Gli scrittori della porta accanto

C'erano una volta i miei nonni, un racconto di Elena Genero Santoro

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C'ERANO UNA VOLTA I MIEI NONNI


Spettabile redazione,questo articolo non è il mio consueto editoriale. Presumibilmente non interesserà a nessuno, ma è la prova che la scrittura abbia una funzione terapeutica nei momenti più duri. 
È la storia dei miei nonni, di chi erano e di come sono morti, ma anche del mio rapporto con la loro morte, spalmata in un arco di vent'anni. Eppure non c'è tristezza, se non momentanea per il distacco. C'è però il desiderio di dare un senso, di credere che tutto si sia compiuto come doveva. 
Decidete voi se pubblicarlo sulla vostra testata, nella mia rubrica del martedì.
Distinti saluti,
Elena.

Non avrei potuto scrivere quanto segue prima di oggi, perché solo oggi è arrivato l’epilogo. Lo faccio a caldo perché mia nonna è morta stamattina, esattamente il 10 marzo 2017. Era la mia ultima nonna in vita e aveva 92 anni. Anzi, 92 e mezzo, quasi 93, perché da una certa età in poi cominci a contare anche i mesi, come con i neonati, ma lo fai per il motivo opposto, perché hai paura che non arrivino all’anno successivo. Mia nonna, ai 93, non c’è arrivata, ma direi che, anagraficamente parlando, ci possiamo accontentare.
I nonni che ho conosciuto e amato quando erano vivi sono stati tre e sono morti tutti nel mese di marzo, a circa 10 anni di distanza uno dall’altro.
Ma cominciamo dall’inizio. 
Il nonno paterno, Bartolomeo, quello che non ho mai incontrato, è morto a 41 anni, il 24 gennaio 1950. Il giorno dopo, mio padre ha compiuto sei anni.
Dal nonno pare che io abbia preso molte cose, le sopracciglia, la stazza, la passione per l’edilizia (era muratore) e quella per il risotto, soprattutto quello che si attacca alla pentola e rimane più croccante. Forse anche la celiachia, visto come è morto, ma questa rimane una supposizione. Ma cosa si sapeva di celiachia nel Cinquanta? Niente.
Mio padre ancora ricorda che era un uomo molto allegro.
La prematura scomparsa di mio nonno ovviamente è pesata come un macigno in famiglia e mia nonna, nel dopoguerra, ha dovuto lavorare come operaia ai telai per anni, prima di andare in pensione, relativamente presto, e godersi la seconda metà della vita nella sua casa e nel suo orto. Per andare al lavoro macinava tutti i giorni venti chilometri in bici, con qualunque clima, e così facendo ha permesso a mio padre di laurearsi. Da lei ho preso la testa dura e l'approccio poco arrendevole di fronte agli avvenimenti avversi.

La nonna paterna, Angela detta Lina, odiava i medici e li riteneva quasi tutti degli imbecilli. 

Era una contadina tosta, di quelle che scambiava gli infarti per indigestione e infatti se ne era già fatto almeno uno a casa propria (cosa scoperta a posteriori con un esame successivo), curandolo con la citrosodina.
Poi, il 22 marzo 1997, un venerdì mattina, alle cinque e mezza ci telefonò dicendo che stava male, che era tutta la notte che stava male. Presi io la telefonata, perché avevo il telefono (fisso) sul comodino e quando questo squillò io sapevo già che fosse lei: la stavo sognando.
I miei genitori si catapultarono (abitava a cinquanta metri di distanza), ma quando mio padre arrivò, la nonna già non riusciva più a parlare. Quaranta minuti dopo, il secondo infarto della sua vita se l’era portata via.
Io avevo quasi 22 anni e rimasi scioccata, perché mia nonna stava bene e mai più ci saremmo aspettati quella morte così improvvisa, anche se lei aveva 86 anni. Non se la sarebbe aspettata neanche lei, che infatti la sera prima diceva a mio padre che con gli zoccoli che si era comprata voleva farci tutta la stagione. Credo che la morte le sia passata addosso e l’abbia travolta e lasciata devastata e incredula, perché lei era intimamente convinta di poter campare ancora a lungo.
In realtà, col senno di poi, non stava bene per niente, aveva la pressione alta e il colesterolo a palla, ma le cure le andavano strette. Non voleva rinunciare al suo cioccolato, alla sua nutella, alle sue caramelle. Solo il giorno prima era stata al mercato e ancora conservava nella borsetta gli sfizi alimentari che voleva togliersi.
Però una grazia le fu concessa: morì tra le braccia di mio padre, come aveva sempre desiderato. Quella fu l'unica volta nella mia vita in cui vidi mio padre piangere senza contegno e singhiozzare come un vitello portato al macello.

La morte di mia nonna mi lasciò disperata, perché mi aveva colto di sorpresa.

E poi io ero in quella fase post adolescenziale della vita in cui la nonna la mandavo a stendere, perché ripeteva sempre le stesse cose, perché era noiosa, perché mi diceva che mangiavo troppo poco. Avevo l'università e tante altre cose a cui badare. Il grosso rimpianto che ho cullato a lungo è stato non averle detto che avevo trovato un ragazzo e non averla trattata meglio nell’ultimo periodo.
Nei mesi successivi somatizzai talmente tanto questo evento traumatico da farmi venire l’insonnia a ripetizione e una terribile dermatite. Con lei avevo una rapporto viscerale, un legame unico.
Negli seguenti l’ho sognata mille volte, perché era la nonna con cui sono cresciuta. Anche se poi la sua casa è cambiata ed è stata ristrutturata, nei miei sogni il soggiorno è sempre quello, con il divano sformato dalla testiera di ferro e dalla coperta verde, il grosso tavolo di legno, la stufa e la credenza squadrata con sopra la sveglia rossa con i numeri verdi. La testa di mia nonna fa capolino dalla finestra ed è tutto così reale da farmi stare male, perché nel sogno stesso io mi rendo conto che qualcosa non quadra, che io non ho più 22 anni, che nel frattempo qualcosa è cambiato. C’è una discrepanza temporale che si affaccia nella mia mente e viene ogni volta a rompermi le uova nel paniere, perché, se non fosse per quella, nel mio sogno tutto sarebbe perfetto.

Con gli altri due nonni mi sono fatta furba. 

Per non dovermi macerare di sensi di colpa postumi, li ho trattati decisamente meglio e questo mi ha permesso, per certi versi, di soffrire meno.
Il nonno materno, Salvatore, è morto il 13 marzo 2006, all’età di 87 anni. Fino a quattro anni prima stava alla grande. Attraversava pure il paese in bici e guidava la macchina. Poi una specie di leucemia lo aveva costretto a trasfusioni periodiche. Ma lui, che era una persona di una pazienza infinita, sopportava tutto stoicamente. Era un uomo di un’eleganza innata. Vestiva sempre in giacca e cravatta, non firmato, ma stiloso. Era anche molto simpatico. Aveva una di quelle facce che lo facevano sembrare un pezzo grosso anche se non lo era. Riusciva ad entrare ovunque volesse perché lo scambiavano per qualcuno di importante. Se fosse stato un truffatore o un imbroglione sarebbe diventato ricco. Invece era una persona di grande rigore, con un senso morale ferreo e faceva il segretario comunale. Da lui non ho ereditato l’eleganza, ma sicuramente la flemma, la pacatezza con cui smontava un pezzo alla volta ogni intoppo burocratico. Era venuto su dalla Sicilia, dopo aver vinto un concorso.
Con quella specie di leucemia, che pur progrediva lentamente, il suo equilibrio fisico era quanto mai precario. Poi un giorno inciampò e si ruppe un femore. O forse il femore era crollato da solo perché non reggeva più. Comunque, lo operarono e l’intervento riuscì persino, ma il suo fisico già compromesso non reagì bene, lui andò in blocco renale e dieci giorni dopo mancò.
Quei dieci giorni in ospedale servirono per far metabolizzare a lui e a tutti noi quello che stava accadendo, e a farcene una ragione. Lui rimase lucido quasi fino alla fine e capì tutto. Anzi, chiamò al telefono un suo fratello prete che stava in Sicilia e gli disse: "Stavolta me ne vado. Prega, perché voglio andarmene". L’altro gli chiese se era sicuro e lui confermò. Se siano state le preghiere o il destino ad accompagnare mio nonno fino al cielo non sono io a poterlo dire. Quello che ci fu di buono, fu la sua fermezza, la sua consapevolezza, il suo desiderio di lasciarsi andare dopo una vita pienamente vissuta e giunta a compimento. Se è vero che possiamo influenzare con la psiche il nostro modo di morire, beh, mio nonno l’ha fatto. Ha passato il testimone con grazia, con leggerezza e con eleganza nel momento in cui ha sentito che era giunto al termine. Ha soltanto preteso medicine palliative e antidolorifici per non soffrire.

Arriviamo a oggi. La nonna materna, Gemma, è stata la più longeva. 

Al contrario della nonna Lina, la nonna Gemma era una che scambiava le indigestioni per infarti, e menomale, perché poi tre infarti li ha avuti davvero ed è sempre sopravvissuta anche grazie al soccorso tempestivo.
Cresciuta in una Sicilia legata a certe tradizioni, aveva portato il lutto dall’età di 11 anni (ogni volta che moriva un parente, a partire da suo padre, la vestivano di nero per anni e la cosa capitava spesso). Forse per questo, forse perché aveva perso una figlia neonata, la morte la metteva angoscia ed era traumatizzata all’idea di morire.
Si è sempre riguardata moltissimo ed è ciò che le ha permesso di vivere così a lungo. Era l’ultima di nove figli, di cui alcuni morti piccoli. Le due che erano nate prima di lei erano state chiamate entrambe Sebastiana, ed erano morte di lì a poco. Quando è nata lei il nome Sebastiana (che non aveva portato benissimo) fu accantonato per Gemma, e le cose andarono decisamente meglio. Gemma è un nome che evoca vita. Gemma, poi, ha dato alla luce quattro figli di cui la prima era mia madre.
Mia nonna è stata bene fino all’età di 85 anni, poi tre infarti e la rottura di un femore hanno minato progressivamente la sua salute. Se con la nonna Lina eravamo rimasti scioccati per la velocità con cui la morte ce l’aveva portata via, con la nonna Gemma ci siamo trovati nella situazione esattamente contraria. Il calvario lo abbiamo vissuto giorno per giorno per anni, abbiamo bevuto l’amaro calice fino all’ultima goccia (lei per prima e noi con lei), iniziando prima con le badanti, poi con l’inserimento in una struttura e infine con le badanti all’interno della struttura.
Accompagnarla fino ad oggi è stato lungo e faticoso, un cammino tortuoso pieno di alti e bassi, anche perché, a parte negli ultimi tempi, mia nonna era lucida e soffriva. Era la più lucida di tutti. Era un cervello perfettamente attivo montato su un corpo che la stava abbandonando, che non le rispondeva come avrebbe voluto, e che doleva. Le spalle, le ossa, le piaghe da decubito. Lo scompenso cardiocircolatorio. Tutti i disturbi che l’età le provocava. Tante volte ci siamo chiesti che senso avesse tutto questo. Ci siamo chiesti che senso avesse salvare dall’infarto un’anziana per ben tre volte e lasciarla ogni volta più debilitata. Che senso avesse farle prendere un farmaco ogni ora per far sì che il suo cuore continuasse a funzionare. Che senso avesse riempirla di medicine per tenerla ferma in un letto a soffrire.
A periodi di relativa calma si alternavano momenti neri. Dopo il primo infarto, a ogni malanno la piangevamo per morta, perché sembrava sul punto di, invece poi si riprendeva. Ha lottato più che ha potuto, lei voleva vivere, era la sua scelta. Non avrebbe mai accettato l’eutanasia, perché amava la vita.

Temeva di morire e temeva più di tutto di vedersi morire, colta da un infarto, o da una crisi respiratoria. 

Tre giorni dopo Natale ha avuto una polmonite. In ospedale non ci davano speranze. L’abbiamo riportata nella struttura viva, ma debilitata e con un forte deficit respiratorio. Da quel momento ha sempre avuto il respiratore con l'ossigeno.
Poi due settimane fa il tracollo.
Ho visto mia nonna diventare piccola e indifesa come un uccellino. Lei che era sempre stata una combattiva, una che ha sempre preteso e ottenuto rispetto. Una donna dal pensiero fine che ha amava la propria indipendenza. Una di quelle vecchiette sveglie che tutti ammirano. L’ho vista aprire gli occhi cercando di capire chi fosse e dove fosse. L’ho vista guardarsi intorno spaurita, ma sempre ben disposta se c’erano figli, nipoti e bisnipoti intorno. L’ho vista mangiare imboccata con un cucchiaino come una neonata. Eppure era ancora calda, era ancora un corpo vivo.
Ieri abbiamo capito che ormai eravamo alla fine. Era quasi in agonia, ma se la chiamavi tentava di aprire gli occhi. È riuscita persino a darmi un bacio e ho capito che era l’ultimo. Mi voleva bene. Aveva il grande cuore di una mamma, di una nonna e di una bisnonna.

Ha avuto la morte che più desiderava, perché l’incoscienza o la semi-coscienza degli ultimi giorni, come una benedizione, le ha tolto ogni paura. 

Nei rari momenti in cui non dormiva parlava del marito e della sorella defunti come se fossero stati vicino a lei. Magari c’erano davvero.
Prima che morisse è successa una cosa. Dopo giorni di sonnolenza e apparente assenza, stamattina sembrava che si fosse un po' ripresa. Aveva gli occhi aperti e parlava. Mia madre e mia zia non c'erano, ma con l'aiuto della badante lei ha voluto telefonare alle figlie e salutarle. È riuscita a dire "Ciao" a entrambe e che voleva "correre, uscire di lì". Poi ha detto alla badante che voleva chiedere a suo marito se era d'accordo su qualcosa che sapeva solo lei. La badante le ha mostrato una foto del nonno, lei l'ha guardata e sembrava convinta. Il nonno era d'accordo.
È stato quello che molti chiamano "il canto del cigno": un momento di lucidità e di relativa energia prima del passo finale. Poco dopo ha esalato l'ultimo respiro senza alcuna sofferenza.
Mi piace pensare che le sue richieste di parlare con mio nonno e con sua sorella non fossero solo i vaneggiamenti di una moribonda con poca ossigenazione, ma che qualcuno, dall'altra parte, avesse iniziato a tenderle una mano affinché non avesse paura. Che nei giorni in cui sonnecchiava semincosciente fosse già affacciata verso la sua nuova vita, a cavallo tra due mondi. Che quella sua assenza pacifica che a noi dava tanta pena fosse già l'inizio di un avvenire migliore.
Alla fine, dopo aver maledetto per anni la sua malattia, il suo calvario, dobbiamo riconoscere che essa ci ha condotto esattamente dove dovevamo arrivare: a una morte dolce e senza ansia. Anche senza le sue figlie, perché mia nonna mai avrebbe voluto che assistessero al trapasso.
Ed è qui che entra in gioco la fede, che non è mai facile. Nonostante tutto quello che capita, nonostante il cammino che ci sembra inutilmente tortuoso, c’è un perché a tutto, anche se noi non lo vediamo, anche se non possiamo capire e gli avvenimenti ci sembrano assurdi.

E adesso? Adesso ho quasi 42 anni e non ho più l’emotività di quando ne avevo 22. 

So già cosa vuol dire perdere una persona cara, perdere una radice. Ho immaginato e razionalizzato questo momento tante volte senza disperazione e in effetti non sono disperata. Si chiude un ciclo di vita, già si sapeva che si sarebbe concluso. Anzi, sono sicura che mia nonna, ovunque sia, non possa star peggio di come stava qua negli ultimi mesi. Eppure sono triste. È da stamattina che piango e non riesco a smettere, nonostante tutto. Dovevo fare un breve intervento a un convegno, ma sono scappata. Pensavo di essere preparata, ma non lo ero e non lo sono. Pensavo di farcela, ma non ce l’ho fatta. Ci sono emozioni con cui bisogna fare i conti, non è nemmeno giusto reprimerle. Ho la testa che mi scoppia, ma se non avessi scritto questo articolo sarei impazzita. Ogni lutto va elaborato, ha un decorso fisiologico da cui non si può scappare.
Perché quando l’ho vista dopo, il corpo composto e freddo nella camera mortuaria, ho avuto ben chiaro che mi mancherà un sacco. Mi mancherà il suo sguardo furbetto, mi mancherà la sua fisicità. Perché poi ciò che manca dei defunti che abbiamo amato è proprio quello. Ci manca la carezza data, l’abbraccio, la parola. Non ci basta sapere che loro, altrove, stanno bene.
Quando mi ha dato l’ultimo bacio ho ripensato a uno degli articoli che avevo letto su dj Fabo, l’unico articolo che mi abbia colpita. Si diceva che Fabo avesse un unico mezzo per comunicare. Immobilizzato e cieco, poteva ancora scambiare dei baci. Baciava la mamma, la fidanzata, gli amici. E poi c’era scritto che la mamma rispettava la scelta, ma non era proprio d’accordo. Ho capito il motivo del disaccordo: quel bacio. Per quanto al figlio fosse toccata una vita infame, una madre non potrebbe mai rinunciare a un bacio del proprio figlio.

A Gemma Nicoletti - in memoriam

PS: allego una foto. È stata scattata nel 2009, mentre festeggiavamo il primo compleanno di mia figlia. Siamo quattro generazioni di donne. Ho usato a lungo parte di questa foto, quella che inquadra la mia faccia, come foto del mio profilo Facebook. Questa è la versione integrale: vicino a me c’è la nonna Gemma. Nonna, mi piace ricordarti così.

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Elena Genero Santoro


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