Cinema Recensione di Stefania Bergo.
È un film magico. Come lo è la nascita, del resto. Un miracolo.Ho visto questo film quando Emma era ancora nel pancione, dono prezioso delle mie amiche ostetriche, Marianna e Oriella. E ho sognato di farla venire al mondo tra i delfini, nel caldo oceano tropicale, e di tenerla subito con me. Io e lei da sole, per imparare subito a conoscerci e non interrompere la simbiosi dei nove mesi precedenti. Ma, ahimè, i mesi nel mio caso furono solo sette ed Emma venne al mondo in modo tutt'altro che naturale. E soprattutto, mi è stata portata via e condotta in un ospedale lontano, per salvarle la vita. Lontano da me, da quel momento che avrei voluto solo nostro. E l'ho potuta vedere solo dopo tre giorni, abbracciare dopo dieci.
Il primo respiro (titolo originale Le premier cri) è un docufilm francese sulla nascita in vari angoli del mondo.
Un evento vissuto in modo più o meno naturale, per scelta o per necessità. E alla magia della vita che si rinnova prepotentemente attraverso il primo, prezioso vagito, si aggiunge quella della natura, che poi sono la stessa cosa: il 29 marzo 2006 si verifica un'eclissi di sole visibile dal nostro pianeta e mentre la nostra stella lentamente si oscura, le donne protagoniste del film danno la vita ai loro bambini.La sceneggiatura, di Marie-Claire Javoy, è stata scritta partendo da un'inchiesta giornalistica che costituisce la base del film e che racconta la storia del primo respiro vitale, focalizzandosi sul parto. Come vivono quel momento le donne? Alcune hanno la possibilità di scegliere, altre subiscono passivamente le tradizioni popolari antiche. Un film che è quindi un viaggio intorno al mondo, parto dopo parto.
La natura domina le ambientazioni, i personaggi sono reali e le situazioni estremamente dettagliate.
Non c'è alcuna artificialità, anzi, l'intento è quello di narrare storie di Madri, come se avessimo la fortuna di essere testimoni di un evento mistico, intimo, suggestivo quanto un'eclissi, potente come il significato della vita stessa.L’acqua, il deserto, il ghiaccio, la giungla. Dalle sabbie calde del deserto dei Tuareg alla tundra siberiana perennemente innevata; dalle terre selvagge dei Masai ai locali notturni di Parigi; dall’America alla foresta amazzonica; dalla bellezza sacra del Gange, al Giappone tradizionale; dai popolosi ospedali vietnamiti al pacifico delfinario messicano. La Terra, tutta, così come la vita, è protagonista.
Tre anni di lavoro, quindici mesi di riprese per dieci storie in dieci luoghi diversi: «Il più delle volte, soprattutto in luoghi molto disagiati come i deserti africani, sono andato soltanto con l'ingegnere del suono e con una giornalista, Marie-Claire Javoy. Il parto è un momento intimo. Volevo che fosse diverso da quelli, più o meno naturali, che tante volte avevo visto nell'ospedale parigino» racconta il regista Gilles de Maistre.
Il primo respiro, il miracolo della nascita nel docufilm di Gilles de Maistre: la recensione Il primo respiro
REGIA Gilles de Maistre |
Il primo respiro inizia sott'acqua, il brodo primordiale dell'oceano, con il parto tra i delfini di Pilar, una ragazza messicana.
Tra rituali e scelte forse giudicabili azzardate, il docufilm racconta di Majtonrè, indiana Kayap del Brasile, che partorisce in piedi nella foresta amazzonica; Manè, una tuareg del deserto di Kogo, che, nonostante il sacrificio di una animale offerto agli Dei da parte del marito, si ritrova a vivere un’esperienza traumatica; Vanessa, americana di 32 anni, che vive in una comune nel bosco e sceglie di partorire in acqua, lontana dagli ospedali, mentre intorno i suoi amici cantano accompagnati dalla chitarra e seguono le vocalizzazioni delle sue doglie; Kokoya, una Masai della Tanzania, che partorisce con le anziane del villaggio nella sua capanna; Yukiko, giapponese, che sceglie di partorire seguendo una preparazione tipica della tradizione antica; Sandy, ballerina di cabaret francese, che continua a ballare fino agli ultimi giorni di gravidanza; Elisabeth, 21 anni, che mette al mondo suo figlio in un caldo ospedale per poi portarlo a casa infagottato, nella glaciale Siberia, dove si vive a - 50° C; Gaby, messicana, che sceglie il parto tra i delfini ma qualcosa va storto e il bambino nasce su un letto; Sunita, indiana, che ci mostra la nascita nella povertà estrema; una mamma senza nome, una delle tante, un parto impersonale, meccanico, senza poesia (almeno per chi sta intorno) in un affollatissimo ospedale vietnamita.Un film dedicato a tutte le mamme, per ringraziarle del coraggio e della determinazione che dimostrano ogni giorno, sopportando i dolori lancinanti del parto e decidendo che ne valga comunque la pena.
Per quel contatto di pelle magico e antico, per quel prezioso vagito, grazie al quale tutta la specie sopravvive.Il tocco finale alla magia è la muscia di Armand Amar, in particolare la canzone di Sinéad O'Connor A New Born Child, un sussurro, un grido, un pianto intimo, un respiro in musica.
Just as two breaths become one breath,
As two whispers become a cry,
Miracle before us lies,
The glory of a new-born child.
These half-closed eyes already see,
Looking without looking within.
A testament of truth before, before our eyes.
The glory of a new-born child.
This place, where life's long path begins,
If they be princes, queens, or kings,
Laid helpless here at mother's side,
The glory of a new-born child.
Sinéad O’Connor, A New Born Child
Stefania Bergo |
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