Gli scrittori della porta accanto

Questione di valute (e di punti di vista): lavorare per vivere o vivere per lavorare?

Questione di valute (e di punti di vista): lavorare per vivere o vivere per lavorare?

Di Gianluca Santeramo. Il denaro, nato come naturale evoluzione del baratto, invece di liberarci ha innescato una sorta di schiavitù del lavoratore, che regala il suo prezioso tempo in cambio di beni di consumo spesso superflui.

Qualche giorno fa, ho avuto modo di vedere un video in cui José Mujica, un politico uruguaiano che sta conquistando gente del suo e di altri popoli con la sua saggezza, parla della nostra era, l'era del consumismo, del mercato sempre aperto all'ultimo gadget. Mujica è un esempio, una persona dal coraggio invidiabile. Pur guadagnando circa €8.300 mensili, dona il 90% del suo stipendio a bisognosi e organizzazioni non governative. Dall'alto del suo stipendio, che ne fa almeno sei dei miei, ha un'automobile del 1987 e vive modestamente. Personaggio particolare, uno di quelli che possono indurre un ateo, come me, ad avere dubbi sull'esistenza di un Dio, che se ha angeli al suo servizio, dovrebbe averne qualcuno impiegato in Uruguay.

Non veniamo al mondo per lavorare o per accumulare ricchezza, ma per vivere. E di vita ne abbiamo solo una.

Il discorso di Mujica richiama il solito problema del dio denaro, della sua natura diventata ormai eterea, inafferrabile, incomprensibile. Eppure dovrebbe essere chiaro cosa sia il denaro: è la semplice evoluzione del baratto.

Una volta si riceveva un litro di latte in cambio di quattro uova, ma le uova hanno il brutto vizio di marcire. Quindi, secoli or sono, qualcuno inventò una sorta di certificazione di scambio unilaterale, ovvero qualcosa che attesti che il litro di latte lo abbiamo dato, ma non abbiamo ricevuto nulla in cambio, se non quella roba che chiamiamo denaro.
Il nostro lavoro ce lo pagano così: noi ci svegliamo presto la mattina, ci concediamo in una sorta di schiavitù cum grano salis a qualcuno e, in cambio, riceviamo una certa quantità di titoli di avvenuta prestazione, che chiamiamo salario. Quello stesso salario attesta che, per un certo numero di ore della nostra vita, ci siamo prestati a qualcuno, ci siamo messi a sua disposizione. Stando alla media degli stipendi riconosciuti a un operaio o a un impiegato, di questi tempi, un giorno di lavoro ci riconosce un controvalore di circa €50.
Fin qui tutto bene: non c'è nulla di male nel guadagnarsi la pagnotta. Quello che in molti non considerano è che €50 è il costo di una giornata in cui non si è a propria disposizione.

E qui viene il bello: lavorereste gratis per me per sette giorni di fila se vi regalassi uno smartphone? 

Sono sicuro che la maggior parte di chi legge, di getto, senza pensarci su un pochino, risponderebbe di no! Scherziamo? Se uno vuole il nostro lavoro deve pagarcelo, no? Eppure, se ci pensate bene, siamo in molti a lavorare gratis per qualcuno in cambio di uno smartphone. Funziona così: lavoriamo sette giorni, ci danno il corrispettivo di €350 euro in cambio, che noi reinvestiamo per acquistare il nostro cellulare all'avanguardia. In altre parole, lavorare sette giorni per qualcuno in cambio di un telefono, non è lavorare gratis ma solo l'eliminazione di un passaggio in una trafila commerciale che permette di trasformare una prestazione in un oggetto materiale: quando si dice comprare con il sudore!
Il problema è che questo stesso meccanismo, facilmente spiegabile su carta, fallisce quasi sempre all'atto pratico perché, molto semplicemente, non ci pensiamo.
Un altro esempio: un'utilitaria molto economica costa circa €9.000. Ma perché mai accontentarsi invece di acquistare un'auto davvero bella al costo di €30.000, qualcosa di cui andare fieri? Se cambiamo la valuta, però, vien fuori che l'utilitaria corrisponde a 180 giorni di lavoro, mentre l'auto più bella la si compra con 600 giorni di lavoro. Stiamo parlando di sei mesi di lavoro contro quasi due anni! E perché, tra l'altro? In fondo, l'auto serve solo per spostarsi di una decina di chilometri al giorno, almeno alla maggior parte della gente.

Ed ecco il senso del discorso: noi non abbiamo il benché minimo rispetto per le nostre stesse fatiche e il nostro tempo. 

Siamo disposti a lavorare sette giorni per qualcuno pur di andare in giro con l'ultimo modello di smartphone e addirittura due anni per avere la macchina bella, lo status symbol. Ma così non dimostriamo alcun rispetto per il nostro lavoro, o meglio, per il nostro prezioso tempo, altrimenti acquisteremmo non in base al bestiale senso di appagamento, ma alla reale utilità delle cose, ridimensionandone davvero il valore. È quello che, a mio avviso, fa la differenza tra lavorare per vivere e vivere per lavorare. Nessuno sarebbe disposto a firmare un contratto di schiavitù di due anni per poter dire di avere una bella auto e, anzi, sono sicuro che se la società funzionasse così, in molti andrebbero in giro in bicicletta, se non altro per orgoglio.
Peccato che la società funzioni proprio così, ma la gente ne goda grazie a un meccanismo che abilmente cela tutto alla vista, seppur il meccanismo del denaro non sia nato per imprigionare, casomai per eliminare i limiti del baratto.


Gianluca Santeramo
Allevato da un Commodore VIC 20 e da Goldrake, si è diplomato in Informatica Industriale nel lontano 1995. Non è mai riuscito a recidere il cordone ombelicale che lo lega alla fantascienza sin dalla più tenera età. Dopo aver corretto decine di bozze di scrittori in erba tra un capolinea e l’altro, si è messo anche a scrivere: da allora sono iniziati i guai….


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