Incipit #100 La repubblica delle farfalle, di Matteo Corradini (BUR). «Tanto per cominciare, ho una sorpresa.»
Dalle carabattole che aveva portato tolse un piccolo sacchetto ruvido: nel sacchetto era appallottolato uno straccio scuro. Edison lo prese in mano e poi in braccio, neanche contenesse un neonato che dorme. Se lo appoggiò a una guancia, lo rimise sul tavolo e
a quel punto lo aprì, come il mago che mostra il cappello prima vuoto e poi pieno.
Fu l’ultima volta che accendemmo una lampadina tutti insieme. Lassù nella soffitta ci eravamo dimenticati del buio, del silenzio, della notte che incombeva su di noi. Delle stelle che non si vedevano più, oltre la finestra. Avevamo scordato perfino l’odore delle coperte fradice, la sensazione del pidocchio che ti saltella in testa. Eravamo solo noi. E c’era ancora Jiri col suo talento sfortunato, che non sapeva ancora dove sarebbe girata la sua ruota.
Edison passò oltre la porta incedendo da ambasciatore di corte, e sforzandosi di non ridere cercava di tenere ferme le guance. Il nero della soglia, il nero di quella soffitta lo aiutavano a nascondere nel buio l’eccitazione. Portava un fagotto nelle mani e lo sbrigliò in fretta davanti a noi, lo appoggiò sul tavolo, quello che usavamo per la redazione del giornale, e spalancando la bocca (solo il bianco dei suoi denti era visibile nello scuro) sussurrò: «Sorpresa.» Una lampadina.
Sorpresa, così, senza punti esclamativi: non eravamo più abituati ai punti esclamativi. Gli unici che sentivamo scritti erano quelli degli ordini, coltellate nelle nostre orecchie.
Ci avvicinammo tutti al tavolo, chi era già sulla branda saltò giù, e il pavimento scricchiolò. Quando Edison disse "sorpresa" c’era già silenzio. Aprì il fagotto lentamente: dentro, un secondo strato di panno celava un involucro di carta. Nell’involucro c’era la lampadina. Edison la prese in mano e ce la mostrò come stesse regalando un diamante. La lampadina brillò del riflesso dei nostri occhi vicini. Il nostro amico la teneva per l’avvitamento, e se la sua emozione si fosse tramutata in elettricità, e non in sangue, avrebbe potuto accenderla con le dita.
Saltò sul tavolo; eravamo senza parole. Si appese a un cavo che pendeva dal soffitto; prima del nostro arrivo reggeva un lampadario, magari di vetro. I nostri polmoni erano sottovuoto per lo stupore, come il cuore della lampadina è tenuto sottovuoto perché si accenda senza bruciare. Edison si mise ad avvitare e avvita avvita batteva i piedi sul tavolo, avvita avvita in una specie di danza elettrica, avvita avvita lo seguimmo col pensiero, battendo le mani sui bordi del legno sempre più a tempo.
Zdenek ci zittì: «Siete matti? Basta rumore.» Ci placammo.
Edison aveva finito. Guardò Peter che si era spostato accanto all’interruttore.
«Vado?» chiese.
«Se ci scoprono questa volta ci ammazzano davvero.»
«Da fuori non si vede.»
Sembrava anche più grande, illuminato dalla candela ai suoi piedi, mentre si aggrappava al piccolo portalampada di ceramica smaltata.
«Strano che quelli di prima non se lo siano portati via: hanno staccato anche la carta da parati.»
Peter lo sorreggeva per un gamba mentre Jiri si inorgogliva del suo coraggio: «Lo spettacolo sta per cominciare.»
Mentre teneva stretto il cappellotto a vite della lampada, impugnò la lampadina, la svitò e la avvitò di nuovo. Se ripenso a quella scena, so che fu l’ultima volta nella quale ci ritrovammo tutti e otto insieme a discutere e a scrivere, l’ultima notte con il nostro amico Jiri. Il suo spettacolo stava per cominciare, ma nessuno ancora lo sapeva.
«Falle fare ancora un giro» suggerì Zappner, il bambino con la barba.
«Se la accendiamo ci vedranno.»
«Se la accendiamo ci vedremo, è diverso.»
La riprese in mano Edison: con il giro che diede alla lampadina avrebbe acceso anche la coda di un cane. Ecco la luce. La stanza si infiammò di colori, come se ogni cosa, ogni oggetto fino al più piccolo si fosse svegliato in quell’istante e avesse cominciato a brillare per conto proprio. Si vedevano i fogli scritti con le poesie e i racconti, i giornali clandestini scritti a mano lì accanto, qualche libro, tre cartoline, le tante brande di legno ammuffito. Si vedevano le facce di otto ragazzi che sorridono insieme, come un’orchestra. Nella notte più buia potevano guardarsi negli occhi e vederli lucidi e acquosi. Forse altrove si sarebbero presi in giro per quella commozione. Ma nessuno aveva voglia di fiatare: il buio è il mondo delle parole ma con la luce basta anche il silenzio, non c’è da stupirsi.
Le cose, gli oggetti furono abbracciati dallo splendore e li vedemmo non come li vediamo di giorno ma come li vediamo nei sogni. Di colpo ogni cosa esistette: le brande allineate e alte, con le nostre cose, i libri, i calzoni che penzolano, le scarpe in un angolo, ben slacciate, e la carta per il giornale nascosta tra il materasso e il legno, e le pareti con le fotografie, i disegni, i pastelli. E soprattutto ci guardammo in faccia, mentre Edison rideva che a fermarlo ci si misero in tre, ma ridendo anch'essi, e
tenemmo il fiato finché anche il più spavaldo topo della soffitta prese a piangere anche lui, finché i pidocchi sulle nostre teste si misero a ballare e per una volta, per una volta soltanto, ci lasciarono in pace a guardarci negli occhi scuri ma luccicanti, bui ma belli.
Fu l'ultima volta che accendemmo una lampadina, che la accendemmo tutti insieme. Era una notte elettrica, quella, e andava festeggiata senza rimorsi: prima e dopo sarebbe stata nostalgia di casa e prigionia, niente di cui stare allegri. Ma quella notte buia la fregammo tutti insieme. Per una notte, una notte soltanto, eravamo stati più forti perfino di Terezín.
Quarta di copertina
Terezín si trova nella Repubblica Ceca. Nata a fine Settecento come città-fortezza, durante la Seconda guerra mondiale diventò un campo di raccolta degli ebrei destinati allo sterminio. Vi furono rinchiuse 155 mila persone. Solo 3807 tornarono a casa dai campi di Treblinka, Auschwitz- Birkenau e dagli altri lager dove furono deportate. Nel ghetto vissero circa 15 mila tra bambini e ragazzi: alla fine della guerra ne erano rimasti in vita 142. A Terezín c’era tutto: case, strade, musica, teatro.
Peccato che non ci fosse la libertà. Ogni venerdì sera un gruppo di ragazzi si riuniva di nascosto intorno al bagliore di un lumino per dare vita a un giornale che fu chiamato Vedem, ovvero Avanguardia, e metteva insieme le notizie, gli arrivi, le partenze, ma anche poesie, disegni, interviste. Era il loro modo di lottare, di tenersi stretta la voglia di restare vivi. Molte pagine del giornale Vedem sono oggi conservate al Memoriale di Terezín. Matteo Corradini è partito da quei documenti per raccontare una straordinaria forma di resistenza.
a quel punto lo aprì, come il mago che mostra il cappello prima vuoto e poi pieno.
Fu l’ultima volta che accendemmo una lampadina tutti insieme. Lassù nella soffitta ci eravamo dimenticati del buio, del silenzio, della notte che incombeva su di noi. Delle stelle che non si vedevano più, oltre la finestra. Avevamo scordato perfino l’odore delle coperte fradice, la sensazione del pidocchio che ti saltella in testa. Eravamo solo noi. E c’era ancora Jiri col suo talento sfortunato, che non sapeva ancora dove sarebbe girata la sua ruota.
Edison passò oltre la porta incedendo da ambasciatore di corte, e sforzandosi di non ridere cercava di tenere ferme le guance. Il nero della soglia, il nero di quella soffitta lo aiutavano a nascondere nel buio l’eccitazione. Portava un fagotto nelle mani e lo sbrigliò in fretta davanti a noi, lo appoggiò sul tavolo, quello che usavamo per la redazione del giornale, e spalancando la bocca (solo il bianco dei suoi denti era visibile nello scuro) sussurrò: «Sorpresa.» Una lampadina.
Sorpresa, così, senza punti esclamativi: non eravamo più abituati ai punti esclamativi. Gli unici che sentivamo scritti erano quelli degli ordini, coltellate nelle nostre orecchie.
Ci avvicinammo tutti al tavolo, chi era già sulla branda saltò giù, e il pavimento scricchiolò. Quando Edison disse "sorpresa" c’era già silenzio. Aprì il fagotto lentamente: dentro, un secondo strato di panno celava un involucro di carta. Nell’involucro c’era la lampadina. Edison la prese in mano e ce la mostrò come stesse regalando un diamante. La lampadina brillò del riflesso dei nostri occhi vicini. Il nostro amico la teneva per l’avvitamento, e se la sua emozione si fosse tramutata in elettricità, e non in sangue, avrebbe potuto accenderla con le dita.
Saltò sul tavolo; eravamo senza parole. Si appese a un cavo che pendeva dal soffitto; prima del nostro arrivo reggeva un lampadario, magari di vetro. I nostri polmoni erano sottovuoto per lo stupore, come il cuore della lampadina è tenuto sottovuoto perché si accenda senza bruciare. Edison si mise ad avvitare e avvita avvita batteva i piedi sul tavolo, avvita avvita in una specie di danza elettrica, avvita avvita lo seguimmo col pensiero, battendo le mani sui bordi del legno sempre più a tempo.
Zdenek ci zittì: «Siete matti? Basta rumore.» Ci placammo.
Edison aveva finito. Guardò Peter che si era spostato accanto all’interruttore.
«Vado?» chiese.
«Se ci scoprono questa volta ci ammazzano davvero.»
«Da fuori non si vede.»
Non si accese nulla. Allora Jiri salì sul tavolo e prese la lampadina.
«Strano che quelli di prima non se lo siano portati via: hanno staccato anche la carta da parati.»
Peter lo sorreggeva per un gamba mentre Jiri si inorgogliva del suo coraggio: «Lo spettacolo sta per cominciare.»
Mentre teneva stretto il cappellotto a vite della lampada, impugnò la lampadina, la svitò e la avvitò di nuovo. Se ripenso a quella scena, so che fu l’ultima volta nella quale ci ritrovammo tutti e otto insieme a discutere e a scrivere, l’ultima notte con il nostro amico Jiri. Il suo spettacolo stava per cominciare, ma nessuno ancora lo sapeva.
«Falle fare ancora un giro» suggerì Zappner, il bambino con la barba.
«Se la accendiamo ci vedranno.»
«Se la accendiamo ci vedremo, è diverso.»
La riprese in mano Edison: con il giro che diede alla lampadina avrebbe acceso anche la coda di un cane. Ecco la luce. La stanza si infiammò di colori, come se ogni cosa, ogni oggetto fino al più piccolo si fosse svegliato in quell’istante e avesse cominciato a brillare per conto proprio. Si vedevano i fogli scritti con le poesie e i racconti, i giornali clandestini scritti a mano lì accanto, qualche libro, tre cartoline, le tante brande di legno ammuffito. Si vedevano le facce di otto ragazzi che sorridono insieme, come un’orchestra. Nella notte più buia potevano guardarsi negli occhi e vederli lucidi e acquosi. Forse altrove si sarebbero presi in giro per quella commozione. Ma nessuno aveva voglia di fiatare: il buio è il mondo delle parole ma con la luce basta anche il silenzio, non c’è da stupirsi.
La stanza fu invasa da un chiarore meraviglioso.
Fu l'ultima volta che accendemmo una lampadina, che la accendemmo tutti insieme. Era una notte elettrica, quella, e andava festeggiata senza rimorsi: prima e dopo sarebbe stata nostalgia di casa e prigionia, niente di cui stare allegri. Ma quella notte buia la fregammo tutti insieme. Per una notte, una notte soltanto, eravamo stati più forti perfino di Terezín.
Leggi anche Stefania Bergo | L'inferno nei disegni e nelle parole dei bambini di Terezin
Quarta di copertina
La repubblica delle farfalle di Matteo Corradini, BUR, 2015.
Terezín si trova nella Repubblica Ceca. Nata a fine Settecento come città-fortezza, durante la Seconda guerra mondiale diventò un campo di raccolta degli ebrei destinati allo sterminio. Vi furono rinchiuse 155 mila persone. Solo 3807 tornarono a casa dai campi di Treblinka, Auschwitz- Birkenau e dagli altri lager dove furono deportate. Nel ghetto vissero circa 15 mila tra bambini e ragazzi: alla fine della guerra ne erano rimasti in vita 142. A Terezín c’era tutto: case, strade, musica, teatro.Peccato che non ci fosse la libertà. Ogni venerdì sera un gruppo di ragazzi si riuniva di nascosto intorno al bagliore di un lumino per dare vita a un giornale che fu chiamato Vedem, ovvero Avanguardia, e metteva insieme le notizie, gli arrivi, le partenze, ma anche poesie, disegni, interviste. Era il loro modo di lottare, di tenersi stretta la voglia di restare vivi. Molte pagine del giornale Vedem sono oggi conservate al Memoriale di Terezín. Matteo Corradini è partito da quei documenti per raccontare una straordinaria forma di resistenza.
★★★★★
Il buon giorno di vede dal mattino, dicono, e un buon incipit e una copertina accattivante possono essere il perfetto bigliettino da visita di un libro.
Secondo voi, quante stelline si merita il biglietto da visita di questo libro?
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