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Speciale The week: l’estate africana

Speciale The week: l’estate africana

The week Di Argyros Singh. Uno speciale sugli eventi che hanno segnato la geopolitica e l'attualità africana nell'estate 2022: sei puntate dedicate a crisi interne e neocolonialismo.

Nello scorcio della fine dell’estate, ho voluto approfondire la situazione del continente africano, parlandone prima in termini generali e poi nello specifico, con l’osservazione di alcuni Stati chiave o in crisi. Mi muoverò con in mente il Geoschema per l’Africa delle Nazioni Unite, per suddividere l’analisi per macroaeree.
Il continente africano è tornato al centro del dibattito non solo mediterraneo, ma internazionale: vi si intrecciano interessi statunitensi, cinesi e russi, ma anche arabi, indiani ed europei. Il pericolo concreto di una nuova “spartizione dell’Africa” minaccia gli interessi dei popoli che la abitano, già colpiti da gravi problemi ambientali (desertificazione, siccità), economici (depauperamento del suolo, caccia alle risorse) e sociali (terrorismo, conflitto etnico).

  1. Il ministro degli Esteri russo in visita in Egitto, Etiopia, Uganda e Repubblica del Congo.
  2. Emmanuel Macron in visita in Camerun, Benin e Guinea-Bissau; Joe Biden e il vertice con i leader africani a Washington.
  3. L’espansione cinese in Africa.


1. Il ministro degli Esteri russo in visita in Egitto, Etiopia, Uganda e Repubblica del Congo.

A fine luglio, il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov è volato in Africa per visitare Egitto, Etiopia, Uganda e Repubblica del Congo. L’obiettivo del ministro era convincere quegli Stati che erano rimasti neutrali, nel conflitto in Ucraina, che la guerra del grano fosse provocata dagli ucraini e dai suoi alleati. L’Africa risulta particolarmente colpita su questo punto, poiché importa il 40% del grano da Russia e Ucraina. Lavrov, che in Europa porta avanti la propaganda sulla denazificazione, in Africa ha parlato di sostegno russo al completamento del processo di decolonizzazione. Anche in questo caso, la retorica nasconde una realtà ben diversa. Il caso delle operazioni del gruppo Wagner lo dimostra.

I mercenari del gruppo Wagnersono uno strumento del Cremlino per evitare ulteriori sanzioni e per non incorrere direttamente nei reati per crimini di guerra.

Wagner infatti è colpevole di torture e uccisioni indiscriminate di militari e civili. Gli Stati in cui operano con maggiore forza sono Libia, Mali, Mozambico, Repubblica Centrafricana e Sudan. Ma la lista è più lunga. Wagner – il cui nome è ispirato proprio al celebre compositore, il preferito di Hitler – era intervenuto anche in Europa, nella prima aggressione all’Ucraina (2014) e suoi effettivi stanno tuttora combattendo questa guerra.
In Africa, il gruppo sembra guidato da Yevgeny Prigozhin, noto come il “cuoco di Putin”, e sta ottenendo risultati soprattutto nella Repubblica Centrafricana, dove sostiene il presidente Faustin-Archange Touadéra, costituendo la sua guardia personale di uomini bianchi. In Sudan, il generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemmeti, è uno stretto collaboratore del regime e appartiene a Wagner: insieme a Lavrov a Mosca, è stato fotografato a fine febbraio, nei giorni dell’invasione ucraina. In Mali, la giunta golpista che governa il Paese ha preferito affidare la propria sicurezza ai mercenari russi anziché alla missione delle Nazioni Unite (MINUSMA) e a quella europea (Task Force Takuba).
Wagner non compie nulla in forma gratuita: le società di Prigozhin estraggono materie prime come oro, diamanti e petrolio, i cui ricavi vanno a sostenere la macchina bellica russa.

2. Emmanuel Macron in visita in Camerun, Benin e Guinea-Bissau; Joe Biden e il vertice con i leader africani a Washington.

L’Occidente non è rimasto a guardare: il presidente francese Emmanuel Macron è stato in visita in Camerun, Benin e Guinea-Bissau, mentre il presidente statunitense Joe Biden ha annunciato un vertice con i leader africani a Washington, dal 13 al 15 dicembre.
Il segretario di Stato statunitense, Antony Blinken, ha realizzato un viaggio nel continente due settimane dopo Lavrov. Blinken non ha parlato di contrapposizione con gli altri attori: gli Stati Uniti vogliono mostrarsi come cooperatori nel continente e il segretario ha parlato di promozione della democratizzazione, di sviluppo economico e di lotta al cambiamento climatico.

L’Occidente in generale vuole essere un partner affidabile su due temi sentiti dai governi africani: la lotta al terrorismo e il contrasto alla fame.

Lo jihadismo sta infatti avanzando dal Sahel al Golfo di Guinea e il fatto che la Russia sia il principale venditore di armi nel continente non aiuta certo a ridurre il rischio che queste armi finiscano in mano agli jihadisti. Sul secondo punto, Macron ha avanzato due proposte: il Food and Agriculture Resilience Mission (FARM), per i problemi alimentari contingenti, e la Global Business for Food Security, per sostenere l’agricoltura locale.

L’Europa si rivolge all’Africa anche per diversificare le sue importazioni di gas naturale e spezzare la dipendenza dalla Russia.

Già nel 2021 le importazioni dal continente si attestavano al 20% e sono ora destinate a crescere: resta però da vedere se l’incremento della produzione riuscirà a soddisfare tanto la domanda interna quanto l’esportazione. Inoltre, il gas africano dovrà competere con quello di Stati Uniti e Qatar, oltre che con le rinnovabili, dal momento che l’UE prevede un progressivo calo della domanda di gas dal 2030.
Riguardo all’Italia, nel 2021 il nostro Paese è stato il primo per importazioni di gas russo, circa il 40% del totale. I nuovi accordi con Paesi mediorientali e africani sta però cambiando la situazione, con l’obiettivo di renderci del tutto indipendenti dal gas russo entro il 2024. I principali accordi sono stati discussi con Qatar, Azerbaigian, Turchia, Egitto, Algeria e Congo. Non proprio nazioni che spiccano per democrazia, ma la necessità di diversificazione ha un doppio scopo già a medio termine: non solo rinunciare al ricatto della principale minaccia militare per l’Europa, ma anche potersi permettere, se necessario, di rinunciare a determinate importazioni.

L’attuale crisi energetica e alimentare genererà – secondo le previsioni – trentasei milioni di sfollati entro la fine dell’anno.

Solo una piccola parte ha lo status di rifugiato (10%) e una ancora minore è richiedente asilo (solo l’1%). Ciò ha già generato conflitti interni al continente, alimentati dai jihadisti e da forze esterne.
Nel frattempo, il generale Michael Langley, nuovo capo di AfriCom, il comando del Pentagono che copre il Medio Oriente, rimarca l’intenzione statunitense di voler dare nuovo corso all’impegno americano in Africa, proprio in contrasto all’espansionismo sino-russo. La lotta statunitense per mantenere lo storico controllo delle acque non si combatte dunque solo in Oriente, ma anche qui. Non a caso la Cina ha realizzato una base militare marittima a Gibuti, con l’obiettivo di controllare lo stretto di Bab el Mandeb, tra Corno d’Africa e Penisola arabica.

3. L’espansione cinese in Africa.

È il caso, allora, di spendere due parole sull’espansione cinese in Africa, che – come quella russa – si fonda su una sottile infowar, una guerra di informazioni che mira a far perdere sempre più la fiducia verso gli Occidentali. Pechino segue un suo modello di esportazione della propaganda, che passa anche attraverso la creazione di istituti.
A Kibaha, in Tanzania, è stata creata la prima Scuola di Partito Politico, che raccoglie diversi esponenti di partito di sei Paesi africani: oltre al Paese ospitante, Sudafrica, Mozambico, Angola, Namibia e Zimbabwe. La Tanzania era già stata influenzata dal maoismo e dal Partito Comunista a partire dagli anni Sessanta e, nel modello cinese, molti partecipanti alla scuola apprezzano lo sviluppo economico guidato dallo Stato e dal partito unico.

Di fatto, però, il soft power cinese nasconde una nuova versione del colonialismo in salsa asiatica, condito con le più becere distinzioni razziali.

In una scena di Racism for Sale, documentario della BBC diretto da Chiara Francavilla, un gruppo di bambini, in cambio di spiccioli, canta in cinese le seguenti parole: «Sono un mostro nero, il mio quoziente intellettivo è basso». Il video, realizzato dal cinese Lu Ke, è diventato virale e con altri video simili sta facendo affari nel suo Paese: concedendo un misero compenso, i cinesi possono ottenere messaggi di auguri o video personalizzati in cui compaiono i bambini africani. Una nuova pratica barbara che si aggiunge alla sempre maggiore abitudine dei cinesi di massacrare animali, anche all’interno dei parchi naturali, per ricavare le componenti utili alla medicina tradizionale cinese. A seguito della diffusione del documentario della BBC, il governo cinese ha preso le distanze dal fenomeno degli “auguri”, dicendosi addolorato e disgustato.



Il razzismo cinese sembra essere però piuttosto capillare.

Nell’estate dell’anno scorso, Sun Shujun, manager della miniera cinese di Rutsiro, in Ruanda, è stato condannato a venti anni di carcere, dopo aver seviziato con una corda un africano, legato a un palo per l’accusa di furto. E i casi si moltiplicano sul continente, in particolare in Uganda, Kenya, Zimbabwe e Repubblica Democratica del Congo: secondo il rapporto del Business and Human Rights Resource Center di Londra, tra il 2013 e il 2020 sono state registrate 181 accuse di violazioni dei diritti umani, legati a investimenti cinesi sul suolo africano. Manager e capitali cinesi non sono l’unica ondata che ha coinvolto il continente, perché anche la forza lavoro è cresciuta di centinaia di migliaia di unità, creando tensioni con le popolazioni locali. L’ambasciata cinese in Namibia ha persino pubblicato una guida su WeChat per spiegare ai connazionali come gestire le controversie salariali con i lavoratori africani, suggerendo di non minacciare il personale con armi da fuoco.

Il neocolonialismo assume anche un’altra forma, quella delle clausole di contratto.

Così la Cina potrebbe giocare sull’insolvenza degli Stati più poveri per pignorare i beni realizzati con i propri crediti, come successo in Asia allo Sri Lanka, il cui porto di Hambantota è ora in concessione ai cinesi per novantanove anni.
Cina, Russia e UE non sono comunque gli unici interessati al continente. In Tanzania, nazione in rapida crescita economica, stanno avendo un peso importante gli investimenti indiani, come dimostrato anche dai recenti incontri del Tanzania Investment Centre. Il governo nazionale sta ora lavorando per creare Export Processing Zones, aree industriali per trasformare i prodotti agricoli e minerari prima dell’esportazione. L’India sta investendo anche in Camerun, insieme a cinesi e turchi, e potrebbe forse rappresentare un’alternativa meno invasiva e più equa per gli africani. D’altra parte, i Turchi, dal braccio di ferro con la Russia per un controllo vantaggioso degli Stretti (Bosforo e Dardanelli) si stanno interessando sempre più al controllo del Mediterraneo orientale e delle acque che lambiscono la Penisola arabica e il Corno d’Africa.
Sulla situazione generale – energiaoltre.it e africarivista.it | Sugli interessi cinesi – rivistailmulino.it, africa24.it e gariwo.net | Sugli interessi russi – ispionline.it e formiche.net | Sugli interessi europei e italiani – nanopress.it e wired.it
Immagini © Stefania Bergo

Reportage: L'estate africana



Argyros Singh


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