«Scrivi mama, ti prego, scrivi di quanto sono felice!
Tu che sei una mzungu e sei sempre in viaggio, puoi farlo sapere al mondo della felicità che oggi porto nel cuore.»
«Va bene Assireni, lo faccio volentieri. Ma che ne diresti di cominciare dall’inizio e di parlarmi un po’ di te?»
«Io non so parlare di me. Non ho mai pensato a me stessa come a una persona. Nessuno mi ha insegnato a farlo.»
«Ma tu sei una persona, e da come ti conosco sei anche molto speciale! Ti aiuterò a farlo io, se vuoi. Cominciamo dall’inizio; dimmi quando sei nata.»
«Non conosco la data esatta in cui sono nata. So solo che era il mese in cui nascono gli agnelli di circa quarant’anni fa. Ero la prima femmina dopo tre maschi. Mio padre non dimostrò particolare gioia all’evento e lasciò totale libertà della scelta del mio nome a mia madre, che invece fu molto felice di avere un componente del suo stesso sesso in famiglia. Decise di chiamarmi Assireni che significa “lei è bella”. Come puoi vedere, non sempre i significati dei nomi corrispondono alle persone che li portano.»
La donna fece una breve pausa nella quale smise di guardare la sua interlocutrice e abbassò lo sguardo per osservare le sue mani ossute e callose.
«Oh no, non lo sono. Quando mi guardo, vedo solo l’ombra della piacevole ragazza che sono stata. I miei occhi hanno perso la luce di chi si aspetta qualcosa di bello dalla vita. Tu sei bella, mama Nora!»
«Oh Assireni! Non puoi dire questo! Io sono vecchia e credo che anche i miei occhi non posseggano più quella luce di cui parli. Ma continua il tuo racconto.»
«Mi dissero che ci fu una grande festa quando mi venne dato il nome, a cui partecipò tutto il villaggio. Furono uccise due pecore che furono cotte alla brace e poi c’erano frutta, verdura e dolci in grande quantità. I miei parenti lavorarono tre giorni per preparare tutto il cibo necessario. Le danze e i canti durarono un giorno intero. Peccato che fossi troppo piccola per ricordarmi tutto questo, perché non ebbi altre occasioni da festeggiare.»
La donna si interruppe, sembrava non avesse altro da raccontare. Nell’attesa che l’altra finisse di prendere appunti e le facesse un’ulteriore domanda, cominciò a stropicciare, con le dita della mano destra, un lembo della sua gonna colorata e lunga fino ai piedi.
“Chissà qual è il significato del mio nome” pensò Eleonora in quel breve momento di silenzio, ripromettendosi di effettuare in futuro qualche ricerca per scoprirlo. Subito dopo continuò a intervistare Assireni.
«Ora parlami un po’ della tua infanzia.»
«Credo sia stata normale, come quella di tanti altri bambini. Il mattino dovevo fare molta strada a piedi per andare a scuola, ma era divertente perché andavo in compagnia di altre bambine e ci raccontavamo un sacco di cose o cantavamo. Non ricordo di avere giocato con i miei fratelli. In quanto maschi, avevano dei passatempi completamente diversi dai miei e dalle mie amiche. Loro passavano intere ore a fare a gara per costruire l’auto più bella; scovavano delle scatolette di metallo, vi attaccavano dei tappi di bottiglia per ruote e non so che altro per volante.
Oppure improvvisavano delle lunghe partite di pallone dopo aver costruito la palla con degli stracci arrotolati e legati con dello spago. Non ci invitavano mai ai loro divertimenti, e comunque noi non vi avremmo nemmeno partecipato perché ci piaceva fare dell’altro. Per esempio cercavamo dei pezzi di cocci da usare come piatti, e legando con del filo alcuni piccoli fasci di paglia cercavamo di dar loro la forma di una bambola. Intrecciavamo dei gambi di fiori a dei fili d’erba e realizzavamo dei gioielli da metterci in capo o al collo, e così diventavamo delle piccole donnine eleganti che preparavano da mangiare e accudivano la propria famiglia. Faceva parte del gioco anche andare a prendere l’acqua dal pozzo, fino a dieci volte al giorno, e comunque ogni volta che la mamma ce lo chiedeva.
Non so ancora come facevamo a portare il peso di quel vaso sulla testa; era grande quasi quanto noi! Molte volte aiutavo mia madre a sistemare la nostra casa oppure nei lavori in cucina: sbucciavo le patate o impastavo l’ugali che avrebbero costituito la nostra cena. E quando c’era da battere le spighe del riso o da grattugiare la manioca per ricavarne la tapioca io non mancavo mai. La sera ero talmente stanca che mi addormentavo improvvisamente ovunque mi trovassi, ma il mattino dopo mi svegliavo presto ed ero contenta di cominciare una nuova giornata perché, anche se faticosa, non avrei conosciuto la noia e ogni compito avrebbe finito con il divertirmi.»
Mama Malaika è stata una brava maestra, per me. Mi ha insegnato tutto quello che dovevo sapere per diventare una buona moglie e mamma. Un’unica cosa non ha saputo trasmettermi: la sua serenità. Sembrava sempre felice. Anche sotto il sole cocente, mentre zappava o raccoglieva la mchicha che avrebbe inzuppato con il sudore della fronte, la sentivo cantare. E cantava anche quando portava i panni a lavare sulla riva del fiume e vi rimaneva china per ore, li sbatteva sulla pietra, li ritorceva, li strofinava e continuava così, finché la schiena le si sarebbe quasi spezzata. Non era mai triste. Non l’ho vista piangere neanche quando Mosi e Akil riportarono a casa, sulle spalle, il corpo martoriato di mio padre. Le spiegarono che aveva cercato di salvare una mucca dall’attacco di un leone, ma che la lancia aveva ferito l’animale solo di striscio e questi gli si era avventato contro e l’aveva ucciso. Poggiarono mio padre a terra, dinnanzi all’ingresso di casa e il sangue che colava dalle sue ferite si confondeva con il rosso della terra. Vidi mia madre prendere un catino con dell’acqua, inginocchiarsi vicino a lui e la sentii pronunciare la frase: “È stata la volontà di Enkai Nanyokie ora sarai nel luogo dai grandi pascoli”. Poi cominciò a lavargli con tocchi leggeri, come se temesse di fargli male, prima il viso e poi tutto il resto. Rimase lì, chinata sopra di lui, per molto tempo, anche dopo che ebbe finito. Si alzò solo quando arrivarono i miei fratelli che erano andati a chiamare l’Oloibon per portare le spoglie di suo marito nel luogo destinato ad accoglierle.»
«Com’erano i tuoi genitori?»
«Papà lo vedevo molto poco. Per me era quasi uno sconosciuto. Lui portava gli animali al pascolo e tornava a casa di rado, oppure rientrava la sera, quando già ero addormentata. Quelle volte che avevo la possibilità di incontrarlo lo salutavo appena, senza guardarlo in volto, perché mi metteva soggezione. Anche lui, d’altra parte, non ha mai fatto il minimo sforzo per farci avvicinare. Ma è così che doveva andare. Quando i miei fratelli sono stati abbastanza grandi, lo hanno seguito per imparare il suo mestiere, mentre io sono sempre rimasta a casa con mia madre.Mama Malaika è stata una brava maestra, per me. Mi ha insegnato tutto quello che dovevo sapere per diventare una buona moglie e mamma. Un’unica cosa non ha saputo trasmettermi: la sua serenità. Sembrava sempre felice. Anche sotto il sole cocente, mentre zappava o raccoglieva la mchicha che avrebbe inzuppato con il sudore della fronte, la sentivo cantare. E cantava anche quando portava i panni a lavare sulla riva del fiume e vi rimaneva china per ore, li sbatteva sulla pietra, li ritorceva, li strofinava e continuava così, finché la schiena le si sarebbe quasi spezzata. Non era mai triste. Non l’ho vista piangere neanche quando Mosi e Akil riportarono a casa, sulle spalle, il corpo martoriato di mio padre. Le spiegarono che aveva cercato di salvare una mucca dall’attacco di un leone, ma che la lancia aveva ferito l’animale solo di striscio e questi gli si era avventato contro e l’aveva ucciso. Poggiarono mio padre a terra, dinnanzi all’ingresso di casa e il sangue che colava dalle sue ferite si confondeva con il rosso della terra. Vidi mia madre prendere un catino con dell’acqua, inginocchiarsi vicino a lui e la sentii pronunciare la frase: “È stata la volontà di Enkai Nanyokie ora sarai nel luogo dai grandi pascoli”. Poi cominciò a lavargli con tocchi leggeri, come se temesse di fargli male, prima il viso e poi tutto il resto. Rimase lì, chinata sopra di lui, per molto tempo, anche dopo che ebbe finito. Si alzò solo quando arrivarono i miei fratelli che erano andati a chiamare l’Oloibon per portare le spoglie di suo marito nel luogo destinato ad accoglierle.»
Quarta di copertina"Oltre i confini del mondo" di Ornella Nalon, Zerounoundici, 2014.
In una terra infuocata dal sole della Tanzania, una Masai consuma la propria essitenza tra obblighi e impegni dettati da ataviche tradizioni che riconoscono, nella donna, i soli ruoli di moglie obbediente e madre devota. Assireni deve accettare tutto in silenzio, ma il suo equilibrio interiore ne risente.
Riuscirà a compiere un’unica scelta: quella di mettere al mondo una sola figlia, alla quale dedicherà tutto il proprio impegno per garantirle una totale emancipazione e, con essa, la possibilità di essere fautrice del proprio destino.
In parallelo, all’altro capo del mondo, una serie di vicissitudini, sconvolgeranno l’agiata e ovattata esistenza di Eleonora che la porterà a mettere in discussione tutto il proprio vissuto. La sua decisione di partire per una missione in Tanzania, sarà una fuga dalla propria effimera ricchezza, alla ricerca di un ideale che vada a colmare il proprio vuoto interiore.
Assireni ed Eleonora; due donne che il destino non è riuscito a piegare. Quello stesso destino che le ha fatte avvicinare e le ha messe a confronto; tanto diverse per i loro trascorsi eppure, emotivamente, del tutto simili.
Riuscirà a compiere un’unica scelta: quella di mettere al mondo una sola figlia, alla quale dedicherà tutto il proprio impegno per garantirle una totale emancipazione e, con essa, la possibilità di essere fautrice del proprio destino.
In parallelo, all’altro capo del mondo, una serie di vicissitudini, sconvolgeranno l’agiata e ovattata esistenza di Eleonora che la porterà a mettere in discussione tutto il proprio vissuto. La sua decisione di partire per una missione in Tanzania, sarà una fuga dalla propria effimera ricchezza, alla ricerca di un ideale che vada a colmare il proprio vuoto interiore.
Assireni ed Eleonora; due donne che il destino non è riuscito a piegare. Quello stesso destino che le ha fatte avvicinare e le ha messe a confronto; tanto diverse per i loro trascorsi eppure, emotivamente, del tutto simili.
★★★★★
Il buon giorno si vede dal mattino, dicono, e un buon incipit e una copertina accattivante possono essere il perfetto bigliettino da visita di un libro.
Secondo voi, quante stelline si merita il biglietto da visita di questo libro?
Tutti i nostri incipit:
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