Gli scrittori della porta accanto

Rileggendo Grandi speranze, di Charles Dickens

Rileggendo Grandi speranze, di Charles Dickens

Professione lettore Di Davide Dotto. Grandi speranze di Charles Dickens. Un romanzo in parte autobiografico, uscito a puntate tra il 1860 e il 1861 su All The Year Round, ambientato nella Londra a inizio del XIX secolo.

Può fare un certo effetto leggere oggi Grandi speranze. Uscito a puntate tra il 1860 e il 1861 nella rivista All The Year Round (diretta da Charles Dickens stesso), è ambientato nella Londra a inizio XIX secolo, quella delle prime fabbriche. Vi è molto di autobiografico, a partire dal momento in cui si dipanano gli eventi. Il 1812, quando incontriamo Philip Pirrip detto Pip, è infatti l’anno di nascita dello scrittore inglese.

Dickens proietta tra le pagine ansie, preoccupazioni, non mancano tracce del proprio vissuto e di episodi famigliari drammatici.

Che vivesse un periodo non sereno, lo capiamo dal resoconto che ne fa Peter Ackroyd nella biografia uscita qualche anno fa per Neri Pozza. È proprio a fine estate del 1860 che Dickens «cominciò a pensare a un nuovo libro, come se l’unica cura per la depressione fosse un ritorno al suo mondo immaginario».
Grandi speranze

Grandi speranze

di Charles Dickens
Einaudi
Classici
ISBN 978-8806222109
cartaceo 10,40€
Ebook 2,99

Grandi speranze è un romanzo realista, con un occhio attento alla condizione del proletariato e alla società borghese del tempo.

Si aggiunge una spiccata vocazione narrativa che lo rende un caso unico, di genere e di stile: cosa mai lega la misteriosa Miss Havisham («La più strana signora che abbia mai visto, e che si possa mai vedere») e il benefattore altrettanto misterioso di Pip? Una volta introdottosi nell'ambiente londinese, e pronto a realizzare aspirazioni che vanno oltre ogni dire, che rapporto mantiene Pip con il suo passato?
Di sicuro percepiamo in lui lo shock e le forti emozioni nel conoscere l'identità di chi l'ha riempito di sogni e di denari: Magwitch, il galeotto in catene che ha incontrato al cimitero quando aveva sui sette anni, e che ha sfamato trafugando cibarie dalla povera dispensa di casa. Rivelazione, questa, che non gli consente di rompere il legame con le proprie umili origini: i quattrini che spende e spande da gran signore nella opulenta società londinese derivano dal durissimo lavoro di un forzato in esilio. Difficile (far) digerire una cosa simile.

Per il fatto di occupare un certo posto nel mondo, vigono regole inflessibili: nessuno può seguire le "proprie inclinazioni", prevalgono altri codici, linguaggi, maniere e necessità.

Si lascia alle spalle la “lotta per la sopravvivenza” che si dava per scontato, e alla quale – bambino – ha risposto con l’atto di generosità che ha prodotto la riconoscenza imperitura di un forzato, non compresa fino in fondo.
Non è facile ridurre la distanza creata, o il disagio nei confronti di chi indietro è rimasto davvero, e che può influire sulle “grandi speranze” da concretizzare in una lotta del tutto diversa: quella che fa fruttare occasioni, opportunità e capitale (nuovi capi saldi).
Poi viene il momento che ti si presenta l’occasione favorevole. E tu l’afferri, le piombi addosso, ti fai il tuo capitale, ed eccoti arrivato! Una volta che ti sei fatto il capitale, non devi far altro che investirlo Charles Dickens, Grandi speranze (cap. XXII)
“Sopravvivere” a quel mondo richiede “distanza”, “distacco”, la pressante cura dei propri affari e un cuore di pietra; a queste condizioni diventa impensabile per Pip tornare sui suoi passi e riabbracciare una debolezza, una fragilità e soprattutto una sensibilità mai venute meno del tutto.

Cosa sono le “grandi speranze”? Quando nascono, in chi, e soprattutto in quale contesto? Questa la domanda giusta da porsi.

Pip da bambino dà per scontata la propria condizione, e altrettanto fa la sorella più grande, che l'ha cresciuto a suon di sganassoni, e aggiunge al resto la più rabbiosa delle rassegnazioni.
Oltre a ciò Pip, ricevuta tra le mani una notevole fortuna, la prima delle sue "speranze" è quella di poter essere finalmente "degno" di Estella. Impara a proprie spese però, che non bastano le buone occasioni, se ne possono avere di realistiche o fin troppo fantastiche, e possono andare deluse. Oppure, prima o poi si dovrà saldare un conto assai salato. In ogni caso ciascuno reagisce in modo diverso, secondo la maturità, lo spirito, gli intenti.
Sia Pip che Estella sono quello che qualcun altro ha voluto che fossero: «Io sono quella che mi avete fatto» dirà infatti la ragazza alla madre adottiva. Magwitch invece:
«E questo», disse, muovendomele su e giù mentre tirava boccate di fumo dalla pipa, «e questo è il signore che ho fatto io! Un vero e proprio signore! Mi fa un gran bene guardarti, Pip. Non chiedo altro che stare a guardarti, ragazzo mio!» Charles Dickens, Grandi speranze (cap. XL)

Pip ed Estella sono quasi dei manichini in mano altrui, non sembrano i veri protagonisti della storia. Non appartengono loro le "great expectations".

Da qualunque parte la si guardi, gioca una qualche fatalità, o una serie di cause fuori dalla portata dei protagonisti. Contro di esse si può poco, ma si rivelano fondamentali per giungere a un certo grado di consapevolezza, di sé, degli altri, e del proprio tempo. Per esempio si scopre la vanità di aspirazioni che a lungo andare diventano pretese, quando ci si fa strada a forza sacrificando il resto, fino a far concorrenza al narratore nel giocare con le altrui esistenze (nel bene e nel male), confezionando destini a tavolino.



In fondo Pip ed Estella sono il "prodotto" dell'esperimento sociale dei rispettivi "benefattori" che, nel sottrarli all'indigenza, muovono i principali meccanismi narrativi con alla regia Charles Dickens.

In forza di tale “ipotetico esperimento”, Estella e Pip bevono fino alla fine il calice di “grandi e false speranze”, spegnendo ogni illusione e rendendosi conto della realtà delle cose. Illusioni che sembrano divorare lo spirito, e persino l’amore che Pip manifesta per Estella. In fondo loro dovrebbero essere copie dei loro rispettivi benefattori (un angelo consolatore e un angelo vendicatore di torti).
Con queste premesse, lo spirito viene riposto in un cassetto, e anche la parte romantica è sacrificata a qualcos’altro, e i toni sono cupi, come gli ambienti e i contesti. A parte lo sfondo sociale, realistico, ben tratteggiato, il racconto assume un’alternanza di toni e tinte che tendono a trasbordare, come i colpi di scena che accentuano il carattere grottesco di una storia che – di puntata in puntata e di fascicolo in fascicolo – doveva tenere sulle spine il pubblico dei lettori.


Davide Dotto


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