Gli scrittori della porta accanto

Un venditore, racconto di Stefania Bergo



Inediti d'autore Racconto di Stefania Bergo. Un venditore, un fugace attimo di contatto tra due mondi solo apparentemente lontani.

Camminava lungo la battigia, bagnandosi appena il bordo della tunica, indossata sopra i pantaloni. Le statuine di legno che penzolavano dalla sua sacca logora, tintinnavano come ninnoli di un acchiappa sogni, di quelli che si appendono alla porta di casa per buon auspicio. Erano appena le sei, ma non aveva più voglia di andare tra gli ombrelloni a vendere le sue statuine di legno. Lo avvertiva oltre la pelle scura, quel senso di fastidio dei turisti distesi al sole, ogni volta che sfilava vicino ai lettini. Non diceva nulla, tanto sapeva che se qualcuno avesse voluto comprare lo avrebbe fermato, gli avrebbe chiesto. Non voleva disturbare con un "Vuoi?" che spesso non riceveva nemmeno una risposta educata in cambio. Erano passati i tempi in cui si illudeva di vendere tutto il suo bagaglio e contare a sera un bel gruzzoletto, la sua ansia, la sua insistenza perché gli sembrava impossibile che qualcuno potesse non apprezzare quegli oggetti di splendida fattura, eleganti e fieri come lo era lui. Come lo era stato, un tempo.
Sentì il peso della zavorra sulle spalle. Chissà se il legno può pesare così tanto. O forse sono gli anni a gravare?, si chiese. Kanake pensava molto, si faceva domande cui puntualmente non sapeva dare risposta. Ma sapeva fosse giusto porsele, sapeva che proprio la domanda, in certi casi, può avere un senso, indipendentemente dalla risposta. Cambiò idea in un guizzo, volle alleggerirsi e risalì verso le file di ombrelloni a spicchi verdi e bianchi. C'era ancora qualcuno a prendere l'ultimo sole, a godersi la spiaggia quando l'afa si acquieta lasciando spazio ad una deliziosa brezzolina. 
Un uomo sedeva sulla sabbia, tentando di completare un cruciverba zeppo di correzioni, coinvolgendo anche quella che doveva essere la moglie, intenta a scorrere lo schermo del suo iPhone. Pensò di richiamare la sua attenzione. Si rendeva conto che a volte tutto quello che si chiede ad una giornata di mare è un po' di meritato riposo dopo un anno di duro, incerto, lavoro. Sì, lo sapeva bene. Ma quell'uomo gli pareva buttato lì, a impegnare un barlume di mente in un'impresa per cui non aveva nemmeno reale interesse.
«Ciao! Vuoi qualcosa? Bella roba, pochi schei... », azzardò.
L'uomo sollevò appena gli occhi dal giornale e gli rivolse uno sguardo di disprezzo e insofferenza.
«Vorrei solo che tornassi a casa tua! Ma che ci venite a fare qui? A farvi mantenere dal nostro stato? A rubarci il lavoro? A rubare nelle nostre case?», rispose con arroganza, come se avesse desiderato farlo da tempo, come se aspettasse quell'occasione come un pretesto e la caricasse di troppa rabbia rispetto all'innocente richiesta di Kanake.
Lui avrebbe voluto rispondere che se non fosse stato così disperato e spaventato, non avrebbe mai fatto tante miglia in condizioni oltre la sopportazione umana, per lasciare la propria terra e avventurarsi in un ignoto futuro migliore, solo per farsi umiliare. Avrebbe anche voluto dirgli che ormai abitava in quella città da dieci anni, che ormai era quella casa sua, quell'appartamento di tre stanze che doveva condividere con Samba e qualche volta con i suoi amici, altrimenti non sarebbe mai riuscito a pagare l'affitto regolarmente ogni mese. E avrebbe continuato dicendo che lui non aveva né avrebbe mai rubato, che non lo faceva nemmeno da bambino, quando, nella sua terra, la fame lo avrebbe giustificato per tutto. Samba, lui sì a volte si sporcava le mani, pensando di trovare scorciatoie o semplicemente facendosi affascinare dai suoi amici. A sentir loro, con un furto ci si poteva sistemare per un paio di mesi, senza più lavorare ogni giorno, dieci ore sotto il sole. Come faceva lui. E forse avrebbe anche potuto dire che non aveva alcun altro posto dove andare, dopo aver perso la sua famiglia, massacrata dalla crudeltà inspiegabile dei vicini di casa. Ma il peso della sua zavorra, seppur sulle spalle, gli impedì di rispondere, forse anche per quel suo innato senso di sottomissione a chi pareva essere tanto sicuro delle proprie affermazioni.
Si allontanò senza aggiungere altro, mentre quell'uomo lo scrutava con l'aria soddisfatta di chi rimette a posto le cose, fa ordine, e si aspetta la riconoscenza degli astanti.
Kanake tornò sulla riva. Forse, per quel giorno, era davvero meglio restare solo coi suoi pensieri malinconici e seguire i suoi passi, uno in fila all'altro, sulla sabbia bagnata, lasciando impronte effimere che un'onda avrebbe cancellato di lì a poco, inghiottendole come le parole asprigne di quell'uomo.


Inciampò su un ramo portato dal mare e fu come inciampare in un ricordo.

Si voltò a guardare i flutti e gli parve di scorgere, in lontananza, il profilo di un barcone, come quello su cui era arrivato in Italia tanti anni prima. Un paio di lustri non erano stati in grado di cancellare, al pari delle orme sulla battigia, la memoria di quella notte. Il freddo. La pioggia che ingrossava il mare e lo rendeva minaccioso. La coperta con cui tentava di ripararsi, fradicia e pesante, come la paura che lo teneva schiacciato sul ponte della bagnarola. Gli amici caduti in mare. Le minacce al suo tentativo di salvarli: loro non li avrebbero attesi. Il volto di Mbati galleggiante sulla spuma bianca del mare. Poi il nero. Più nero della sua pelle presa a bersaglio. Quel nero che non lo avrebbe lasciato più.
Distolse i pensieri, seguendo il volo di un gabbiano planare su una corrente d'aria propizia. A volte è quello che ci vuole, pensò. Tenere semplicemente le ali aperte e farsi trasportare dalla vita verso orizzonti favorevoli. Un po' di buona sorte. Si voltò verso gli ombrelloni ancora una volta. Il sole ormai stava scivolando verso terra, oltre la duna. Si incantò a guardare una bambina bionda giocare. Stava costruendo un castello con la sabbia. Anzi, lo stava decorando con cura, con conchiglie e rametti. Le ciocche color miele le ricadevano sulla fronte e più di qualche volta la vide sbuffare cercando di rispedirle da un lato. La madre, seduta sul lettino, guardava verso il mare. Anzi, guardava proprio lui. I loro occhi si incrociarono un istante. Un solo istante? Era una donna sulla quarantina, con le iridi chiare. Il vento pareva scompigliarle i capelli scuri al rallentatore. Sembrava commossa, la vedeva respirare con l'affanno di chi sta per piangere. La bimba le corse in contro e i loro occhi sciolsero il loro muto legame. Tutto tornò alla normalità, Kanake al suo lento incedere lungo il bagnasciuga, la donna ad abbracciare la sua bambina e ridere dopo aver fatto una ruota perfetta. Per un istante, le loro anime si erano toccate, si erano sentiti uno parte dell'universo dell'altra. Un'empatia che aveva annullato qualsiasi distanza. E per un momento aveva reso il mondo un posto migliore.


Stefania Bergo
Non ho mai avuto i piedi per terra e non sono mai stata cauta. Sono istintiva, impulsiva, passionale, testarda, sensibile. Scrivo libri, insegno, progetto ospedali e creo siti web. Mia figlia è tutto il mio mondo. Adoro viaggiare, ne ho bisogno. Potrei definirmi una zingara felice. Il mio secondo amore è l'Africa, quella che ho avuto la fortuna di conoscere e di cui racconto nel mio libro.
Con la mia valigia gialla, Gli Scrittori della porta accanto (seconda edizione).
Mwende. Ricordi di due anni in Africa, Gli Scrittori della porta accanto (seconda edizione).


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