Incipit #170 Si strinse a lui e intrecciò le dita della mano con le sue. Lui la lasciò fare, senza dire una parola.
Il tesoro dentro
di Elena Genero SantoroRomance psicologico
Gli Scrittori della Porta Accanto
ebook 2,99€
cartaceo 12,99€
Camminarono vicini per le poche centinaia di metri che li separavano dal negozio, nella notte fredda e nera dell’inverno piemontese. L’aria tagliente sferzava i loro visi. Il sonno ormai era scemato del tutto. La strada era deserta e silenziosa. Non un’auto, non un’anima in giro. Solo la luce dei lampioni, macchie chiare, sfocate nella foschia.
Da quella notte la sua vita era cambiata. Più tardi si sarebbe fatta delle domande, per capire come aveva potuto concedere la sua fiducia incondizionata a una persona tanto immeritevole. Per lo meno, se quella faccenda si fosse dimostrata vera.
E che dire del nuovo amico che le camminava di fianco? In poco tempo si era molto legata a lui. Averlo vicino era confortante. E se anche lui fosse stato un abbaglio?
Non era quello il momento per pensare. Le riflessioni le avrebbe fatte in seguito. Ora doveva scoprire cosa significava il ritornello che aveva piantato in testa.
Quando arrivarono nei pressi del locale intuirono subito che qualcosa non andava. La loro ricerca subì una improvvisa battuta d’arresto.
La porta era aperta, l’allarme disattivato, nel silenzio innaturale di quella notte.
Si scambiarono un’occhiata perplessa. Entrarono furtivi, timorosi di ciò che potevano trovare. Nessuno dei due aprì bocca, la tensione era palpabile.
Nel negozio nulla si muoveva, così accesero la luce e si diressero dietro al bancone.
Lì videro i corpi riversi di due persone in un bagno di sangue.
Lei cacciò un urlo di terrore e nascose la faccia nel petto del suo amico, che la strinse più forte che poté.
27 dicembre ed era sopravvissuta. Natale era passato, era ormai dietro le spalle, se ne sarebbe riparlato non prima di un anno. Anna si rigirò nel letto, si coprì la testa col piumone e rimase a crogiolarsi ancora un po’ felice di doversi alzare, di doversi mettere in piedi e di tornare alla normalità. Indugiò solo per un attimo, il tempo di uscire da un torpore tutto sommato lieto e gradevole. Poi buttò giù le gambe, infilò le pantofole di pelo e mise a scaldare una brocca di caffè caldo, in stile americano. Aveva iniziato a bere quella brodaglia molti anni prima, perché piaceva a Francesco che all’epoca aveva studiato un anno a Boston. Dopo aveva continuato, forse per abitudine, forse per trattenere qualcosa di suo marito con sé, per immaginare che lui non se ne fosse mai andato, per sognare che lui fosse ancora lì tra quelle stanze, che potesse sbucare in pigiama dalla camera da letto, darle un bacio e bere un sorso di caffè pure lui. Anna sapeva che ciò non sarebbe potuto accadere eppure non avrebbe rinunciato a quel caffè perché se l’avesse fatto anche le ultime tracce di Francesco sarebbero svanite. Invece voleva illudersi ancora, credere che bastasse ripetere all’infinito i gesti compiuti insieme per impedire a Francesco di sparire dalle quattro mura in cui avevano abitato e dalla sua memoria. Voleva che tutto restasse impregnato di lui, dei segni che lui aveva lasciato, delle vibrazioni con cui aveva accarezzato tutti i loro spazi. Anna aveva persino evitato di far riparare il tavolo della cucina in legno di pino che lui aveva inavvertitamente graffiato con un coltello affettando il pane. In quei piccoli solchi tra le venature c’era Francesco, c’era il suo movimento, c’era la sua sbadataggine, c’era la sua vita.
Comunque, era il 27 dicembre e lei era ancora viva.
Le feste comandate, manna del commercio e del consumismo più bieco, avevano un effetto elettrizzante sulle famiglie con bambini e sulle coppie felici, ma erano uno dei momenti più duri per chi, come lei, si trovava a essere solo.
Eppure non sarebbe dovuta andare così. Nei piani c’era tutt’altro, c’era una felicità condivisa, c’era l’idea di una famiglia, di un paio di pargoli. C’erano amici con figli piccoli da frequentare, c’erano serate trascorse a guardare film tutti insieme. Insomma, il progetto era ben diverso, non prevedeva alcuna forma di solitudine. Invece le cose erano andate a modo loro e la colpa era solo del destino. E adesso Anna si trovava dall’altra parte, nel mucchio di quelli che non appartengono a nessuno. Così, , da due anni a quella parte aveva iniziato a temere il Natale, festa che un tempo le piaceva persino. Quanti Natali avevano trascorso insieme lei e Francesco? Non se lo ricordava nemmeno. A pranzo a casa della suocera, dove contribuivano portando una pietanza e poi, per la maggior parte del tempo, se ne stavano seduti a fare gli sposini, rimpinzandosi il giusto. Oppure a casa della zia Rita, la sua seconda madre, a giocare a tombola. Tante volte Anna si era annoiata a Natale, prima. La tombola non la divertiva per niente e nemmeno la pinnacola. Aveva sempre pensato che il Natale fosse una festa deludente, che mille film alla televisione contribuissero a renderlo un evento sopravvalutato e che l’enorme aspettativa di cui era caricato fosse assurda. Alla fine, se tutto andava bene, era un giorno come un altro. Al limite, un momento di quiete in cui ci si concedeva di mangiare un po’ di più.
Invece il Natale aveva anche un risvolto crudele, amplificava oltremisura la solitudine di chi, come lei, non aveva più una famiglia. Chi non aveva degli affetti doveva inventarsi qualcos’altro, cosa assai difficile dato che persino i centri commerciali erano tutti chiusi. E nemmeno andare al cinema o a un museo da soli era una prospettiva allettante.
In realtà Paoletta, la sua amica più cara, l’aveva pure invitata a pranzo a casa sua, ma lei aveva declinato l’offerta. Paoletta era stata tanto carina, come sempre, ma lei non ce la faceva proprio a vedere scorrazzare per tutto il giorno la sua meravigliosa bimba di due anni, bionda e bella come un angioletto. Una bambina perfetta, la gioia di mamma e papà, che però lei mal tollerava perché incarnava tutti i suoi sogni infranti. Il piano originale era quello: un bambino con Francesco. Invece Anna aveva trentaquattro anni e non era genitore di nessuno.
Tecnicamente sarebbe stata più che in tempo per rimediare. Però pensava che i figli dovevano farsi in due. Non avrebbe voluto essere una madre single, una madre per forza, ma non c’era un uomo nel suo orizzonte con cui sarebbe voluta stare. Dunque, niente marito, niente sogno di maternità. Il pacchetto della rinuncia forzosa era all inclusive.
Dunque era il 27 dicembre e Anna era sopravvissuta. Si era svegliata la mattina di Natale col rimpianto di non essere un medico o una cameriera o comunque un operatore costretto a lavorare nel giorno di festa: sarebbe stato tutto più semplice. Apparteneva alla categoria dei commercianti, anche se il suo commercio nell’ultimo anno era stato davvero minimo. Rimpiangeva che la zia Rita l’avesse coinvolta in quell’affare, la gestione di una libreria che vendeva anche tomi antichi e volumi di un certo pregio. Un negozio per clientela scelta che avrebbe dovuto consentire a estimatori e ricercatori di trovare l’introvabile e, al contempo, di trascorrere pomeriggi ameni all’insegna dello studio nella quiete più totale, sui tavoli che il locale metteva a disposizione per i fruitori.
“Parole antiche” era il nome originario dell’attività della zia Rita che in anni precedenti era stata persino redditizia e proficua.
Quel posto, in via San Massimo, era stato frequentato a lungo da universitari e collezionisti. Ma poi un po’ per la crisi che aveva scoraggiato la gente dall’investire nel superfluo, un po’ per l’avvento di internet che aveva facilitato la vita agli studiosi, l’afflusso di clienti era calato in modo drastico. A quel punto la zia Rita aveva deciso di attrarre nuovi frequentatori aprendo, (previ noiosi corsi di formazione, autorizzazione dei vigili del fuoco, HACCP e iscrizione al REC), un angolo caffetteria all’interno dello stesso locale. Gli avventori avrebbero potuto dedicarsi alla lettura e scegliere il libro da acquistare sorseggiando caffè, tè o tisane. L’idea grandiosa della zia era di trasformare il suo locale in un caffè letterario, un raffinato punto di aggregazione, un ritrovo di eccellenza culturale nella Torino storica. Solo a investimento compiuto aveva compreso di aver trasformato quel posto in una specie di biblioteca, dove qualche studente trascorreva il pomeriggio a studiare in cambio di un misero caffè. Per cui, migliaia di euro investiti tra autorizzazioni e lavori di ristrutturazione e nonostante ciò gli acquirenti di libri antichi non erano aumentati. Peggio, erano diminuiti. Quello che era mancato alla zia era stato il tempo per organizzare delle iniziative: incontri, presentazioni, eventi. Inoltre, sebbene la posizione fosse giusta, vicino all’università, il locale non era ampio a sufficienza per ospitare chissà quante persone. A quel punto, però, la zia era morta all’improvviso. Tutto, adesso, era sulle spalle di Anna che, fino a quel momento, non era stata nello spirito di rinnovare nemmeno la sua vita, figuriamoci il locale.
Da quella notte la sua vita era cambiata. Più tardi si sarebbe fatta delle domande, per capire come aveva potuto concedere la sua fiducia incondizionata a una persona tanto immeritevole. Per lo meno, se quella faccenda si fosse dimostrata vera.
E che dire del nuovo amico che le camminava di fianco? In poco tempo si era molto legata a lui. Averlo vicino era confortante. E se anche lui fosse stato un abbaglio?
Non era quello il momento per pensare. Le riflessioni le avrebbe fatte in seguito. Ora doveva scoprire cosa significava il ritornello che aveva piantato in testa.
Quando arrivarono nei pressi del locale intuirono subito che qualcosa non andava. La loro ricerca subì una improvvisa battuta d’arresto.
La porta era aperta, l’allarme disattivato, nel silenzio innaturale di quella notte.
Si scambiarono un’occhiata perplessa. Entrarono furtivi, timorosi di ciò che potevano trovare. Nessuno dei due aprì bocca, la tensione era palpabile.
Nel negozio nulla si muoveva, così accesero la luce e si diressero dietro al bancone.
Lì videro i corpi riversi di due persone in un bagno di sangue.
Lei cacciò un urlo di terrore e nascose la faccia nel petto del suo amico, che la strinse più forte che poté.
27 dicembre ed era sopravvissuta. Natale era passato, era ormai dietro le spalle, se ne sarebbe riparlato non prima di un anno. Anna si rigirò nel letto, si coprì la testa col piumone e rimase a crogiolarsi ancora un po’ felice di doversi alzare, di doversi mettere in piedi e di tornare alla normalità. Indugiò solo per un attimo, il tempo di uscire da un torpore tutto sommato lieto e gradevole. Poi buttò giù le gambe, infilò le pantofole di pelo e mise a scaldare una brocca di caffè caldo, in stile americano. Aveva iniziato a bere quella brodaglia molti anni prima, perché piaceva a Francesco che all’epoca aveva studiato un anno a Boston. Dopo aveva continuato, forse per abitudine, forse per trattenere qualcosa di suo marito con sé, per immaginare che lui non se ne fosse mai andato, per sognare che lui fosse ancora lì tra quelle stanze, che potesse sbucare in pigiama dalla camera da letto, darle un bacio e bere un sorso di caffè pure lui. Anna sapeva che ciò non sarebbe potuto accadere eppure non avrebbe rinunciato a quel caffè perché se l’avesse fatto anche le ultime tracce di Francesco sarebbero svanite. Invece voleva illudersi ancora, credere che bastasse ripetere all’infinito i gesti compiuti insieme per impedire a Francesco di sparire dalle quattro mura in cui avevano abitato e dalla sua memoria. Voleva che tutto restasse impregnato di lui, dei segni che lui aveva lasciato, delle vibrazioni con cui aveva accarezzato tutti i loro spazi. Anna aveva persino evitato di far riparare il tavolo della cucina in legno di pino che lui aveva inavvertitamente graffiato con un coltello affettando il pane. In quei piccoli solchi tra le venature c’era Francesco, c’era il suo movimento, c’era la sua sbadataggine, c’era la sua vita.
Comunque, era il 27 dicembre e lei era ancora viva.
Eppure non sarebbe dovuta andare così. Nei piani c’era tutt’altro, c’era una felicità condivisa, c’era l’idea di una famiglia, di un paio di pargoli. C’erano amici con figli piccoli da frequentare, c’erano serate trascorse a guardare film tutti insieme. Insomma, il progetto era ben diverso, non prevedeva alcuna forma di solitudine. Invece le cose erano andate a modo loro e la colpa era solo del destino. E adesso Anna si trovava dall’altra parte, nel mucchio di quelli che non appartengono a nessuno. Così, , da due anni a quella parte aveva iniziato a temere il Natale, festa che un tempo le piaceva persino. Quanti Natali avevano trascorso insieme lei e Francesco? Non se lo ricordava nemmeno. A pranzo a casa della suocera, dove contribuivano portando una pietanza e poi, per la maggior parte del tempo, se ne stavano seduti a fare gli sposini, rimpinzandosi il giusto. Oppure a casa della zia Rita, la sua seconda madre, a giocare a tombola. Tante volte Anna si era annoiata a Natale, prima. La tombola non la divertiva per niente e nemmeno la pinnacola. Aveva sempre pensato che il Natale fosse una festa deludente, che mille film alla televisione contribuissero a renderlo un evento sopravvalutato e che l’enorme aspettativa di cui era caricato fosse assurda. Alla fine, se tutto andava bene, era un giorno come un altro. Al limite, un momento di quiete in cui ci si concedeva di mangiare un po’ di più.
Invece il Natale aveva anche un risvolto crudele, amplificava oltremisura la solitudine di chi, come lei, non aveva più una famiglia. Chi non aveva degli affetti doveva inventarsi qualcos’altro, cosa assai difficile dato che persino i centri commerciali erano tutti chiusi. E nemmeno andare al cinema o a un museo da soli era una prospettiva allettante.
In realtà Paoletta, la sua amica più cara, l’aveva pure invitata a pranzo a casa sua, ma lei aveva declinato l’offerta. Paoletta era stata tanto carina, come sempre, ma lei non ce la faceva proprio a vedere scorrazzare per tutto il giorno la sua meravigliosa bimba di due anni, bionda e bella come un angioletto. Una bambina perfetta, la gioia di mamma e papà, che però lei mal tollerava perché incarnava tutti i suoi sogni infranti. Il piano originale era quello: un bambino con Francesco. Invece Anna aveva trentaquattro anni e non era genitore di nessuno.
Tecnicamente sarebbe stata più che in tempo per rimediare. Però pensava che i figli dovevano farsi in due. Non avrebbe voluto essere una madre single, una madre per forza, ma non c’era un uomo nel suo orizzonte con cui sarebbe voluta stare. Dunque, niente marito, niente sogno di maternità. Il pacchetto della rinuncia forzosa era all inclusive.
Dunque era il 27 dicembre e Anna era sopravvissuta. Si era svegliata la mattina di Natale col rimpianto di non essere un medico o una cameriera o comunque un operatore costretto a lavorare nel giorno di festa: sarebbe stato tutto più semplice. Apparteneva alla categoria dei commercianti, anche se il suo commercio nell’ultimo anno era stato davvero minimo. Rimpiangeva che la zia Rita l’avesse coinvolta in quell’affare, la gestione di una libreria che vendeva anche tomi antichi e volumi di un certo pregio. Un negozio per clientela scelta che avrebbe dovuto consentire a estimatori e ricercatori di trovare l’introvabile e, al contempo, di trascorrere pomeriggi ameni all’insegna dello studio nella quiete più totale, sui tavoli che il locale metteva a disposizione per i fruitori.
“Parole antiche” era il nome originario dell’attività della zia Rita che in anni precedenti era stata persino redditizia e proficua.
Quarta di copertina
"Il tesoro dentro" di Elena Genero Santoro, Gli Scrittori della Porta Accanto, 2018.
Anna è una bella donna che ha perso il marito da due anni ed è ancora depressa. Ha ereditato una libreria antiquaria sull’orlo del fallimento e mal sopporta il caratteraccio di Amanda, la sua contabile. Due uomini la corteggiano da qualche tempo: Emil, uno scrittore danese che fugge da se stesso, e Alberto, un entusiasta imprenditore che si offre di aiutarla con la sua libreria in crisi.
Inizialmente Anna pare destinata a destreggiarsi tra entrambi gli uomini, in attesa di capire di chi innamorarsi e di tornare alla vita. In realtà per uno dei due il cuore di Anna non è il vero obiettivo.
Ci sono ben altri interessi in gioco. Così, mentre il passato bussa alla porta di Emil, due persone si faranno davvero male. Ma chissà che nei vaneggiamenti della stramba Amanda non si nasconda qualche indizio e la chiave per arrivare alla fine di una singolare caccia al tesoro. Un romanzo a tinte gialle e rosa, che affronta anche il tema della malattia mentale.
★★★★★
Il buon giorno si vede dal mattino, dicono, e un buon incipit e una copertina accattivante possono essere il perfetto bigliettino da visita di un libro.
Secondo voi, quante stelline si merita il biglietto da visita di questo libro?
Tutti i nostri incipit:
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