Gli scrittori della porta accanto

I colori che non ho visto, un racconto di Gianna Gambini

La storia della mia vita è lunga, né più né meno di una notte senza fine. L’infinito è la sensazione che mi sfiora tutte le volte che mi fermo a pensare. Quanto più mi perdo dentro i meandri del mio essere, tanto più sento il bisogno di raccontare quello che ho passato, le mie percezioni, le sensazioni che mi invadono quando non posso dire neanche che per sfogarmi basta un foglio ed un po’ d’inchiostro. Non posso dirlo perché la mia penna non è altro che freddo punteruolo ed il mio foglio non è semplice cellulosa, ma qualcosa a metà tra la gomma e la plastica. Quello che resta dei miei pensieri sono solo puntini in rilievo, sono carezze fatte con le dita, sono simboli convenzionali.
In molti hanno tentato di spiegarmi che anche le loro parole, quelle nere, blu, rosse, sono solo segni, sono una convenzione, valida né più né meno delle mie frasi in rilievo: peccato che sono loro i primi a non crederci. Peccato che nel tono della loro voce percepisco la compassione ed il loro pormi, in partenza, su un piano inferiore. Dopotutto, per essere sullo stesso piano durante una conversazione, dobbiamo guardarci negli occhi ed io, questo, non posso proprio farlo.
Non posso guardare nei loro occhi, così come non potevo perdermi in quelli di Laura. Si guarda al passato (è un eufemismo dire si guarda, sarebbe forse più appropriato si annusa o si tocca) sempre con un nodo alla gola, ma se è vero che si ricordano solo sporadici momenti degli anni ormai persi, è anche vero che i nostri sensi sono più oggettivi nel giudicarli. E solo adesso mi rendo conto di come sono stato abile nel condannarmi ad essere solo; soltanto oggi, con il senno di poi, capisco quanto sia stato distruttivo chiudermi come un riccio, quando davanti a me si apriva una strada nuova.
Laura è stata una strada che non ho mai percorso e questa partenza, precipitata al decollo, la rimpiangerò per sempre. Si attraversano varie fasi nella vita e la parola sempre acquista varie melodie in corrispondenza ad esse: il mio sempre mi ha fatto paura fin da quando le maestre dell’asilo parlavano a noi bambini di stanze rosse, gialle e blu. Solo quando Laura era con me, sempre mi sembrava un lasso di tempo così breve, da voler mettere indietro le lancette dell’orologio, nell’illusione che la mia vita sarebbe stata più lunga. Lo stesso orologio l’ho sbattuto contro il muro una settimana fa: mi ero stancato di sentire una voce metallica che si prendeva gioco di me, fingendo di dirmi l’ora.
Non saprei dire quando è iniziata la mia storia con lei, intendo dire con Laura: è stata una scala di emozioni sempre più forti a partire dal nostro incontro ad una festa di famiglia, dove tutti dicono «Che bel ragazzo che sei!» e pensano “Se solo ci vedesse!” Mi ero fatto accompagnare in una panchina del giardino e lì partii per un lungo viaggio. Se una fortuna c’è, nell’essere non vedente, è che per partire non c’è bisogno di un aereo o di un treno, basta la fantasia: il luogo in cui ero immerso aveva un forte odore di pini selvatici e l’aria gelida di una fine d’estate nella valle Aurina. Proprio quando ero atterrato a quattrocento chilometri da qui, la voce di Laura mi fece trasalire. La mia sorpresa nello scoprirla vicino a me, non fu dovuta soltanto al fatto che non l’avevo sentita arrivare, ma soprattutto alle sue parole: «E’ stupendo il profumo di pino che c’è in questo angolo di paradiso, non trovi?». Il fatto che avesse colto proprio l’odore di quel luogo, che non si fosse soffermata su un particolare che non avrei potuto condividere con lei, come il verde degli alberi o l’azzurro del cielo, mi convinse che quella voce mi apparteneva.
Mi fu sufficiente la sua voce per capire la sua fisicità, mi bastò il suo odore per vedere la sua pelle e quando si adagiò accanto a me, sfiorandomi la gamba, capii che non era un problema che i miei occhi vedessero o meno, ero già dentro di lei. Mi prese per mano, mangiammo insieme, bevemmo qualcosa e ridemmo, ridemmo così tanto da avere gli angoli delle labbra indolenziti.
Di giorni così ne passarono molti: non ci fu mai niente tra di noi, solo un bacio sulla guancia, che Laura mi dava per salutarmi e qualche carezza, caduta per sbaglio sulle nostre lunghe conversazioni. Mi sentivo al centro di un arcobaleno, perché con Laura erano miei anche i colori che non avevo mai visto.

Vennero agosto, le zanzare, il caldo e poi le prime piogge con l’odore di terra bagnata ed il cinguettio dei passerotti che torna, scacciando il garrire delle rondini. Iniziarono le uscite serali di mia madre per il bridge e Laura tornò in camera mia. L’odore della sua pelle non era quello delle altre sere e le sue labbra fresche non si accostarono alla mia guancia, anche la sua voce aveva uno strano tremito: il fiume di parole con cui la travolsi, parve schiantarsi contro un muro di monosillabi. C’era elettricità nell’aria, come quando sta per scatenarsi un temporale improvviso. Laura prese le mie mani, mi alzai ed i nostri corpi furono troppo vicini per allontanarsi; condusse la mia mano sul suo seno. «Cosa senti?» Mi disse. «Un cuore», risposi. Un cuore che batteva, forte. Per un attimo ebbi l’illusione che la felicità fosse racchiusa in quel calore che Laura mi trasmetteva.
Mi insegnò a baciare, a dare vita ai miei sentimenti, mi spiegò le regole del gioco dell’amore e io, bambino curioso, seguii le sue istruzioni. Quei momenti sono tutti nella mia testa: il suo profumo, il sapore dolce della sua pelle, i suoi sussurri e le sue parole, soprattutto la sua voce, così come la ricordo quando uscì dalla mia stanza: «Grazie, perché le tue carezze mi hanno reso la fiducia ed i tuoi occhi mi hanno aperto il mondo: ho imparato a sentire.»
La porta si chiuse ed io non ho mai fatto niente per aprirla di nuovo: non si può correggere la perfezione. Non le ho mai scritto una lettera, non avrebbe saputo leggerla. Non le ho mai telefonato, non avrei riconosciuto la sua voce. Non l’ho cercata per dirle una parola, anche un bisbiglio sarebbe stato di troppo. So soltanto che, se prima erano i miei occhi a non vederci, oggi anche il mio cuore è fatto cieco e sordo a quel brulicare di vita che mi circola intorno; l’istante di onnipotenza che mi aveva sfiorato in quella lontana sera tra i pini selvatici, si è trasformato in eterno sconforto.



Gianna Gambini


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