Gli scrittori della porta accanto

Lettera aperta di Widad Tamimi: «Resistete alla paura, alla discriminazione, al pregiudizio»

Lettera aperta di Widad Tamimi: «resistete alla paura, alla discriminazione, al pregiudizio»

A cura di Ornella Nalon. Widad Tamimi, di madre ebrea e padre palestinese, autrice di Le rose del vento, in esclusiva per Gli scrittori della porta accanto: «Resistere alla paura richiede un atto di grande lucidità».

Un articolo apparso su un giornale, qualche giorno fa, mi ha molto incuriosita. Parlava di Widad Tamimi, una giovane autrice italiana con un vissuto interessante e delle origini decisamente particolari.
Sua madre è un’ebrea triestina di discendenza viennese la cui famiglia, con l'avvento dell'ideologia fascista, nel 1938 si è vista costretta all'espatrio, prima a Losanna, poi a Londra, dopo negli Stati Uniti d'America e infine, nel 1947 è riuscita a rientrare in Italia.
Il padre è un palestinese di Hebron, trasferitosi a Gerusalemme, ma costretto a fuggire per lo scoppio della guerra e a ritornare al suo paese natio. Nel 1967, anche la Palestina è coinvolta in un conflitto, che lo rende profugo per la seconda volta. Scappa ad Amman, in Giordania e poi arriva in Italia per studiare medicina.
Ed è proprio nel nostro paese che i due si sono incontrati, innamorati, sposati, mettendo al mondo due figli. La maggiore è Widad che si trova ad assorbire due diverse culture e a respirare l'aria della loro complessa e travagliata storia.

Widad Tamimi si è laureata in relazioni internazionali, con un master preso a Londra e in giurisprudenza.

Ora vive a Lubiana con il marito e due figli e presta servizio nei campi di accoglienza ai profughi nell’ambito del programma “Restoring Family Link” della Croce Rossa Slovena.
Come poteva non colpirmi la sua figura? Ho provato l'impulso di contattarla. E lei, dimostrandomi la sua natura disponibile, gentile e generosa, ci ha regalato uno scritto intenso, che, partendo dalla sfera privata, si è evoluto in una profonda considerazione dei nostri tempi per concludere con una esortazione che ha il valore di una lotta, ma senza l'uso della violenza.

Lettera aperta di Widad Tamimi per Gli Scrittori della Porta Accanto

Poche settimane fa, seduta sul divano con mio padre, durante una giornata calda e afosa di Ramadan, presi coraggio e formulai un pensiero che non osavo ammettere neppure a me stessa: «Sai, papà, mi vergogno a dirlo, ma per tutta la vita vedere un arabo, che ti somiglia, che mi ricorda la nostra famiglia, è stato per me motivo di commozione. Oggi non è più così, e gli occhi mi si riempiono di lacrime amare. Vengo presa, io che mi sento in parte araba, amo gli arabi e il mondo arabo, da una paura ingiusta e irrazionale».
Nel dirglielo, presi coscienza della necessità che avevo di trovare il suo perdono, e forse la mia stessa indulgenza, per la superficialità del mio pensiero. Scusa papà per la mia debolezza, scusa per i miei pregiudizi, scusa per il mio tradimento. Scusa, perché se persone come me si lasciano prendere dal panico, cosa succede a chi non conosce il mondo islamico?

Mio padre, già provato dal caldo e dal digiuno, sulle immagini dell’attacco terroristico di Dacca, mi è sembrato farsi pallido, ma niente affatto perplesso. «Sai, Widad, ho paura anche io.»

Mi sono sollevata per guardarlo dritto negli occhi, piena di stupore. Tutto mi sarei aspettata, tranne che quella ammissione. Eppure come stupirsene? Un arabo ha meno paura di morire o di perdere una persona cara in un attacco terroristico? Un musulmano rischia la vita meno di un non musulmano solo perché il terrorismo dei giorni nostri è portato avanti, si dice, in nome dell’Islam? A ben vedere, i luoghi del terrore sono per lo più concentrati in parti di mondo a maggioranza musulmana. È difficile fare una reale stima dell’appartenenza religiosa delle vittime del terrore islamico, ma è evidente che i musulmani sono, di fatto, i più colpiti.
Ricordo un uomo incontrato nel campo profughi di Dobova, in Slovenia. Lo incontrai subito dopo gli attacchi di Parigi. Lui, siriano di Raqqa, la capitale di Daesh, mi disse: «Siamo scappati dagli estremisti, e li ritroviamo qui».

Tra me e me ebbi un pensiero più pessimista del suo: qui trovi gli estremisti, ma anche i pregiudizi di chi è vittima della paura. E questo porterà al razzismo, e la vostra vita sarà schiacciata tra due condanne: il terrorismo da una parte, e la xenofobia dall’altra.

Mio fratello, proprio qualche anno fa, fu fermato all’aeroporto di Amman. Lo portarono in uno stanzino e lo interrogarono, sospettavano che si trattasse di un foreign fighter in partenza per la Siria. Italiano, giovane, con una folta barba scura e il nome arabo era un perfetto candidato a servire le fila dell’estremismo religioso. Dopo un primo attimo di smarrimento che quasi lo fece ridere, mio fratello, che non è certo un leone, ebbe paura. E faceva bene ad averne, se consideriamo quanto è facile ritrovarsi in un carcere di massima sicurezza, non solo in Medio Oriente – seppure siamo memori della recente ed orrenda storia di Giulio Regeni – ma anche in Occidente, dove, nonostante le promesse di chiusura di Guantanamo, la legislatura di Obama saluta il mondo senza un niente di fatto.

Resistere alla paura richiede un atto di grande lucidità, quantomai necessario.

Resistere al panico in nome di una sicurezza giusta, che non sottragga i diritti fondamentali su cui è fondata la nostra società, è necessario se vogliamo salvare i valori della nostra società. Non dobbiamo rinunciarvi.
Dobbiamo costruire alternative, bisogna investire in programmi di integrazione continuando a credere nelle libertà fondamentali dell’uomo, dobbiamo distinguere i responsabili dalle vittime, senza puntare il dito verso chi non ha commesso alcun reato.
Siamo davvero disposti a rinunciare ai principi creati in anni di lotte dure e sanguinose. Dobbiamo cercare unioni ed alleanze con coloro che pensiamo siano l’altro, perché il vero altro non esiste. Siamo noi, tutti noi, l’altro. Ma se uniamo gli intenti, se impariamo a comunicare, resistere sarà più facile.
Resistere, resistere, resistere – diceva qualcuno di molto saggio qualche anno fa, proprio in nome della legalità e della giustizia nel nostro paese. Resistere alla paura, resistere alla discriminazione, resistere al pregiudizio.
Widad Tamimi

Sinora, Widad ha scritto due libri: Il caffè delle donne pubblicato nel 2014 e Le rose del vento di quest'anno, entrambi editi da Mondadori. 

Ha voluto dedicare il suo ultimo romanzo alla storia della sua famiglia che ha vissuto sulla propria pelle il dolore della guerra e dell'intolleranza. Forse, tessendo la trama delle sue origini, Widad Tamimi ha scoperto un po' se stessa, ma quel che è certo, è che a noi ha regalato uno spaccato storico del nostro secolo che ci dovrebbe far capire molte cose e insegnarne altrettante.
Grazie Widad Tamimi.


Ornella Nalon


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