Gli scrittori della porta accanto

Venuta al mondo, racconto di Stefania Bergo

Venuta al mondo, racconto di Stefania Bergo

Inediti d'autore Racconto di Stefania Bergo. Venuta al mondo: la nascita di una bimba prematura in una calda notte d'estate, le emozioni intense di una madre.

Un sabato sera.
Una calda serata di fine giugno. Con i piedi nella sabbia, seduta sul mio kikoi rosso, aspetto l’inizio... ma non so ancora di cosa.
Penso al concerto reggae.
Aspetto.
E intanto accarezzo la mia pancia silenziosa.
Aspetto.
Eppure tutto ha già avuto inizio...

Mi alzo piano, sentendo un inspiegabile calore umido scendere lungo le gambe. Attraverso la spiaggia che si sta riempiendo nella penombra del tiepido imbrunire estivo. Minuti che sembrano ore, mentre nella testa mi interrogo su quel calore umido dandomi infinite, assurde risposte. Sempre senza guardare, fingendomi disinvolta. Attendendo pure il mio turno prima di entrare in bagno. Sempre senza guardare. Atterrita dalla verità.
Entro in apnea, quasi ad occhi chiusi.
E poi vedo il rosso sui miei pantaloni bianchi. Quella verità temuta, il rumore dei mille cocci della mia vita andata in frantumi ancora una volta. Il disperato senso di vuoto per il sogno sfumato.

Sono le 20:45 e io salgo sull’ambulanza, riuscendo appena ad informare i miei genitori prima di piangere.

Coricata sulla barella, sento l’autista chiamare l’ospedale: "emorragia", "32-esima settimana di gravidanza"...
Un viaggio che sembra lungo mille anni. Eppure sono passati solo dieci minuti, quando entro al prontosoccorso per la registrazione dei miei dati.
«Il suo codice fiscale, signora?»
Cos’è un codice fiscale? Cosa sta succedendo? A chi? Perché?
Entro nella sala visita. Piccola, stretta. Devono spostare il lettino per far entrare la barella e visitarmi. Mi sfilo i pantaloni ormai completamente rossi. E già il ginecologo emette il suo verdetto.
«Come pensavo.»
Cioè, che pensavi? Dimmelo!
Nel monitor si vede il cuoricino di Emma. Batte come sempre, forse lei non si è ancora accorta di nulla.

Alle 21:05 entro in sala operatoria... E ancora non so il perché.

Devo partorire. Ma come faccio? Non ho le doglie, non sono pronta, non siamo pronte!
«Emma è piccola, non può nascere ora!»
Ma Emma deve nascere ora, o non nascerà mai…

Sono le 21:10. 

Chiamo Alessandro, che è dall'altra parte dell'Italia, mentre un numero imprecisato di infermiere sbucate dal nulla mi sveste, mi tinge di iodio, mi sfila le cavigliere.
«La fanno nascere adesso.»
L’anestesista mi chiede se ho mangiato, cosa, quanto pesavo prima della gravidanza.
«Sì. Un panino con la salsiccia. 55.»
Il chirurgo è già pronto, ma io non dormo ancora. E sento il mio telefono che squilla in lontananza mentre un’altra infermiera porta fuori la mia borsa turchese dalla sala.
Mi iniettano qualcosa nel braccio.
E l’ultima cosa che ricordo sono le mie lacrime…

Emma nasce alle 22:25. 

Piange subito, quasi a sfidare la vita. Intubata dopo venti minuti dalla nascita, la portano in un altro ospedale, attrezzato.
Il mio primo pensiero, mentre mi conducono in rianimazione e mi infilano un grappolo di tubicini nelle braccia subito dopo il parto, è che lei possa sentirsi sola senza la sua mamma. E solo dopo chiedo come sta, che le hanno fatto.
Mi sento svuotata in un istante.
Svuotata di tutto ciò che di bello c’era in me.
Eppure, la mia Emma è viva.

Ore 6:05.

Mi sveglio la domenica mattina ancora intontita dall’anestesia.
Nel mio box di Terapia Intensiva si susseguono decine di infermieri per controllare i miei parametri vitali. Ad ognuno di loro chiedo notizie di Emma e quando potrò uscire dall’ospedale per andare da lei.
Sola. Così lontano dalla sua mamma.
Il primario chiama personalmente l’altro ospedale per sapere come sta la mia bambina. Gli rispondono che è fuori pericolo ma si riservano di fare dei pronostici solo dopo cinque giorni.
È intubata, la aiutano a respirare perché i suoi polmoni sono ancora troppo piccoli. Lei è tutta troppo piccola, penso. E poi è sola. Il pensiero mi ossessiona, mi ferisce. Ma devo attendere…

Ore 8:30.

Chiedo ai miei di andare a trovare Emma, di dirle che la mamma arriva presto, di vedere come sta… Com’è. Io non l’ho ancora vista e non riesco a darmi pace.
Piango e guardo l’orologio ogni minuto cercando di dare una spinta al tempo e farlo correre più in fretta.
Attendo anche Alessandro, che sta arrivando da lontano con i suoi genitori.
Attendo e non posso fare nulla, inchiodata al mio letto.

Alle 18:00 finalmente i miei possono entrare a farmi visita.

«Come sta Emma, com’è? È triste? Cosa le fanno là?»
Un turbinio di domande e di pensieri che sgorgano come acqua da una botte troppo piena.
«Emma è bellissima, sembra una bambolina! È grande, è nata di quasi due chili. Sta bene e là sono bravissimi, la trattano bene, con dolcezza sta tranquilla…»
E il pianto diventa consolatorio, non più d’ansia, d’incognita.

Dormo a tratti.
Apro gli occhi e guardo l’orologio. Il tempo avanza di soli cinque minuti alla volta, eppure sembrano secoli.
Il ginecologo che mi ha operato passa a visitarmi. La ferita mi duole, ma è pulita. Gli stringo una mano e lo ringrazio per aver salvato la vita della mia bambina... E la mia. E banalmente piango, come se non sapessi far altro.

Alessandro è ancora bloccato in autostrada per il primo grande esodo d’estate. Sono le 18:30.

Arriva che sono ormai passate le otto.
Corre da Emma, sperando di arrivare in tempo per conoscerla e scattare qualche foto per me, che ancora non l’ho vista. Il traffico si mette contro di lui, ancora una volta.
Quando arriva, incontra un’infermiera che sta iniziando il suo turno in neonatologia proprio in quel momento e lo fa entrare.

Sono ormai le 22:00… Ed Emma sta per conoscere il suo papà…

Passo un’altra notte in Terapia Intensiva.
Mi sveglio alle cinque e non riesco più a dormire.
Aspetto con ansia di essere trasferita in reparto e di vedere arrivare Alessandro e le sue foto preziose. Voglio vedere la mia bambina, ne ho bisogno. Ma il tempo riesce a rallentare ancora di più, fino alla stasi.
Mi fanno salire in reparto, finalmente, all’ora di pranzo. Subito dopo, l’orario di visita.
Bene. Ma nessuno arriva e l’attesa mi innervosisce. Che aspettano? Sono stanca di aspettare io!
E dallo stipite della porta della mia stanza sbuca un enorme mazzo di fiori colorato come coriandoli a carnevale.
«Aveva fretta di uscire la nostra rasta Emma!»
Mi abbraccia forte, ma tenero. E mi culla un po’ il cuore che finalmente respira lento e riposa dall’affanno. Sono felice di vederlo. Inaspettatamente felice. Mi mostra la coccarda di Emma, quella da appendere alla porta per far vedere al mondo quanto siamo fortunati ad aver avuto una bambina. È rosa, con le code gialle, rosse e verdi.
E poi mi porge la fotocamera... O forse gliela strappo dalle mani.
Che emozione, mia figlia!
Ho quasi paura a guardare.
«Com’è?» gli chiedo prima ancora di vederla. Tutt'a un tratto ho quasi timore di guardare queste foto così tanto attese.
Lui sorride.
E finalmente, ecco... Emma, con i tubicini nel naso e nella gola e il berretto di lana rosa. Piango, più dentro di me, che fuori. Ormai non ho più lacrime.
«E bellissima!»
«Sì...»
Rimane con me un’ora e poi torna da Emma, mentre io mi devo trattenere ancora un giorno in ospedale.

È martedì, ormai. Il 29 giugno. 

Mia figlia è nata tre giorni fa e io non ne conosco ancora l’odore.

È incredibile come la mente si possa incanalare in vorticosi loop e non uscirne, senza nemmeno rendersi conto di essere in trappola. Emma. Emma. Non penso ad altro, non esco dal labirinto.
Durante il giro visite del mattino il primario mi dice che finalmente mi dimettono. Prima del previsto. Ma anche lui sa che io devo andare da mia figlia.
Arriva anche Alessandro e insieme aspettiamo la lettera di dimissioni mangiando lo stracchino e il finto purè del mio pranzo.
Mi liberano in tarda mattinata.
E dopo una breve sosta a casa, ci mettiamo in macchina sotto il sole della più calda settimana di giugno e dell’intera estate, forse. Come possono così tante macchine percorrere tutte la stessa strada? Perché non vi spostate?
Arriviamo.
Attraverso piano l’ospedale. Sento i punti metallici tirare la pelle. Mi duole, ma fingo di non sentire male. Non voglio fermarmi o aspettare di star meglio. Emma ha un tubicino nella gola e ha solo tre giorni. Io posso benissimo sopportare un po’ di fastidio alla pancia.
In ascensore cerco di stemperare la mia ansia tra le braccia di Ale.
«Sono emozionata...»
«Come si fa a non esserlo?»
Chissà che avrà provato lui, la prima volta che ha visto sua figlia. Lì, da solo, senza qualcuno che potesse documentare le sue emozioni. Non lo saprò mai, nessuno lo saprà mai.
Arriviamo in Neonatologia. Alessandro mi fa vedere come indossare il camice e lavarmi le mani.
Ed entriamo nella stanza delle incubatrici. Una, due, tre... Cinque incubatrici.
E nella prima a sinistra, dorme Emma.
Alessandro solleva la copertina che la tiene in penombra come aprisse un sipario su un palcoscenico.
Ed eccola lì, la prima attrice.
Con il suo cappellino di lana rosa. Grande. Anzi, no, è la testolina che è piccola. È tutta piccola. Una bambolina.
Bellissima.
La osservo in silenzio, percorrendo una linea continua dal viso ai piedini, avanti e indietro, almeno cinque volte, come se l’accarezzassi con lo sguardo.
Il cuore mi batte talmente forte che potrebbero benissimo sentirlo anche fuori. La contemplo con riverenza, trattenendo il respiro, mi pare impossibile sia uscita da me.
Mi sento felice ed affranta, osservando i tubi che entrano nel suo corpicino. Uno nel naso, uno nella bocca, uno nella pancia dall’ombelico.
La aiutano a respirare, a mangiare. Perché lei non lo sa fare ancora da sola. È piccola. Doveva pensarci ancora la sua mamma a nutrirla e darle ossigeno, senza fatica. Invece è tutto così difficile per lei. Anche respirare, che dovrebbe essere semplice.
Apro lo sportello dell’incubatrice e allungo una mano appena tremante.
E finalmente posso accarezzare la mia bambina…
Da Storie inventate in un giorno di pioggia


Stefania Bergo


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