Gli scrittori della porta accanto

[La ricompensa è il viaggio] L'editoriale di Tiziana Viganò: madri di zucchero bruciato, donne da Haiti ai batey della Repubblica Dominicana

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Davanti al mio obiettivo si mettono in posa e sorridono.
Non importa il vestito logoro, non importa la pettinatura improbabile, neppure lo sfondo della casetta o della baracca di legno pericolante. Essere fotografate le riempie d’orgoglio, mi sto interessando a loro.
Pelle giovane, di mille sfumature di cioccolata, dal fondente al latte più chiaro, è liscia e stranamente asciutta sotto il calore allucinante che fa scoppiare i pori della nostra pelle bianca.
Pelle nera con rughe feroci, gonfia di mille pene, sculture di una storia: solo quaranta anni, sudati sangue.
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I capelli neri e crespi vengono sempre domati e stretti in mille forme fantasiose: le bambine sono splendide coi loro codini, treccine, rotolini, rasta, pieni di perline e nastri colorati, le donne hanno una vera mania per unghie e capelli, ma certe madri hanno poco tempo per sé, o farse non hanno troppa voglia di curarsi, si accomodano una retina e via. Come se lo stato dei capelli parlasse della loro vita.
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Sono gli occhi che colpiscono fino in fondo al cuore: con la forma a mandorla delle antilopi e con la rima nera non hanno bisogno di trucco per essere bellissimi, dolci e miti, arrendevoli e rassegnati.
Le donne giovani hanno occhi che sorridono, c’è ancora speranza e voglia di vivere; nelle altre gli anni hanno segnato profondamente il volto con solchi d’aratro, hanno tolto luce agli occhi che si stringono, si difendono, a volte c’è un vuoto, a volte un’emozione indefinibile... quale sarà il film che scorre in quel momento nella loro mente... una vita durissima, fatta di dolore e di precarietà, di ferro e di fuoco, di soprusi e di violenze, di sottomissione e di privazione.
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Le braccia sorreggono il corpo dei loro bambini, il gesto naturale delle mamme di tutto il mondo, ma non sempre lo circondano per proteggerlo, forse sanno che è inutile, o forse sanno di non esserne capaci: il mondo è troppo forte per loro. I bambini hanno forme rotonde, come tutti i cuccioli, ma la pancia troppo gonfia dice molte cose sulla malnutrizione. Qualche bambino siede solo e nudo sul terreno polveroso e sporco, non lontano dalla spazzatura e si succhia le dita, altri corrono e si rotolano per terra, giocano senza giocattoli, gridano, ridono, come tutti i bambini del mondo. L’occhio della comunità li segue, senza preoccuparsi troppo. Le madri con occhi smarriti si chiedono cosa metteranno in pentola per i loro figli, dove troveranno di che sfamarli.
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E sorridono ancora, ma nel profondo di quella luce che illumina le loro facce nere c’è un’ombra di dolore composto che lo rende amaramente dolce.


Le foto che ho scattato alle donne e ai bambini sono sul desktop illuminato: quelle facce nere mi guardano e io guardo le loro espressioni, le forme e i colori, gli sfondi con le baracche, le casette e i muri scrostati. Dov’è la rigogliosa natura caraibica dei nostri sogni di europei? Solo in una foto compare un gigantesco fiore di banana che grava sulla testa di Helena, come una lancia, come una spada di Damocle: inconsciamente ho escluso la natura in queste foto, ma ho trovato questo simbolo forte della sua vita e di quella di altre che mi hanno raccontato la loro storia. Sento ancora le loro voci, chiare o rauche, sempre pacate, sussurrate, dai toni molto bassi, nella loro lingua un po’ strana che suona come un fattore di ulteriore diversità dal contesto sociale dove la sorte le ha scaraventate...
Essere donne è difficile, sempre, ma ci sono luoghi nel mondo dove è sempre guerra, anche senza spari e bombe. Qui, in un paese della grande America, si perpetua una realtà che noi europei pensiamo finita per sempre o possibile solo in alcuni luoghi lontani dell’Africa o dell’India profonda: lo schiavismo esiste ancora, incatena esseri umani, violenta i loro diritti prendendosi gioco delle leggi internazionali, firmate a tavolino lontano dai luoghi dove si consuma e si corrode la vita reale sull’altare del denaro.
Donne più che vulnerabili ed esposte in una società maschilista e retriva, che castra lo sviluppo personale, a volte anche mentale, nega autonomia per la cronica mancanza di lavoro, condanna le donne alla dipendenza e alla sottomissione a un uomo. Adolescenti già incinte, partoriscono figli troppo spesso abbandonati, subiscono violenze, vedono nella prostituzione una delle poche soluzioni per garantirsi un pasto al giorno. La fame, oscena.
Se in Europa si parla di pari opportunità, di diritti, di libertà, ci sono paesi in cui la speranza è solo un filo di luce che si intravede in una oscurità che sembra non poter mai essere squarciata, ci si può aggrappare a quel filo immateriale ed essere sempre a terra. Eppure si può sorridere ancora, nonostante tutto.

Il terremoto ha sterminato la sua famiglia e così è fuggita dall’inferno e dall’atroce miseria di Haiti con una figlia di pochi mesi tra le braccia. Loucette ha un corpo e un viso da adolescente con i suoi 38 anni, ma nella sua vita ha passato dolori e traumi che schianterebbero chiunque. Eppure è tranquilla, sorridente, gentile, parla piano e si muove con grazia sgusciando tra la gente, quasi volesse rendersi invisibile.
“Sono viva, non sono malata, riesco a fare qualche lavoretto e comprare da mangiare per me e mia figlia. Sono felice. Certo, quando lavoravo negli hotel ero più contenta, ma con la legge sulle migrazioni mi hanno licenziata perché non avevo i documenti in regola. Non ho più potuto lavorare, solo saltuariamente, ma ora ho trovato due signore italiane da cui vado per fare le pulizie, dicono che sono brava e mi vogliono bene: mi danno sempre qualcosa da mangiare, mi pagano. Avevo un uomo, ma mi ha abbandonata quando ero incinta: ho partorito nel batey perché non potevo andare in ospedale senza documenti, ho avuto tanta febbre e il bambino è morto subito dopo. Sono viva per miracolo, ancora una volta, dopo il terremoto”.

Elisee è una donna giovane, ha un bel viso dove tutto è rotondo e un sorriso mite che si apre sui denti bianchi.
“Dieci anni fa sono venuta via da Haiti, avevo diciott’anni, e lasciavo il mio bambino di due anni alla nonna, non potevo portarlo con me alla ricerca di una nuova vita. A Barahona ho incontrato mio marito e abbiamo avuto due figli, ma il lavoro precario ci ha spinti a migrare di nuovo a San Pedro de Macorìs. Ora viviamo in un batey, in una baracca di legno che ho dipinto di rosa, per distinguerla da tutte le altre, azzurre e verdi, ed è nato un altro figlio: ora ho due maschi di 7 e 5 anni e una bambina di 6 mesi e il nostro sogno più grande è avere una casa migliore, vorremmo risparmiare per questo, ma il lavoro manca. Io non ho neppure i soldi per dar da mangiare ai miei figli, per fortuna i due grandi vanno a scuola e hanno il pranzo e la merenda assicurati, ma la piccola piange, non so che fare. Noi grandi possiamo soffrire la fame, ma i bambini no, non è giusto, loro non capiscono perché. E poi sono ammalati, i due grandi di asma, la piccola ha sempre la tosse e il raffreddore... mi mancano i soldi anche per le medicine. Mio marito non lavora più nei campi di canna, io vorrei cucinare e vendere cibo cotto ai lavoratori ma è tutto così difficile... devo lottare per i miei figli, per la loro fame di oggi e il loro futuro domani, la loro vita deve migliorare. Spero di riuscire ad ottenere presto le carte d’identità... con quelle sento che tutto potrà cambiare”.

Helena mi racconta una storia inquietante come la religione vudù che gli haitiani praticano da sempre, da quando sono sbarcati a Hispaniola strappati dalla madre Africa.
“Un cane rosso come il diavolo, con i denti sanguinanti, mi rincorreva nel sogno per divorarmi, pensavo di morire sempre, tutte le notti. Baron Samedi, il loa dei cimiteri, era pronto a strapparmi dalla terra per buttarmi nel regno dei morti: nemmeno Erzuli, la loa che invocavo, madre, spirito delle acque profonde, dell’amore e dei sogni riusciva a salvarmi. Ho cercato invano un rifugio, poi ho incontrato un pastore, lui mi ha spiegato che potevo credere in una salvezza e ho trovato un Dio che ha scacciato il demonio. Sono tranquilla ora, ma devo lavorare duramente, per fortuna mio marito sta con me e mi aiuta, abbiamo undici figli: quelli più grandi non hanno un lavoro stabile, uno solo taglia la canna nella stagione del raccolto, sei sono ancora piccoli e dobbiamo sfamarli. Prego Dio che mio marito rimanga con me”.

“Mi chiamo Cecilia ho 27 anni e non ho un cognome, né sono registrata all’anagrafe. Il mio papà venne da Haiti quando era piccolo, lavorava, ma quando avevo solo tre mesi morì, quindici giorni dopo che era morta anche la mamma. Sono cresciuta con la zia e non mi è mai mancato nulla. Quando il marito di mia zia si separò non potei più usare il suo cognome e neppure quello di mio padre, non sapevo neppure come si chiamava perché non ha mai avuto documenti.
Compiuti sette anni la zia, che doveva lavorare, mi lasciò in un batey con una conoscente, ma poi tornò a prendermi e mi portò con sé a La Romana, dove finii la scuola fina all’ottava classe. Mi hanno detto che mio padre ha avuto un’altra figlia, ma non so dove si trovano... e anch’io ora vivo sola, con mia figlia di quasi due anni... suo padre non sa che è nata, è emigrato in Cile.
Mi sento perduta: non ho documenti, non posso registrare mia figlia all’anagrafe, non so neppure dove sono sepolti i miei genitori che non avevano documenti, così come non ha documenti neppure mia zia....siamo tutti clandestini, irregolari, anche se da due generazioni viviamo e lavoriamo in Repubblica Dominicana. E’ una situazione terribile. Sto facendo di tutto per migliorare la mia vita,ma senza documenti posso solo fare lavori saltuari, curo bambini, faccio pulizie, cucino: ho fatto un corso per estetista e per elettricista, voglio imparare altre cose per poter lavorare, ma se non mi danno i documenti non posso aver un impiego fisso e rischio di essere deportata ad Haiti, una terra che non ho mai visto....La mia vita è così difficile.....”

Phelicia è una giovane di 24 anni che a soli 15 anni aveva già partorito due figli, lasciati ad Haiti con la nonna per migrare oltre il confine dominicano.
“Io so solo che voglio cambiare vita, entro tre anni sarò a Miami”.
Non sa come potrà realizzare il suo irrealizzabile sogno: non ha carta d’identità, è analfabeta, parla solo creolo, neppure lo spagnolo e non sa l’inglese, non ha soldi né riesce a lavorare, ora ha un altro figlio di 7 mesi da un marito da cui è completamente dipendente.
E’ incapace di un progetto realistico, ma il suo sogno la aiuta a campare.

Quinta di cinque figli che sono cresciuti sparsi in varie famiglie, Lala fu cresciuta da sua nonna, senza poter andare a scuola per mancanza di carta d’identità, pulendo case e lavorando in campagna.
“Sono madre di sette figli, due sono stati dichiarati figli di mia sorella, ma gli altri non hanno documenti. Così non ho potuto iscriverli a scuola. Sono molto triste perché non voglio che abbiano tanti problemi come quelli che ho avuto io nella vita. Ora una mia figlia è incinta e non potrà dichiarare suo figlio all’anagrafe... 
E’ dal 2012 che ho cominciato a chiedere i documenti, ma la mia richiesta venne persa, e nonostante continuassi a chiedere notizie, nessuno sapeva dirmi nulla: chiesi aiuto all’associazione Ascala che mi ha aiutato, però sto ancora aspettando la risposta del Ministero e sono passati sei mesi. 
Non ho niente che mi identifichi come persona, non sono niente, non esisto: e il lavoro è sempre precario, la legge dice che non posso lavorare senza documenti. Finirà mai questa situazione?”


di Tiziana Viganò
Le idee migliori per scrivere, gli incipit e i finali si insinuano nella mia mente in quell’ora del mattino che precede di poco il risveglio, come nella nebbia, mentre sono ben sveglia quando in cucina mi diverto a inventare ai fornelli e sperimentare intrugli con erbe e spezie. Viaggiare è la mia passione e il mondo delle donne sta al centro dei miei interessi di scrittrice.
Milano in 100 parole, Giulio Perrone Editore.
Come le donne, PM Edizioni.
Sinfonia nera in quattro tempi, Youcanprint.



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