Gli scrittori della porta accanto

#nongiustificaremai: storie di donne, la parola ai nostri libri

#nongiustificaremai: storie di donne, la parola ai nostri libri

Di Stefania Bergo. #nongiustificaremai, la campagna degli Scrittori della Porta Accanto contro la violenza sulle donne. La parola ai nostri libri: storie di donne scritte da donne.

#nongiustificaremai è la campagna contro la violenza sulle donne degli Scrittori della Porta Accanto, rivolta in particolar modo a quelle fidanzate/mogli incapaci di ribellarsi al compagno, a volte per paura, a volte per quello specialissimo modo che abbiamo noi donne di giustificare anche gli atti più primitivi di sopruso, concedendo il beneficio del dubbio e soprattutto una seconda occasione. A tutte queste donne un grande abbraccio pieno di energia positiva e un consiglio: non giustificare mai!
Lascio che siano le pagine dei nostri libri a parlare della difficoltà dell'essere donna ancora oggi, spaziando dalla violenza subita, fisica o psicologica, alla condizione femminile presso culture lontane – nello spazio e nel tempo –, ai problemi legati a bulimia/anoressia, all'autolesionismo tipico delle donne, al tema delicato dell'aborto, alla discriminazione.

Disparità di genere in ambito lavorativo


L’ondata di scioperi proseguì ancora per tutto il 1909 e le operaie tessili della fabbrica newyorkese “Triangle Shirtwaist Company”, leader nella produzione di camicette alla moda dell’epoca, le “shirtwaist”, iniziarono uno sciopero proprio l’8 marzo, dando l’avvio a una lunga protesta.
Lo sciopero durò parecchio tempo, le operaie protestavano contro i bassi salari, contro il lungo orario di lavoro, contro lo sfruttamento minorile e le inumane condizioni dei lavoratori. Tra le altre cose si lamentavano anche per la mancanza di adeguate misure di sicurezza e antincendio sul luogo di lavoro.
Silvia Pattarini, Biglietto di terza classe

Silvia Pattarini, nel tuo romanzo storico Biglietto di terza classe parli di sfruttamento e della disparità di genere in ambito lavorativo, ma anche delle prime forme di protesta e della conquista dei primi diritti delle donne. Cos'è per te, oggi, la festa della donna?

“Alla memoria dei miei antenati. Per la memoria dei miei figli”.
Questa è la dedica in apertura del mio romanzo. Credo che già questa semplice frase valga più di prolissi discorsi.
Volete sapere perché oggi si festeggia la donna nella giornata dell’8 marzo? Il mio romanzo vi svela l’origine di questa usanza. Personalmente non trovo indicata la parola festa, preferisco commemorazione, a ricordo di tutte quelle donne forti e coraggiose, o al contrario vittime indifese, abusate e maltrattate. Donne morte per noi. Non capisco cosa ci sia da festeggiare. Al limite dobbiamo solo ringraziare chi si è tanto speso, ha lottato per conquistare una manciata di diritti, per arrivare fin qui. Ad oggi non stiamo poi così male, almeno le più fortunate di noi, ma la strada è ancora lunga e gli ostacoli da superare sono ancora insormontabili. Ai posteri l’ardua sentenza.

Autolesionismo e disturbi alimentari


Dolore nascosto, ferite visibili.
Donne in guerra con sé stesse: alcune hanno vinto, altre non ce l'hanno fatta a rivedere la luce.
Le donne di cui parlo non sono cadute in un conflitto bellico, e nemmeno vittime dell'aids, ma per mano propria.
Uccise dall'alcool, dalla droga, dall'anoressia, dalla bulimia, dalle diete ossessive, dalle conseguenze di bruciature o dai tagli autoinflitti e da cento altri modi di farsi male.
Alcune si sono suicidate.
Tanti possono essere i tentativi per comprendere e spiegare le motivazioni profonde per cui una donna arrivi a ferirsi, per annientarsi. Tanti possono essere i commenti. Ma non è tutto così semplice come sembra.
Tamara Marcelli, Il blu che non è un colore

Tamara Marcelli, il tuo libro, Il blu che non è un colore, raccoglie poesie, riflessioni e un testo teatrale, declinando al femminile una serie di tematiche, compresi l'autolesionismo e la fragilità psicologica. Un'altra forma di violenza subita, questa volta inflitta da noi stesse...

La violenza è spesso quella che noi donne ci infliggiamo da sole. Non essendo noi stesse fino in fondo. Non accettando le nostre debolezze. Permettendo a qualcun altro di vivere la nostra vita. È il non darci una nuova possibilità. Troppo rigide e crudeli con noi stesse fino al punto di perdere il senso della vita. Di noi. Annientandoci. Il perché è sempre davanti ai nostri occhi, ma preferiamo non vederlo. Fa troppo male. Ma il dolore è l'unica strada alla consapevolezza, ad una nuova opportunità. Quella che dobbiamo a noi stesse. Il rispetto.

Poco fa ho preso la bilancia e mi sono pesata. Dalla sera dell’ospedale non l’avevo più fatto, avevo troppa paura di essere più pesante, visto che sono stata costretta a ingoiare qualcosa in più per non mandare totalmente fuori di testa mia mamma.
Gianna Gambini, Tartarughe Marine

Gianna Gambini, nel tuo primo romanzo, Tartarughe marine, anche tu parli di una forma di autolesionismo: i disturbi alimentari. Anche se forse "autolesionismo" non è il termine adatto, la violenza è comunque indotta dall'esterno, giusto?

L'estratto riportato dal mio romanzo mostra le difficoltà di Caterina, la protagonista, nell’accettare il proprio corpo, diverso dai canoni di bellezza imposti dai media e condivisi dagli altri adolescenti. Questo senso di inadeguatezza porta la ragazza a sfiorare il baratro dell’anoressia, rifiutando il cibo per apparire migliore, per essere parte del gruppo. Fortunatamente questa volontà di auto-punirsi è compensata dalla consapevolezza di essere in procinto di raggiungere un punto di non ritorno, per cui grazie alle sue forze ed alle imposizioni di medici e genitori, Caterina riesce a risalire la china e a riprendere una vita apparentemente normale. L’equilibrio raggiunto, però, è fatto di lotte contro il nemico fondamentale, il cibo e di ricadute, è costruito su un filo che troppo spesso traballa, per colpa della fragilità della protagonista, ma anche a causa di una società che impone sempre di più alle donne di possedere qualità fisiche, piuttosto che morali.

Violenza psicologica e fisica, stupro



Aspetto il mio turno con rassegnazione, perché prima o poi toccherà anche a me. È mattina quando entrano tre militari. Uno lo riconosco: è il comandante che ha violentato Hasa e fatto uccidere i miei fratelli e zio Ivica. L’uomo ha uno sguardo e una voce che non potrei mai dimenticare. Questa volta non c’è l’anziano con lui, ma altri due paramilitari giovani, uno con il volto butterato, l’altro con una cicatrice sulla guancia sinistra. Il comandante Kunarac, questo è il suo nome, si aggira nel dormitorio come un predatore. Scruta lentamente ognuna di noi, poi il suo sguardo si ferma su di me.
“Lei” mi indica con un cenno della mano e i due soldati mi sono già accanto per portarmi fuori.
Loriana Lucciarini, 4 petali rossi

Il coraggio di raccontare è uno dei quattro racconti di donne, quello di Loriana Lucciarini, contenuto nella raccolta 4 petali rossi e racconta lo stupro etnico come arma per umiliare un popolo, oltre alle donne. Donne che diventano infinite volte vittime, di una guerra che non hanno voluto, di una "pulizia etnica" che mira a purificare il nemico, della vergogna, della colpa...

Lo stupro etnico nella ex Jugoslavia, durante la guerra dei Balcani, è quello che ha segnato per sempre la vita di molte donne; ma è proprio grazie alla testimonianza di molte di loro che, nel 2001, il Tribunale internazionale dell’Aja ha condannato lo stupro di massa come crimine contro l’umanità. Questa è la storia di Selina, di Hasa, di Adila e di tante altre, vittime della violenza della guerra. Una guerra che annulla la coscienza. Una guerra che riduce tutto a brutale abuso. Quello che tante donne, nell'enclave di Srebrenica hanno subito, solo perché di etnia musulmana e utili a dimostrare la superiorità della razza cetnica. Un orrore avvenuto a pochi chilometri da noi e che, purtroppo, ancora oggi si ripropone in altre parti del mondo. Le donne diventano le vittime senza voce dei meccanismi di odio e di guerra. In molte non ce l'hanno fatta, non hanno retto al dolore e alla vergogna, alcune però hanno trovato la forza di reagire e inchiodare i loro aguzzini e grazie al loro coraggio si è tenuto il processo al tribunale internazionale dell'Aja che per la prima volta nella storia mondiale ha condannato lo stupro etnico come crimine contro l'umanità.

Da quando aveva fatto sesso la prima volta con Max, la sua vita era diventata un disastro. Il suo corpo non rispondeva più al cervello, i suoi sentimenti comandavano su tutto, la nostalgia di lui si faceva sentire in ogni piccola cosa. La prima volta che avevano fatto l’amore, era stata anche l’ultima. Il mattino successivo, lui aveva improvvisamente chiuso ogni rapporto con lei: le aveva detto che non sarebbero andati da nessuna parte insieme, che erano troppo diversi, che a lui lei non piaceva e che non era disposto a fingere il contrario. Aveva smesso di rispondere a messaggi e chiamate, chiuso ogni finestra di contatto e iniziato a scoparsi un’altra immediatamente dopo la breve conversazione di addio avuta con lei. Ironia della sorte, anche la nuova bambola gonfiabile si chiamava Veronica.
Giulia Mastrantoni, Veronica è mia

Veronica è mia tratta di un tipo di violenza diffuso, basato sul confine – labile – tra consensualità e persuasione, una persuasione che non è mai esplicitata, ma che agisce a livello psicologico sull’elemento “debole” della coppia. Dal punto di vista femminile, si tratta di un episodio grave: è una violenza senza colpevole, vissuta come una colpa “propria”. Giulia Mastrantoni, come mai hai voluto raccontare la storia di Veronica?

Ho pensato che fosse importante dare la parola a una tematica di tale rilievo, soprattutto perché oggi lo scenario che ci è più familiare è proprio quello dell’uomo “d’esperienza” che inizia la vergine al sesso estremo, senza promesse d’amore, anche se poi c’è quasi sempre un lieto fine. Si tratta di un’influenza estremamente nociva per le adolescenti, perché le si abitua a considerarsi giocattoli sessuali e, soprattutto, si insegna loro a dare il lieto fine per scontato. È giusto sottolineare che non solo non siamo giocattoli, ma che il lieto fine non è assolutamente una certezza. Anzi, nella maggior parte dei casi essere “sottomesse” a un uomo porta problemi, anche per il futuro. Volevo che le giovanissime lo sapessero, mi sembrava giusto mostrare questo spicchio di realtà.

[...] da quando si erano seduti al tavolo, e forse anche da prima, il ragazzo non aveva fatto altro che provocarla e punzecchiarla:
- Certo che potevi metterti addosso qualcosa di più elegante di quel vestito da Cenerentola! E poi, le scarpe! Non avevi tacchi più alti?
Martina incassò, decisa a non farsi rovinare tutta la serata:
- Forse hai ragione, ma sai, qui in collegio non ho tutti i miei vestiti… - rispose supponendo che lui avrebbe capito.
- E quindi? Potevi andarti a comperare qualcosa oggi pomeriggio! Guarda le altre donne qui! Sono tutte molto più in tiro di te. Io che figura ci faccio?
- Giulio, scusami, ma non avevo idea che il target di questo locale…
- Siamo fortunati che ci abbiano fatto entrare…
- Esagerato, non è mica il casinò… E poi potevi dirmelo per tempo, magari avrei provveduto, – Martina rispondeva con la sua usuale pacatezza, per smorzare i toni.
- Sì, figurati, tirchia come sei! Comunque, se non te l’ho detto, è perché supponevo che tu lo sapessi! Come sempre però ti ho sopravvalutata.
Elena Genero Santoro, Perché ne sono innamorata

In uno dei suoi primi romanzi, Perché ne sono innamorata, Elena Genero Santoro pone l'accento sulla violenza psicologica che spesso molte donne subiscono, vittime di mariti patologici o estremamente maschilisti. Elena, quanto c'è di inventato e quanto di reale in questa "scena" che spesso si ripete, di una violenza troppo spesso scambiata per amore?

La scena descritta è ispirata a un fatto vero; è stata un po’ romanzata, ma solo per convogliare in un’unica scena alcuni frammenti accaduti in diversi momenti. Il Giulio studente universitario di “Perché ne sono innamorata” è quello che poi, crescendo, diventerà un uomo aggressivo a trecentosessanta gradi. La sua evoluzione, la sua caduta verso il basso sarà direttamente proporzionale alla sua frustrazione: a vent’anni non ne aveva ancora accumulata a sufficienza, ma poi, con il passare del tempo e il sommarsi delle delusioni, Giulio diventerà lo stereotipo dell’uomo violento. Ho voluto fotografarlo in gioventù in questo romanzo per rendere riconoscibile un bruto come lui al momento dell’esordio, prima che sia troppo tardi, prima che commetta guai ancora peggiori. So che non sempre è immediato riconoscere in un giovane innamorato e brillante il proprio futuro aguzzino, ma a volte, certi segnali, se correttamente interpretati, possono essere la via giusta. Questo è il mio contributo per questa festa della donna: la consapevolezza a tempo debito, ragazze, ci può rendere libere e far risparmiare un sacco di guai.

«Siete dei buffoni, tutti e tre» li prese in giro, ma poi si accorse che Giorgia stava armeggiando con il seggiolino dell’auto con l’intento di estrarre il bambino sudato e disidratato dalla macchina di Giulio.
Allora smise di ridere e le si avventò contro con calci e ceffoni. La buttò a terra e seguitò a colpirla con ferocia sull’addome, sulle gambe, sulla schiena, sulla faccia.
Mentre menava le mani e si accaniva senza alcuna pietà sul corpo inerme della madre di suo figlio, Giulio non pensava a niente. Non calcolava le conseguenze delle sue azioni, non gli importava di poter recare dei danni permanenti a una donna, o di traumatizzare il suo bambino, e nemmeno che prima o poi avrebbe dovuto rendere conto alla giustizia. Il suo cervello era spento. Black out. Ciò che agitava Giulio era invece una rabbia sorda, viscerale, che gli partiva dalle budella e che si scaricava colpendo senza sosta la sua vittima. C’era un solo motore che muoveva le braccia e le gambe di Giulio mentre dispensavano botte e calci: quella piccola insignificante ragioniera doveva ca-pire chi comandava. Quella stronza, nei mesi, si era montata troppo la testa. Si era permessa di alzare la cresta, di credersi una sua pari. Era ora di umiliarla a dovere, per ristabilire l’ordine.
Elena Genero Santoro, Diventa realtà

Aborto


«Non penserai di tenerlo, vero?»
No, certo, non le era stato concesso di pensare.
«Lo sai che saresti sola, io non potrei fare nulla per te.»
Sola.
Del resto lo era sempre stata.
E forse per questo si era lasciata sedurre da quell’uomo brizzolato con gli occhi algidi, cristallini.
[...] C’era stato un primo appuntamento, un innocente caffè. E poi una cena. E una serata a teatro. E tanta passione, un coinvolgimento tale da serrare il respiro in petto e dare le vertigini.
Fino a quel giorno, quando erano comparse due lineette rosa verticali. Piccole, insignificanti, si sarebbe detto. Ma tremendamente dense come buchi neri. Non c’era stata nemmeno una vera e propria discussione, nemmeno un’ipotesi alternativa remota. Tutto era fluito fin da subito verso quella che sembrava l’unica logica conseguenza di una storia nata per caso, di un amore – amore? – senza futuro, di una vita mai preventivata.
«Non penserai di tenerlo, vero?»
Stefania Bergo, La stanza numero cinque

Ho scritto il romanzo breve La stanza numero cinque per parlare d'aborto, con l'intento di far indossare le scarpe delle donne e comprenderle, invece di giudicarle. Spesso vengono abbandonate, lasciate sole a prendere certe decisioni che solo apparentemente sono scelte, altre volte, invece, vogliono loro stesse essere le sole a decidere del proprio corpo, del proprio futuro. In ogni caso, nessuno dovrebbe puntare un dito inquisitore perché la donna deve rispondere solamente a se stessa, è con la propria coscienza che è chiamata a fare i conti. Decidere che fare del suo corpo è un suo diritto.

Stereotipi e infibulazione: la condizione femminile nelle culture lontane


Sabra e io ci siamo scritte molte lunghe lettere. Quando la scuola era in pausa tornava a casa e io ogni volta rimanevo stupita dai suoi cambiamenti. Mi rammaricavo di non averla vista crescere e diventare donna, ma quando la ascoltavo [...], l’orgoglio che provavo superava ogni mia tristezza.
Ornella Nalon, Oltre i confini del mondo

Ornella Nalon, il tuo primo romanzo è stato Oltre i confini del mondo, narra la storia di due donne, una dottoressa italiana e una donna masai che si incontrano in Tanzania e scoprono di avere molto più in comune di quanto si pensi. Quali sono questi tratti comuni?

Anche ai giorni nostri, la condizione femminile assiste a discriminazioni in famiglia, nell'istruzione, nel lavoro e nella vita sociale. Certo, questi fenomeni sono più ricorrenti nel cosiddetto "terzo mondo", in cui alla donna vengono riconosciuti ruoli limitati alla procreazione e alla cura della famiglia, ma nessun paese ne è del tutto immune, nemmeno quello considerato "altamente civilizzato". Ancora molto dev'essere fatto per garantire, al genere femminile, la giusta e dovuta considerazione.


Regina sta stappando un paio di birre per due tizi che sembrano aver iniziato a brindare questa mattina. In effetti qui l’alcolismo è una vera piaga. Mentre le donne accudiscono la famiglia e la casa, cucinano quello che loro stesse sono andate a comprare al mercato dopo ore di cammino, scendono al fiume a prendere l’acqua caricandosi le taniche gialle sulla schiena, percorrono chilometri interminabili o lavorano nei campi con i figli legati ai lombi, la maggior parte dei mariti siede comodamente nei pub, sorseggiando birra calda che entra subito in circolo e li rende sgradevoli, violenti a volte – ma forse, è così per tutti gli alcolisti, non solo qui. In effetti non ho mai visto una donna seduta qui a bere, magari una soda, chiacchierando con le amiche, rifletto. Le uniche siamo noi volontarie dell’ospedale. E Regina, che però ci lavora.
Stefania Bergo, Con la mia valigia gialla

Ho vissuto due anni in Africa, in un piccolo villaggio rurale al centro del Kenya. E ho potuto constatare quale sia la condizione della donna in questi angoli remoti, dove ancora viene praticata l'infibulazione. La donna è vista solo come una proprietà del marito, non ha diritti, solo un'infinita lista di doveri. Come quello di provvedere a mantenere la famiglia, mentre l'uomo rafforza la parete del suo stomaco bevendo birra locale o alcool di pessima qualità, diventando, di conseguenza, pure violento oltre i limiti. E se una donna rimane vedova, la proprietà sulla sua testa passa ai fratelli del marito. Spesso le donne sono sole, con figli avuti da un uomo fuggiasco. E non c'è alcuna forma di previdenza sociale, per loro.
Eppure anche lì, le tradizioni stanno lentamente lasciando posto al progresso, inteso nel senso positivo del termine. Forse non per le donne di oggi, ma magari per le loro figlie...

Dopo poco, un’altra emergenza, un parto difficile. Valentina e Luca hanno dovuto svegliarsi e dare una mano per accogliere il neonato ed essere pronti a un eventuale cesareo, dividendosi in questo caso gli infermieri, e soprattutto l’anestesista, con l’altra sala operatoria. Eppure la mamma era tranquilla, come se l’emergenza non la riguardasse affatto. Anche quando l’hanno ricucita. Valentina ci ha messo almeno due ore cercando di ricomporre i brandelli.
«Tutta colpa dell’infibulazione», mi ha raccontato più volte.
L’infibulazione in Kenya non è più legale, il governo si sta impegnando per ostacolare le mutilazioni genitali femminili, ma la praticano ancora. Le tradizioni sono forti e pure l’orgoglio di mantenerle. Basti pensare che Jomo Kenyatta la difese come una “ pratica culturale importante”. Si calcola che oltre 135 milioni di donne e ragazze in ventinove Paesi dell’Africa e del Medio Oriente siano state sottoposte alla mutilazione dei genitali, che può arrivare fino alla cucitura delle grandi labbra, lasciando appena una minima apertura per il rapporto sessuale — che quindi risulta dolorosissimo. Un’apertura decisamente insufficiente al parto, se non con una lacerazione estesa. Senza contare che questa pratica espone al rischio di morte anche i neonati.
Stefania Bergo, Mwende. Ricordi di due anni in Africa
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Stefania Bergo


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1 commenti
  1. La realtà attuale delle donne è che purtroppo subiscono ancora l'ego maschile, tante non parlano per paura di subire di peggio. Spero arrivi presto il momento che tutte le donne trovino il coraggio di reagire e vincere la paura. In fondo il sesso femminile è forteeeeeee!

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