Arte Di Gianna Gambini La forza vitale di Ketty La Rocca, la difesa del suo essere donna in un’epoca in cui l’essenza femminile veniva repressa e sfruttata, una nuova lotta che troppe donne ancora oggi, non vincono.
La fine di un’immagine o l’immagine di una fine
Oppure
L’illusione di un’immagine
O l’immagine di un’illusione
Oppure
La fine dell’illusione di un’immagine
O la fine dell’immagine di un’illusione
Iniziamo dalla fine, iniziamo dalle ultime opere di Ketty la Rocca e dalle sue ultime parole. Giunte troppo presto, troppo in fretta, quando ancora la sua arte e la sua vita dovevano srotolarsi per le mille strade possibili. È così che ho conosciuto Ketty La Rocca, osservando le sue Craniologie, una serie di opere dure, dirette, universali, mascherate da un velo di intimità e soggettività.
All’età di 36 anni l’artista si ammala di un cancro al cervello e utilizza le radiografie del proprio cranio unite al negativo di fotografie delle proprie mani e dei pugni chiusi. Pugni chiusi in segno di lotta, di sfida, di rivoluzione, anche contro quel male invincibile che la porterà alla morte all’età di 38 anni.
La volontà di rompere gli schemi di lottare contro ciò che è imposto e universalmente riconosciuto, ha radici profonde nel passato di Ketty La Rocca, negli albori della sua attività artistica all’interno del Gruppo 70, un ensemble di artisti fiorentini che negli ultimi anni Sessanta, proponevano opere innovative e di rivolta in vari ambiti: la musica contemporanea, la pittura, la scultura, la poesia visiva.
Nata a La Spezia nel 1938, ma trasferitasi a Firenze per compiere gli studi al Conservatorio di Luigi Cherubini che lavorava nell’ambito della musica elettronica, stabilisce contatti con il Gruppo 70 e nel 1964 realizza i primi collages.
Sono interessanti lavori in cui l’artista reinterpreta in modo amaramente ironico i messaggi dei mass media e del crescente consumismo: due sono i filoni di indagini prediletti da Ketty, ovvero la condizione della donna, di cui l’immagine di donna perfetta, madre e moglie felice viene sfruttata in ambito pubblicitario, al fine di creare uno stereotipo che mal si confà alla realtà emergente dell’emancipazione femminile.In Vergine (1964) viene evidenziata la contraddizione tra il mito dell’illibatezza e la volontà di rendere il corpo femminile un oggetto di consumo, mentre in Sono felice (1965) denuncia la consuetudine di paragonare la donna ad un oggetto addetto alla manutenzione della vita quotidiana.
L’altro campo d’interesse dell’artista agli esordi è l’indagine sulla responsabilità politica e sociale di situazioni critiche che si verificavano nel mondo a lei contemporaneo, quali la guerra in Vietnam, la povertà in alcune zone del mondo, dovuta alla crescente ambizione imperialistica occidentale. Nel collage Bianco napalm (1967) denuncia apertamente il silenzio della Chiesa cattolica verso la feroce guerra che sta avendo luogo nel sud-est asiatico, unendo il bianco, simbolo di pace e di purezza, alla bomba incendiaria usata dagli eserciti statunitensi. In Sana come il pane quotidiano (1965) si uniscono in un’unica opera l’interesse verso la donna limitata dalla cultura cattolica italiana, ma esaltata nella sua immagine corporea, indiscutibilmente oggetto e obiettivo del messaggio consumistico e lo strapotere occidentale che rende difficile la sopravvivenza delle madri nel sud est asiatico e dei loro figli a cui non restano altro che povere ciotole di riso.
Dopo il 1968, si sciolse il Gruppo 70.
Ketty La Rocca, pur restando fedele alle tematiche a lei care, sviluppa un’arte personale, legata a doppio filo con il messaggio scritto, con il significante più che con il significato.Le mani, invece, divengono espressione di quello stesso significato perso dal messaggio scritto, comparendo nelle varie opere come mezzo di comunicazione esplicita e immediata.
La chiave di lettura sono le mani. Le mani. Le dita. Con le mani accarezzi, schiaffeggi, comunichi, parli, se non hai altri mezzi per farlo. E le mani all’interno delle craniografie sono un invito universale ad andare avanti. Non provare a dissuadermi dal seguire questa strada. So di cosa parlo: se una donna sbranata da un male come il suo, decide di palesarlo, non lo fa per autocommiserarsi. Sapeva che la sua fine era vicina, Ketty La Rocca, ne era pienamente consapevole. Non aveva senso il ripiegamento su di sé, ma aveva senso l’universalizzazione dell’ennesima faccia della femminilità, quella attraversata dal dolore.Nella serie dei Polittici una calligrafia particolarmente minuta contorna, con frasi non-sense, immagini iconografiche note, in cui la rappresentazione grafica originale cede il posto ai contorni ed alla parola scritta.
da "Equilibrio precario", di Gianna Gambini
Oggi alcune sue opere si trovano esposte al Museo Novecento di Firenze, mentre notizie sul Gruppo 70 e sull’opera di Ketty La Rocca sono reperibili nel volume La parola come immagine e come segno (Pacini Editore), curato dalla Prof.ssa Lucilla Saccà.
La forza vitale di Ketty La Rocca, quella spinta che lentamente veniva divorata dal male, combacia perfettamente con l’allentarsi della polemica politica nel Gruppo Settanta e con il dissolversi di un movimento a cui, peraltro, Ketty La Rocca ha preso parte soltanto marginalmente e con lo scopo di difendere il suo essere donna, in un’epoca in cui l’essenza femminile veniva repressa, ma al contempo sfruttata nella sua funzione pubblica. Non permettete, vi prego, che passi un messaggio sbagliato: le mani, le craniografie che le contenevano… Non si trattava di un egocentrico ripiegarsi su di sé, nessuna donna mostrerebbe con così poco pudore la sua imminente fine. Quella di Ketty è stata una nuova lotta, dalle dimensioni universali e in parte anche trascendentali, una lotta che troppe donne, nonostante il pugno duro, ancora oggi, non vincono. La fine di un’immagine e l’immagine di una fine. Ecco tutto.
da Equilibrio precario, di Gianna Gambini
Gianna Gambini |
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