Ancora sbarre alle finestre: linee orizzontali e verticali che si incrociano a formare una fila di rettangoli ed una di quadrati..
10 anni di sbarre…
Pareti grigie con un’improvvisa striscia di azzurro sotto i piedi (come se il mondo fosse capovolto, ed il cielo potesse essere calpestato), poi la sorpresa di una ‘vera’ classe con banchi e lavagna, ma ancora con sbarre alle finestre…
Sbarre, che dall’inizio mi hanno fatto venire in mente le calze a rete, seducenti ed inquietanti; seducenti nella vita ‘fuori’, la vita dove il tempo scorre mentre si ama, si ride e si piange, si va a fare la spesa e si accompagnano le bimbe a scuola, ed inquietanti in questa sospensione di vita ‘dentro’ dove si ama, e si ride e si piange, ma dove è la spesa che viene da te e sei tu a venire accompagnata ovunque.
Seducenti, come quell’uomo che ti ha promesso amore eterno, ma di eterno ti è rimasto il ricordo delle botte, delle notti sulla strada, o la fatica di mantenere quei gioielli dei tuoi figli, come il miraggio della bella vita, poco lavoro (?) e molto denaro, e belle macchine e gioielli; già, calze a rete, seducenti ed inquietanti; inquietanti nel ricordare le sbarre alle finestre che bloccano lo sguardo ‘a un palmo di naso’, che se sei fortunata e cerchi il mondo com’è devi avvicinarti ad un riquadro e guardarci attraverso, altrimenti non c’è scampo e se hanno fissato la griglia alla finestra il mondo lo vedi a pallini, o meglio vedi tanti pallini e ti chiedi come sarà il mondo al di là ed arrivi a conoscere meglio il mondo lontano, che ti raggiunge attraverso la tv, del blocco che hai di fronte alla cella.
Il blocco, nuovo indirizzo dei tanti e delle tante che la giustizia degli uomini e delle donne ti assegna per più o meno tempo; via Roma 15, Torino Italia, diventa blocco F sezione 4 cella 25 C.C. (Casa Circondariale) o CR (Casa di Reclusione). Mondo a parte, perché, come recita un famoso adagio ‘di galera ‘chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori’.
Ma poi c’è chi è ‘dentro’ e ‘fuori’, perché dorme dentro, ma lavora fuori, e chi, come me, è ‘fuori’ e ‘dentro’, dorme fuori, ma lavora dentro… già, la mia è una semilibertà al contrario… . E come in un giro di danza, ogni giorno vengo catapultata in questa doppia dimensione ‘dentro/fuori’, ‘sopra/sotto’, dove quel pizzico di follia che mi contraddistingue, come una piattaforma che muove continuamente su se stessa, mi porta qui e là, su e giù, senza mai farmi perdere l’equilibrio, dentro questo ‘Mondo a parte’, coi suoi tempi, i suoi ritmi, le convenzioni e perfino una sua lingua che ormai un po’ mi appartengono.
Quest’alveare di cellette e corpi, che mischia uomini e donne provenienti dalla Comunità europea e da altre Comunità ‘extra’ europee, alveare troppo spesso improduttivo, di tanto in tanto, o piuttosto ‘di sovente in sovente ’, riesce a farmi vivere dei momenti di intensa ed inattesa emozione all’interno di questa ‘città dentro la città’. di questo mondo nel mondo, per il quale posseggo il passaporto da qualche anno ormai.
10 anni di sbarre da quella ‘benedetta’ domenica in cui jeans, camicetta bianca e gilet, eccoci pronte e pronti per l’ennesimo concerto. E chi poteva immaginare che proprio quella piccola porzione di tempo, qualche manciata di note una domenica mattina mi avrebbe cambiato la vita, regalandomi un lavoro certo, ma soprattutto un lavoro che amo, che per una provvidenziale combinazione racchiude le aspirazioni del cuore ed un sano compenso monetario.
Il portone si apre e si chiude alle nostre spalle, ma non abbiamo manette ai polsi e sbagli ed affetti e spesso una ricchezza effimera dietro alle spalle, e soprattutto siamo certe e certi che lo stesso portone si riaprirà riportandoci un po’ più ricchi della ricchezza che non si accumula nei granai, ai nostri affetti ed anche ai nostri piccoli sbagli. ‘Dentro’ ci porta l’amore per il canto ed il desiderio di condividerlo con altri (qui il maschile è quasi d’obbligo, perché netta è la divisione uomini/donne in questo mondo a parte, come in un piccolo mondo antico, e quella domenica il nostro era un pubblico prevalentemente maschile).
Le solite formalità: lasciare i documenti - ritirare il pass - posare il cellulare - prendere la chiavetta – far controllare le borse (è estate, quindi non c’è l’ombrello da lasciare all’ingresso “non conviene usare un ombrello bello, a me ne sono già spariti tre!”- mi disse una collega).
Già, proprio proponendomi per dare un aiuto per favorire il recupero di una materia scolastica avevo avuto quella che si dice un’idea luminosa: e se mi fossi messa ad insegnare proprio in carcere? Tra il dire ed il fare c’è molto spesso il mare, ma se il nostro ‘dire’ si inserisce in quel Pensiero che può migliorare la nostra vita se solo glielo permettiamo, allora perfino il mare del proverbio si apre, come ha fatto un tempo il Mar Rosso, ed è possibile passare da una riva all’altra all’asciutto (anche se tutte le gocce vengono comunque conservate per i pianti a venire...).
Ma l’ingresso varcato dal coro non è quello che mi avrebbe catapultata in questo mondo ‘altro’ negli anni a seguire, e la palazzina che ci stava per ospitare, nella quale oltre il corridoio col bel murale colorato si apre il corridoio che porta alla struttura pentagonale dove altri corridoi e stanze luminosi con le sbarre dipinte di verde, sarebbe stata solo una porzione dell’alveare, la più curata, spesso improduttivo dove quasi ogni giorno lascio un po’ della mia cera…
Molte sono le variabili che fanno parte delle regole del gioco, gioco che spesso ‘si è fatto duro’ ed é stato proprio in quei momenti che ho scoperto di essere disposta a ‘giocare’, accettando strette di mano e fiori, caramelle e dolcetti, ma anche lacrime e fatica, tanta fatica, nella speranza (che grazie alle loro parole si fa spesso certezza) che la mia presenza abbia un significato non solo nel presente o nell’immediato futuro delle mie allieve e dei miei allievi, ma anche in quel domani che in fondo è il fine ultimo del mio, del nostro, lavoro: fornire alcuni strumenti che permettano di reinserirsi in modo responsabile in un mondo fatto anche da persone oneste e leali, che in quanto tali meritano tutta l’onestà e la lealtà possibili.
Questo mio alveare dove finora ho sempre trovato il motivo per e il modo di dare il senso ad ogni giornata di lavoro, e probabilmente ne troverò fino a quando ci saranno una donna (o un uomo) che come Nkpoia può dire:
Il carcere mi ha insegnato molto.
Prima consideravo male chi c’era stato, mentre è una cosa che può succedere a tutti.
Qui ho imparato l’italiano e l’informatica che non avrei mai studiato.
E anche il cucito prima non sapevo nemmeno sistemare il filo sulla macchina.
I laboratori mi hanno insegnato cose buone.
Qui sono in contatto con altre persone.
Il carcere è una lezione molto buona per me.
Elisabetta e Roberto Presidente e vicepresidente del Comitato Mahmud, ente no profit di Torino; deve il suo nome al piccolo profugo siriano di cui per primo si occupa, tutelandone la salute. Si pone come obiettivo la realizzazione di progetti volti a restituire ai bambini ed alle bambine che versino in gravi condizioni sanitarie e/o ambientali il futuro a cui hanno diritto, in qualunque parte del mondo essi si trovino. |
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