Gli scrittori della porta accanto

Stupri di Rimini, la violenza corre anche sul web

Stupri di Rimini, la violenza corre anche sul web - Credits Kristina Flour

Di Stefania Bergo. Lo stupro, come qualsiasi forma di violenza, è da condannare. Sempre. Ma c'è una forma di violenza che viene invece tollerata, perché finalizzata a veicolare messaggi diversi, spostando l'attenzione dalle vittime: la violenza dell'umiliazione mediatica.

Si calcola che circa il 35% delle donne di tutto il mondo abbia subito abusi sessuali almeno una volta nella vita (Violence against women: global health response). Vale a dire una donna su tre. Ovviamente i dati si riferiscono solo agli atti denunciati, cioè circa il 40%, mentre tutto il sottobosco delle violenze domestiche, etniche e della prostituzione non viene conteggiato, quindi, in realtà, queste statistiche lasciano un po' il tempo che trovano, a ben vedere. Ma sono un buon punto di partenza su cui riflettere.
C'è un "bel" potpourri di modi in cui si possa violare una donna che per una volta mette d'accordo e accomuna, sotto lo stesso putrido tetto, tutti i delinquenti che di questo crimine si macchiano, indipendentemente dalla provenienza geografica, credo religioso o estrazione sociale. Malgrado tutto, il 40% delle donne stuprate, dicevo, denuncia la violenza subita. Il che significa raccogliere i cocci di se stessa, andare oltre il dolore, l'umiliazione, la paura, il disgusto e trovare la forza di alzare la testa e la voce, avere il coraggio di raccontare e rivivere l'orrore, nella speranza che giustizia, almeno, venga fatta e che sia possibile andare oltre. Ma quasi sempre questo significa subire un ulteriore stupro, dall'ingiustizia penale alla gogna mediatica

La violenza mediatica sulle vittime di abusi sessuali: dai webeti sui social network ai sedicenti "giornalisti" della domenica.

I social media sono una fucina di aggressività, commista a ignoranza, che trascina nella gora della pochezza umana molti utenti. E questo non è certo una sorpresa, è solo un trasloco: dal bancone di un bar al web, passando attraverso uno schermo che spesso protegge l'identità del webete,  ne amplifica la voce e dà lo stesso senso di onnipotenza del branco, perché lo risparmia dall'affrontare vis-à-vis l'interlocutore, che a volte non è nemmeno definito perchè si tratta solo di parole scagliate a caso nell'etere, come quando si grida nella pioggia o affacciati su una vallata, così, tanto per sentire l'eco tornare indietro magari con un sonoro seguito di "ben detto", "hai ragione", "giustissimo", bravo-avo-avo-avo.
Esiste una nuova subdola categoria che, ahimè, non si perde tra i commenti di un post, ma può titolare in bella evidenza su una testata giornalistica nazionale la propria ignoranza o becera strumentalizzazione delle notizie: i "giornalisti".

La violenza mediatica sulle vittime di abusi sessuali: dai webeti sui social network ai sedicenti "giornalisti" della domenica.

Ovviamente mi riferisco agli ultimi fatti di cronaca, alla violenza perpetrata ai danni di un uomo, picchiato, e due donne, stuprate, la notte tra il 25 e il 26 agosto a Rimini. 

Sì, due donne. Ma della seconda non interessa molto ai "giornalisti" della domenica o agli haters, perché è solo una "trans peruviana", probabilmente una prostituta, quindi una che "se l'è andata a cercare", no? Stronzate! È una donna che ha subito una violenza. E come tale va trattata e considerata. Punto! Il resto, la nazionalità e la collocazione sociale, sono solo dettagli che i suddetti "giornalisti" trattano pure mettendo in evidenza l'ignoranza nell'affrontare gli argomenti, oltre ai pregiudizi e alla profondità morale tipica delle pozzanghere: "un trans", "una trans", come si dirà? Ma sì, che differenza fa?
Ma il meglio di sé lo ha dato una "giornalista" su Libero (non riporto di proposito il nome della giornalista perché la mia non vuole essere una mera gogna e mi rifiuto di linkare l'articolo per non contribuire a diffonderlo ulteriormente), che ha pubblicato il racconto dei verbali della deposizione della turista polacca stuprata sulla spiaggia, cui vorrei dare un nome inventato per rispetto, per renderla umana, come fosse qui davanti a me ora: Irina.
Irina ha raccolto, oltre al sangue e alla sabbia, i suoi brandelli, mettendo in un sacco nero l'umiliazione e le immagini che per sempre le resteranno impresse nella memoria, al pari delle ferite del corpo. E ha raccontato tutto alla polizia, come da prassi quando si denuncia un atto criminale, per definirne la gravità e quindi la durata della conseguente condanna in fase processuale. Mah, anche su questo avrei da ridire... Ma torniamo a Irina, che ha deposto davanti agli inquirenti con dovizia di particolari affidando loro le sue parole, magari pronunciate con un filo di voce, nella vergogna, o con determinazione e rabbia, per il dolore rinfrancato, confidando nel segreto d'ufficio che vige sulle procedure processuali. Non sono molto ferrata in materia giuridica, ma semplicemente mettendomi nei panni della vittima, con empatia, non credo proprio si aspettasse di veder scorrere i dettagli di quanto subito sulle testate giornalistiche italiane e mondiali. Se già è difficile ricominciare a vivere dopo una violenza, come è possibile farlo sotto la lente d'ingrandimento del web, la fiera delle belve? Ma questo alla "giornalista" non importa, ciò che conta è acchiappare consensi e strumentalizzare la notizia per secondi fini.

La rivoltante e irrispettosa strumentalizzazione mediatica (e politica) dello stupro di Rimini.

Irina è stata vittima di un branco di quattro criminali, tra cui tre minorenni, senza la minima umanità. E come tali vanno giudicati e condannati. Giada, un altro nome inventato, una ragazzina di 15 anni di Pimonte, vicino Napoli, è stata vittima di un altro branco di 12 criminali, tutti minorenni. Per quel che mi riguarda, da giudicare nello stesso identico modo.
Eppure, mentre per Irina, anzi, mi correggo, per il branco che ha violentato Irina, si è scatenato l'odio del web, una condanna a forconi levati al grido di "a morte tutti gli immigrati", Giada ha subito l'umiliazione di sentir "archiviato" il suo caso come una "bambinata" e lo slut-shaming sui social media, ad eccezione delle solite voci apolitiche che si indignano senza discriminazione, con rabbia, per ogni violenza ai danni di una donna.
Qual è la differenza?, anche se non dovrebbe esserci, perché sempre di stupro si tratta. Il branco che ha stuprato Irina è costituito da immigrati. Giada, per sua sfortuna, è stata stuprata da italiani.
Lo riscrivo perché non ci siano dubbi: condanno i quattro criminali che hanno sfogato su Irina tutta la loro violenza. Ma non in quanto immigrati, in quanto stupratori, appunto. Così come condanno i 12 ragazzini, senza sconto per la giovane età, che hanno abusato di Giada, per lo stesso motivo.
Detto questo, posso ora esprimere liberamente il mio pensiero, schiettamente personale, sull'indecente strumentalizzazione fatta da servili testate giornalistiche e infidi politici del caso di Irina. Era davvero necessario, per giudicare i suoi aggressori, conoscere i dettagli scabrosi di quanto le abbiano fatto, perpetrando la violenza su di lei, messa su un bancone da macellaio a disquisire su come sia stata penetrata? C'è forse un modo gentile di stuprare, più "umano" e tollerato, e uno invece "bestiale"? Esistono forse abusi, colpevoli e vittime di serie A e di serie B?
Per quanto mi riguarda, il mio verdetto l'ho emesso nel momento in cui è stata pronunciata la parola stupro, senza nemmeno guardare in faccia gli aggressori. A prescindere.

È chiaro che, in questo caso, l'eco maggiore sia stato quello dell'aperta questione sull'immigrazione, mentre la voce di Irina si sia persa nel fango dei commenti dei social network, più interessati a radere al suolo l'Africa pensando di "risolvere il problema" piuttosto che dimostrare empatia e rispetto per lei. 

Perché alla fine della vittima non ci interessa un gran che, vero? Altrimenti si parlerebbe anche dell'altra donna, quella peruviana, ricordate? Altrimenti si esulerebbe dall'odio razziale sapientemente istigato da chi si getta su certe notizie, quasi soddisfatto di aver nuova legna da mettere sul fuoco per alimentare una fiamma che non si estinguerà mai. Altrimenti avremmo gli stessi conati di vomito e la rabbia a portata di click di fronte alla storia di Giada o di fronte al triste primato dell'Italia nel turismo sessuale sui minori in Africa (sì, quella che vorremmo far implodere, giusto?), Caraibi e Sud America. Altrimenti non uscirebbero tanti "se l'è andata a cercare" tra i commenti ai post che raccontano l'ennesima violenza, o non lasceremmo correre, ormai assuefatti, davanti all'orrore dei ricorrenti femminicidi. Perché non si dovrebbe far distinzione tra bianchi e neri, tra stupri "gentili" e "bestiali". Perché una distinzione non c'è: sono tutti crimini da condannare.

La rivoltante e irrispettosa strumentalizzazione mediatica (e politica) dello stupro di Rimini.

E la strumentalizzazione continua. La frase è irripetibile, ma ormai la conosciamo tutti. Così come conosciamo chi l'abbia pronunciata. Un mediatore culturale. Immigrato.

Recita più o meno così: alle donne, in fondo in fondo, lo stupro piace, perché una volta avvenuta la penetrazione si calmano e diventa un rapporto sessuale come un altro. Godibile.
È rivoltante. È la sconfitta del genere umano, che di umano ormai non ha più nulla. Si potrebbe analizzarla e scardinare ogni implicazione sottesa da ogni singola lettera. Non importa chi l'abbia detto, se un camionista o un mediatore culturale, non importa come sia stato detto, usando i congiuntivi o con errori grammaticali, è rivoltante. È rivoltante che qualcuno abbia anche solo fatto questo pensiero, ancora, dopo millenni di evoluzione, dopo secoli dalla fine del Medioevo. Esprime una concezione del corpo della donna: un involucro di cui si può disporre come meglio si crede, per proprio diletto, con la presunzione di fare pure qualcosa di ammirevole e caritatevole, perché in fondo alla donna piace. Stronzate!
Ma, come donna, mi sento umiliata, devastata, e oltremodo arrabbiata per chi si indigna più per l'italiano non corretto della frase o per chi ne approfitta per iniziare l'ennesima berlinaspostando ancora una volta l'attenzione dalla tragicità del pensiero espresso. Non è una frase che va contestualizzata, è rivoltante a qualsiasi latitudine, per qualsiasi credo religioso o estrazione sociale o identità sessuale.
Così come è rivoltante il commento del sindaco di Pimonte, che ha giustificato i 12 ragazzini del branco definendo lo stupro di gruppo una "bambinata".
Nel primo caso il mediatore culturale, che di "culturale" non ha proprio nulla, malgrado le scuse per il commento scritto su Facebook, è stato giustamente (ripeto a scanso di equivoci, g i u s t a m e n t elicenziato e indagato per istigazione a delinquere, nel secondo caso mi risulta che il sindaco sieda ancora sulla sua comoda sedia (fatemi sapere se mi sbaglio, vi prego), perché le sue, di scuse, sono servite a nascondere la stessa istigazione a delinquere: abusare di una coetanea ci sta, no?, fa parte di quelle goliardate tra amici. Stronzate!

La cosa triste è, ancora una volta, lo sfruttamento della donna, dall'anima al corpo.

Per veicolare piacere sessuale, istinto violento represso, messaggi, idee, senso di inadeguatezza, desiderio di prevaricazione, insicurezza. Una donna viene violata e si disquisisce per prima cosa su chi sia lei, su come sia vestita, su come si sia comportata, su chi siano i suoi aguzzini. Solo dopo si decide da che parte stare. Il problema è, ahimè, molto più grave di una frase scritta su un social network. Il problema è la considerazione che il maschio (gli uomini sono altro) ha del genere femminile. Dal burka all'esposizione inappropriata per pubblicizzare pure le pomate per le emorroidi, la donna è un oggetto in pasto alle fiere, di cui si dispone, i tanti, troppi, subdoli modi. Da quelli che non sembrano tali ai più eclatanti. Un oggetto. Senza anima o intelletto. E se anche li avesse, non importerebbe, perché tutto si riduce sempre e comunque a quella parte anatomica che nemmeno un paio di gambe muscolose riescono a tenere al sicuro.
Non so quale sia il modo giusto per risolvere la questione, ma è chiaro che il problema vada risolto alla radice, prima che mieta vittime, non dopo, e la soluzione non può essere solo l'evirazione per i colpevoli o addirittura l'olocausto del genere maschile. La soluzione dovrebbe essere l'insegnamento del rispetto verso gli esseri umani, anche se biologicamente differenti per un piccolissimo cromosoma: X in luogo di Y. Un insegnamento che potrebbe iniziare da piccoli, ad esempio con l'educazione sessuale nelle scuole, senza stupida malizia, e proseguire con gli adolescenti che ormai si nutrono di social media, proponendo modelli femminili che non siano necessariamente, o almeno non solo, le signorine ignude e ammiccanti dei video musicali, o modelli maschili che non siano iteratamente possessivi, oppressivi, senza scrupoli ma dannatamente attraenti, come troppi personaggi di certa squallida letteratura new adult, tanto per fare qualche banale esempio. E magari far capire loro che le differenze tra maschi e femmine ci sono, è vero, ma questo non significa che un genere sia migliore di un altro o che debba prevaricare sull'altro e che gli stereotipi vanno sovvertiti, sono anacronistici. Tutti noi, donne e uomini (perché ce ne sono di "buoni", con la U maiuscola, fortunatamente), abbiamo il dovere di educare i nostri figli, le nuove generazioni, a una "sana" interazione sociale con l'altro, dando il buon esempio. Quello che diciamo e facciamo è molto più potente di qualsiasi stupidissima crociata sul web. Ricordiamo che c'è un tempo per parlare, sensibilizzare, e uno per stare in silenzio. E agire. Ma per favore, focalizziamoci sul problema senza perdere la rotta, che il problema è talmente grande da richiedere l'intervento di tutti noi. Qui l'immigrazione, in generale, non c'entra, è un discorso a parte. Qui si tratta di Umanità. Ritroviamola, vi prego. 



Stefania Bergo



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