Gli scrittori della porta accanto

Intervista ad Antonia Ferrari, presidentessa di Un ospedale per Tharaka

Intervista ad Antonia Ferrari, presidentessa di Un ospedale per Tharaka

People A cura di Stefania Bergo. Intervista ad Antonia Ferrari, presidentessa dell’Associazione Un ospedale per Tharaka. Infermiera di sala operatoria ormai in pensione, ha viaggiato e messo al servizio la sua professionalità in vari paesi dell’Africa, dall’Eritrea al Kenya, Sudan e Somalia.

Il primo contatto che ho avuto con lei è stato telefonico e mi ha subito travolto con il sole del suo entusiasmo. La sua vita avventurosa mi ha sempre affascinato. Lasciate che ve la racconti lei stessa…

Diamo il benvenuto ad Antonia Ferrari. Ormi ti conosco da tredici anni e il tuo entusiasmo è sempre lo stesso, malgrado tu abbia attraversato anche momenti difficili. Qual è il modo giusto di approcciare la vita, secondo te? 

Ciao Stefania, è un piacere chiacchierare un po' con te e con i lettori del vostro web magazine.
Ho guardato sempre agli altri, anche nella scelta della professione. Il volontariato è un elemento della mia vita che si è concretizzato in Italia, con al partecipazione alle operazioni di soccorso nelle zone terremotate. Ma soprattutto in Africa, straordinario paese in cui ho trovato la mia strada. Sono ormai quarant'anni che giro per l'Africa centrale, ma il Kenya è stato quello che ha preso il mio cuore.


La cosa che mi ha sempre affascinato di te è il sentirti raccontare le tue avventure in Africa, fin da giovanissima. E il mio augurio è quello di essere un giorno come te, avere così tanto da raccontare da potermi ritenere davvero ricca. Ti va di raccontare anche ai nostri lettori la tua prima esperienza, un’avventura che pare uscita da un romanzo?

Nel 1978 lavoravo come infermiera di sala operatoria. Era il periodo in cui dominava la Guerra fredda e anche l’Africa subiva l’influenza dello scontro tra Unione Sovietica e Stati Uniti. Gli Eritrei combattevano l’esercito etiope, con pochi risultati ma tanti morti e feriti. All’ospedale mi imbattevo spesso nei feriti Eritrei che venivano in Italia a farsi curare. Iniziai così a prendere confidenza con la loro storia e le loro vicende personali.
Nel settembre del 1979 partii per l’Eritrea con altri cinque medici. Con noi venne anche l’allora direttore generale della Regione, che aveva un ruolo puramente diplomatico nella spedizione.
Tutte le volte il viaggio doveva passare da Khartoum. Poi si volava con un aereo di bandiera sudanese fino a Kassala, l’ultima città prima di arrivare al confine con l’Eritrea. Era il porto d’ingresso per quella nazione in guerra, una della zone calde del pianeta. Lì era schierato tutto lo spionaggio internazionale. Il nostro ingresso in Eritrea era clandestino, lasciavamo infatti i passaporti alle autorità sudanesi e per passare la frontiera viaggiavamo in macchina di notte. Non c’erano strade e il rischio di imbattersi nelle truppe etiopi di Mengistu era grande. E in quel caso sarebbe finito tutto: ci avrebbero sparato. E infatti, così avvenne la mia prima volta, ma per fortuna riuscimmo a scappare.

Non male come inizio! Dov'eravante diretti?

La nostra destinazione era un ospedale militare nella foresta. La prima notte ci sistemarono in una tenda in cui i materassi erano stati adagiati su delle casse con su scritto “dinamite”!
Il giorno dopo, ci trasferirono in una capanna di frasche, con i letti di vimini intrecciati. Ogni mattina, alle nove, arrivavano gli aerei etiopi, decollati da Asmara, a bombardarci. Bombardavano anche il nostro ospedale fatto di pali di legno. In quei momenti, tutti i pazienti venivano trasferiti in una sorta di bunker. La prima mattina fummo colti di sorpresa nel sonno. Cominciai a sentir cadere le bombe e non potevamo muoverci. Venti minuti sotto gli ordigni non finiscono più. In quei momenti mi sentii fragile come una foglia e capii cosa significasse aver paura.

Antonia Ferrari in Eritrea, nell'ospedale da campo donato dalla Croce Rossa

Posso solo imamginare cosa significhi. Di momenti difficili in Africa ne ho vissuti anche io, ma nulla di paragonabile a una guerra sopra le proprie teste. Come facevate a lavorare in quelle condizioni?

Noi potevamo fare le operazioni solo di pomeriggio. Oltre agli aerei sulle nostre teste, l’altro problema logistico da affrontare era la sterilizzazione dei ferri. Usavamo come sterilizzatore un residuato inglese della Seconda guerra Mondiale, una specie di siluro sotto cui accendevamo il fuoco. In Africa è così, o trovi una soluzione con quello che hai a disposizione o non fai nulla. La Croce Rossa ci aveva donato una tenda sotto cui avevamo allestito la sala operatoria, i ferri erano gli avanzi dei nostri ospedali.
È stata un’avventura straordinaria riuscire ad operare in territorio di guerra. Dopo la seconda Guerra Mondiale eravamo la prima equipe italiana a portare soccorso medico chirurgico in una zona bellica. Un lavoro di squadra intenso, che ci impegnò per un mese.

Straordinario davvero! È un aggettivo che usi spesso, e posso capire perché. Dopo di allora hai continuato regolarmente ad andare in Eritrea con gruppi più o meno numerosi di altri volontari. In una di queste spedizioni hai conosciuto Adian, una ragazzina di sedici anni…

Sì, Adian, come tante, era fuggita di casa per combattere e di professione faceva la “bombarola”, cioè preparava gli ordigni per i guerriglieri. Un anno dopo il nostro incontro, quando il fronte di Liberazione eritreo venne definitivamente cacciato, lei finì in un campo di concentramento in Sudan. Parlava perfettamente italiano e ci scrisse di essere in condizioni disperate. Grazie all’amicizia dell’ambasciatore e all’aiuto dei padri comboniani, riuscimmo a portarla in Italia.
Restò in casa con me per quasi tre anni, la iscrissi anche in una scuola alberghiera di Venezia.
Un bel giorno mi disse: «Io vado via perché voglio andare a fare la cameriera in un camping». Ci rimasi molto male, per me era come una figlia, credevo di potere dare un’istruzione, un futuro migliore. Ma come una gazzella nella savana, Adian scelse la libertà e se ne andò in qualche parte del mondo. Da allora, non ne ho più saputo nulla…

Il tuo impegno ti ha portato anche a conoscere personaggi illustri del panorama mondiale, da Bernard Kouchner, fondatore di Medici Senza Frontiere, ad Arafat. In che frangente sono avvenuti questi incontri?

Nel 1981, quando il nostro intervento di soccorso in Eritrea era terminato, si tenne a Tunusi un forum cui parteciparono tutti i paesi arabi. Noi partecipammo con Bernard Kouchner, con cui stilammo un documento comune, che prese la parola per il gruppo e attaccò i paesi arabi. Il secondo giorno del forum arrivarono delle macchine con i palestinesi e ci invitarono a salutare Arafat. Uscito da Beirut con l’onore delle armi, approfittando di una conferenza stampa e quindi sulla presenza dei giornalisti e delle tv del mondo, prese la parola dicendo: «Duemila anni fa donammo al mondo un uomo della Palestina». Ettore Mo, giornalista de Corriere della Sera, con noi ospite nel castello di Arafat, gli fece allora notare: «Guardi che Gesù disse anche di porgere l’altra guancia». E lui rispose: «È vero, ma nelle Scritture si dice anche occhio per occhio, dente per dente».
Fu comunque una notte straordinaria e mai ci sentimmo così al sicuro come nel castello di Arafat!

Antonia Ferrari con Arafat, Ettore Mo e Giiorgio Giaccaglia

Straordinario, un aggettivo che ritorna… Ad un certo punto, hai dato vita, insieme a molti altri volontari, ad un sogno: un ospedale nel mezzo del nulla, in una terra arida e polverosa, nel villaggio di Matiri, in Kenya. Io ti ho conosciuto lì, all’ospedale St. Orsola, affacciato su un’incredibile vallata. Perché Matiri? A chi è venuto in mente di costruire un ospedale proprio lì?

Nel 1999 Padre Livio Tessari, responsabile degli ospedali missionari dei Padri della Consolata, ci chiese di costruire un ospedale in quella zona, il Tharaka, per dare alle mamme un posto per un parto sicuro. Matiri, infatti, sorge in una regione che è tutt’ora molto povera, con due grandi fiumi ma arida e ingrata. La popolazione vive di agricoltura, ma la scarsità delle piogge porta spesso periodi di fame. A quel tempo, presso la missione, sorgeva solo una piccola maternità, un dispensario con quindici posti letto, senza però possibilità di interventi chirurgici (di cesarei, quindi).
E così, quindici anni fa, insieme a tanti altri amici, è nata l'esperienza più importante del mio volontariato in Africa. Abbiamo fondato un'associazione, Un ospedale per Tharaka - Kenya, con il sogno, poi divenuto realtà, di costruire un ospedale che rispondesse alle esigenze di assistenza della popolazione di tutta la regione (110.000 abitanti).

Costruire un ospedale in Africa significa garantirne anche la gestione per almeno tre anni, quindi un impegno davvero gravoso. Ma grazie all’aiuto di molte associazioni, enti regionali e governativi, e singoli donatori, siete riusciti a dotare la regione del Tharaka di un servizio sanitario funzionale e completo. Come vi siete sentiti, pionieri di un sogno, a realizzare una simile impresa? Quanto è durata la costruzione?

Giorgio Giaccaglia diceva sempre che avrebbe voluto globalizzare la solidarietà umana e che «la vera rivoluzione è costruire». Ed è vero. Grazie all’aiuto di tantissimi amici, il 9 luglio del 2001 è stata posata la prima pietra del St. Orsola e nell’ottobre del 2003 è stato aperto al pubblico, ricoverando la prima paziente: una mamma che doveva partorire.
Quando fai parte di una simile impresa, sei colto da un misto di impotenza ed esaltazione, per la realtà che tocchi con mano ogni giorno. Vedere bambini di tre anni consumarsi a causa dell’aids, o nemmeno venire a mondo solo perché non c’è un posto sicuro per gestire le emergenze, devasta e accende nel profondo una forza che nemmeno credevi di avere. È così che siamo andati fino in fondo, con la determinazione. È vero: rivoluzione è costruire. Costruire un domani migliore.


So bene di cosa parli, cara Antonia. Da allora, sei legata a filo doppio a Matiri e ci vai regolarmente almeno due, tre volte l’anno. Non ti chiedo cosa ti spinga a tornare perché lo so benissimo. Ti chiedo invece: per vivere una vita così, come la tua, serve più coraggio o incoscienza?

Forse un misto di tutti e due. Non lo so, non me lo sono mai chiesta. Forse la prima volta sono stata più incosciente che coraggiosa, ero così giovane! Poi, è stata la determinazione, l'amore per l'Africa, a farmi tornare.

Non finirei mai di sentirti raccontare, ma devo salutarti e chiudere questa piacevole e preziosa intervista. Ti chiedo, per favore, di lasciare ai nostri lettori un messaggio, di contagiarli col tuo entusiasmo, come è successo a me, magari per convincerli ad aiutarci per continuare a sostenere l’ospedale di Matiri o per incoraggiarli a realizzare i propri sogni, anche quando li portano lontano da casa…

Sappiamo che non possiamo salvare l'Africa, ma solo aiutarla a camminare con le proprie gambe. E infatti dopo qualche anno di gestione italiana abbiamo consegnato l'ospedale St. Orsola alla Diocesi di Meru, che ora lo amministra come parte integrante del sistema sanitario missionario della regione. Pur non avendone più la gestione, è però pur sempre il nostro ospedale, per cui, almeno due, tre volte l'anno, andiamo a Matiri a prestare la nostra opera, fermandoci a volte anche a lungo.
Ferrara, Montebelluna, Bologna, Adria, Padova, Treviso, Torino, abbiamo allargato la nostra associazione a quello che oggi possiamo chiamare Gli amici di Matiri. È solo grazie all'aiuto di tutti che siamo riusciti a costruire un ospedale e mantenerlo tutto questo tempo. E abbiamo ancora bisogno di quell'aiuto per non perdere quanto fatto finora. C'è chi ci aiuta con un supporto economico, chi dona il proprio tempo in Italia e in Kenya. E forse questa è la parte più affascinante.
Un'esperienza di questo tipo, in Africa, resterà indelebile, arricchirà non solo chi riceve ma anche, e forse soprattutto, chi dà.


Stefania Bergo


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