occhi di natura e le narici delle inebrianti note agrumate dell’aria. Il loro desiderio in quel momento era talmente grande da non poter essere domato oltre. Si fermarono lungo la via, infilandosi in una stradina di campagna che tagliava un uliveto. E lì, all’ombra di un muretto di pietre chiare, fecero l’amore, mentre tutt’intorno le cicale impazzavano e mescolavano la loro armonia con le note di Norah Jones. Gaia avrebbe associato per sempre a quella vacanza il frinire isterico delle cicale e le ballate nostalgiche della cantante…
Appena prima di venire sorpresi dal proprietario delle terre, che si avvicinava a piedi da lontano, risalirono in macchina, sotto il sole che stava salendo fiero nel cielo terso.
Trovarono un posticino appartato, tranquillo, tra gli scogli di un’insenatura, su un mare placido come olio e caldo come liquido amniotico.
Gaia aveva raccolto i capelli bagnati in uno chignon, decorandoli con un fiore viola di bouganville. Aveva indossato il vestito sulla pelle umida e la conseguente trasparenza lasciava intuire che sotto non avesse altro, se non la sua passione indomata. Da fuori potevano sembrare una coppietta di fidanzatini a tratti adolescenti, nessuno avrebbe mai immaginato si trattasse del canto del cigno del loro amore.
Pranzarono sul mare, pesce fresco e buon vino, come la loro prima cena. Ma questa volta erano soli, immersi uno nell’altra, non fisicamente, come poco prima, ma altrettanto intensamente. Di tanto in tanto gli occhi di Simone diventavano traslucidi, le sue mani si serravano attorno a quelle di Gaia, come se stesse scivolando lontano e lui volesse trattenerla. Lei gli sorrideva, malgrado il cuore grave, e fugava ogni ombra, giocando col suo desiderio per confondere il cuore e distoglierlo dal dolore. Poco prima del dolce, gli scese una lacrima beffarda, sfuggita al controllo, e per dipanare l’attimo, lei posò il bicchiere sulla tovaglia bianca e gli si sedette in braccio, alzando appena il vestito per ricordargli che non indossava altro, ondeggiando su di lui come canna al vento, al ritmo delle cicale sempre più isteriche. Il cameriere attese qualche minuto prima di arrivare al tavolo, forse per rispetto del momento, forse per imbarazzo, forse perché si aspettava di vederli andare oltre, proprio lì, in quel momento. Invece Simone non fece altro che abbracciarla e affondare un istante il viso tra i suoi seni, respirandola per imprimere il suo odore tra i suoi ricordi, come se la annusasse per l’ultima volta.
Trascorsero il pomeriggio ancora al mare, questa volta su una spiaggia, impanandosi sulla sabbia. Non abbastanza appartati per fare l’amore, ma sufficientemente in disparte per assaggiarsi la pelle salata e giocare con le mani, come adolescenti alla scoperta del corpo dell’altro.
«Ma dove andiamo a dormire?» chiese Gaia, realizzando solo verso sera che avrebbero dovuto trovare un posto per la notte.
«Non ti preoccupare, io la trovo sempre una casa dove dormire… siamo andati spesso in vacanza senza prenotare prima» disse Simone senza pesare le parole.
Quell’allusione a una vita che non le apparteneva, ad una routine che lei non avrebbe mai vissuto, le tolse un istante il respiro, come avesse ricevuto un pugno alla bocca dello stomaco.
Casualmente, come previsto, dal fruttivendolo, mentre acquistava arance e mandorle, Simone sentì parlare una signora di una casa da affittare anche solo per una notte, appena fuori città, in un agrumeto. E, sempre casualmente, la casa era libera, proprio quell’unica notte in cui loro l’avrebbero riempita d’amore.
La dimora era incantevole, di pietra chiara, fresca, malgrado il sole torrido d’agosto. Profumava di fiori di campo. Alle finestre aveva tende bianche di cotone, ondeggianti all’aria tiepida dell’imbrunire. Non c’erano porte, eccetto quella d’ingresso. Il bagno era celato da un telo di juta e la doccia racchiusa da rocce naturali levigate. Fecero l’amore anche sotto l’acqua. Le braccia di lui la sostenevano e la muovevano ritmicamente spingendola contro il muro. Lei gli si aggrappò stringendosi al collo, percorso da una vena grossa quanto un dito, per lo sforzo e il desiderio. Poco prima di venire, Simone si fermò fissandola negli occhi, talmente in fondo da farla sentire nuda, un’anima nuda senza paraventi, esposta. Trattennero il respiro entrambi. Se non fosse stato per l’acqua che continuava a scorrere, si sarebbe potuto pensare che il tempo si fosse fermato o che gli amanti fossero stati trasformati in statue da un mago crudele e geloso. Invece in quel silenzio, in quell’istante, si stavano condensando le forze dell’universo che li volevano separare e l’energia dell’amore che li teneva uniti. Che li avrebbe tenuti uniti per sempre.
«Ho fame, usciamo?» disse Gaia in un sussurro.
Ormai il sesso non era più importante. Stavano per vivere la loro ultima notte. Che differenza poteva fare un orgasmo in più? Lasciarono tutto in sospeso, asciugandosi e vestendosi in silenzio.
Dopo cena passeggiarono per il centro. Si ritrovarono in una piazzetta a ridosso del mare, sul retro di un palazzo. Era notte fonda e tutte le luci erano spente. Ma la luna risplendeva come un faro puntato su un sipario chiuso alla fine dell’ultimo atto. Gaia era splendida, sebbene sfinita. I capelli le ricadevano ondulati sulle spalle, inebrianti, morbidi. Indossava un vestito rosso che le lasciava la schiena completamente scoperta. Simone la tirò a sé, da dietro, baciandole la pelle esposta, mentre lei, chinando la testa da un lato, chiuse gli occhi concentrandosi sulla sua bocca calda che le scorreva sul collo, scivolando giù. Lui si inginocchiò, sollevandole il vestito, e cominciando a baciarle le natiche nude. Le abbassò il perizoma e le infilò una mano tra le gambe. Dopo qualche istante, dall’alto, arrivò una secchiata d’acqua fragorosa che cadde a pochi metri da loro, schizzandoli. Evidentemente, non tutti gli inquilini del palazzo dormivano e soprattutto non avevano apprezzato la loro esibizione, che tale non voleva essere.
Tornarono a casa, travolti non solo dal desiderio che era rimasto in attesa, ma anche dalle risate per l’imbarazzante epilogo della loro serata. Erano ormai le cinque quando si addormentarono, uno nell’altra, senza più forze né umori.
Dopo un paio d’ore Simone si svegliò. Il sole fendeva il pavimento della camera in un punto poco lontano dal letto. La stanza era già luminosa ma silenziosa. Gaia dormiva ancora, prona. Lui la ammirava, innamorato, completamente inerme, arreso a quelle linee sinuose che non gli lasciavano scampo. Sconfitto da una vita che non gli dava scelta. Pianse in silenzio, mentre lei cominciava a risvegliarsi, mugugnando dolcemente, come se sognasse ancora di fare l’amore, o forse solamente di uscire a fare la spesa e preparargli il pranzo. Ma non c’era più tempo, almeno per loro. Lui doveva rientrare da sua moglie, lei aveva il treno verso le undici. Erano le ultime ore della loro luna di miele.
Gaia si ridestò con l’aroma del caffè nelle narici e i sogni sospesi a mezz’aria. Bastò uno sguardo. Non servivano parole, non in un momento come quello. Il silenzio, quello era più adatto a un addio. Il silenzio assordante del ticchettio di un orologio che inesorabile scandisce i secondi di un conto alla rovescia. Insopportabile. Denso.
Non parlarono mentre lasciavano quella casa, l’unica in cui avessero mai abitato, non parlarono quando salirono in macchina e percorsero la stessa strada del giorno precedente, non parlarono quando arrivarono alla stazione.
«Questo non cambia nulla, tra noi. Non ti amerò di meno » disse Simone, con la voce rotta dall’emozione.
E così sarebbe stato davvero, per gli anni a venire.
«Cambiamo solo abitudini, amore mio… ma tu resterai per sempre qui» fece eco lei, prendendogli la mano e portandosela al petto.
Gaia salì sul treno senza voltarsi. Si sedette sempre senza cercarlo sul marciapiede della stazione, anche se sapeva che lui fosse lì, a guardarla, infondendole il coraggio di non scendere e aggrapparsi alle sue spalle, al suo collo, come solo poche ore prima aveva fatto. Sapeva che non lo avrebbe rivisto più, perché quello era il loro nuovo giuramento. Lei si era licenziata e doveva trasferirsi in un’altra città, per preservare la famiglia di Simone, proteggerla dal loro amore travolgente. Ma chi avrebbe protetto lei dalla disperazione?
Il treno partì, strappando quell’amore, ma solo in superficie. Nel profondo tutto rimase intatto, quel giorno e i giorni a venire. Come quando si raccolgono gli steli della lavanda e si mettono a essiccare. Il loro profumo perdura, anche se la pianta non ha più radici nella terra, anche se non raccoglie la linfa vitale dal contatto. Conserva il colore, che non sbiadisce mai. Viola. Come un fiore di bouganville tra i capelli, in una fotografia di tanto tempo fa.
Stefania Bergo Non ho mai avuto i piedi per terra e non sono mai stata cauta. Sono istintiva, impulsiva, passionale, testarda, sensibile. Scrivo libri, insegno, progetto ospedali e creo siti web. Mia figlia è tutto il mio mondo. Adoro viaggiare, ne ho bisogno. Potrei definirmi una zingara felice. Il mio secondo amore è l'Africa, quella che ho avuto la fortuna di conoscere e di cui racconto nel mio libro. Con la mia valigia gialla, StreetLib (seconda edizione). |
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