Gli scrittori della porta accanto

Terrorismo: come rispondere alla paura?

Terrorismo: come rispondere alla paura?

Di Stefania Bergo. Non dobbiamo smettere di viaggiare o di tendere la mano al nostro vicino per paura. Vivere la nostra vita tutti i giorni, senza farci condizionare, è la nostra risposta migliore a chi fa del terrore lo scopo della propria esistenza.

L'hanno fatto di nuovo. Un altro attentato. Un'altra città. Martedì mattina, tre esplosioni hanno seminato morte e terrore nella capitale belga: due all’aeroporto Zaventem e una alla stazione della metro di Maelbeek. 31 morti e 250 feriti, subito rivendicati dal gruppo Stato islamico.
Bruxelles è solo l'ultima città europea, in ordine di tempo, ad essere stata sconvolta dagli attentati terroristici negli ultimi vent’anni.
Il 25 luglio 1995, una bomba nella stazione di Saint-Michel della metropolitana di Parigi uccise otto persone e ne ferì 150. Il 15 agosto 1998, i ribelli dell’Irish Republican Army uccisero 29 persone nella città di Omagh, nell’Irlanda del Nord. L'11 marzo 2004, alcune bombe posizionate sui binari e sui treni regionali di Madrid nelle stazioni di Atocha, El Pozo e Santa Eugenia uccisero 191 persone. Gli attentati furono rivendicati da Al Qaeda. Il 7 luglio 2005, 52 pendolari furono uccisi in quattro attentati suicidi che colpirono tre diverse stazioni della metropolitana e un autobus a Londra. Anche questi attentati furono rivendicati da Al Qaeda. Il 22 luglio 2011, l’estremista di estrema destra Anders Behring Breivik uccise 69 persone in una sparatoria nell’isola di Utøya, in Norvegia, e altre otto con una bomba artigianale a Oslo. Il 2 novembre 2011, gli uffici della redazione di Charlie Hebdo a Parigi vennero distrutti da una bomba molotov dopo la pubblicazione di una vignetta satirica sul profeta Maometto. In quell'occasione, non ci fu alcun ferito. Dall'11 al 19 marzo 2012, un uomo armato che affermò di avere legami con Al Qaeda, uccise tre studenti ebrei, un rabbino e tre militari a Tolosa, nel sud della Francia. Il 24 maggio 2014, vennero uccise quattro persone, al museo ebraico di Bruxelles, da un uomo armato di kalashnikov, un ex militare francese legato al gruppo terroristico Stato islamico. Il 7 gennaio 2015, alcuni uomini armati attaccarono la redazione di Charlie Hebdo a Parigi. Quella volta, il bilancio delle vittime fu di 12 morti e dieci feriti. In seguito il commando uccise cinque persone in un supermercato Hypercacher. L’attentato fu rivendicato da Al Qaeda. Il 14 febbraio 2015, a Copenaghen, un uomo uccise il regista danese Finn Noergaard e il giorno dopo un guardiano ebreo in una sinagoga. Il 13 novembre 2015, tre commando legati all’Is causano la morte di 130 persone a Parigi, attaccando il teatro Bataclan e altri locali pubblici.

Se si guarda fuori dall'Europa, il bilancio delle vittime del terrorismo sale vorticosamente, sebbene la cosa non faccia altrettanto notizia, come se l'indignazione e il cordoglio per le vittime fossero inversamente proporzionali alla distanza da casa nostra. 

Sempre negli ultimi vent'anni, si calcola che ci siano stati almeno dieci attentati al giorno. Dal 1995 a oggi, infatti, sono stati registrati 70.433 attacchi. Hanno perso la vita più di 165 mila persone, quasi 280 mila sono stati i feriti. Tra il 2002 e il 2012 sono stati colpiti obiettivi civili nel 32% dei casi. Medio Oriente e Nord Africa sono i territori più colpiti, mentre l'Europa rappresenta solo il 6% del totale mondiale.
Al di là delle sterili polemiche sulla sensibilità dimostrata solo quando investiti dall'eco delle notizie riportate dai media, è umanamente comprensibile, anche se non rispettoso per le vittime degli altri angoli del mondo, essere più partecipi quando gli eventi ci toccano da vicino, perché coinvolgono amici e conoscenti o luoghi in cui siamo stati o abbiamo vissuto o città dietro l'angolo. Forse perché questo ci fa sentire realmente vulnerabili. Abbiamo costruito fortezze economiche, ripari a volte sontuosi, status sociali inarrivabili, o modeste giornate fatte di routine tranquillizzante. Eppure, il fossato che abbiamo scavato tutt'intorno alla nostra vita non riesce a tenerci al sicuro. Siamo attaccabili. Siamo vittime inconsapevoli di guerre che si combattono nel nostro nome, sul nostro corpo, fantocci tra le mani di burattinai che nemmeno conosciamo, spesso i più insospettabili. Perché dietro un attacco terroristico c'è molto di più di un uomo che si fa esplodere.

Il senso della caducità della vita è sotto i nostri occhi tutti i giorni. 

Incidenti stradali, malattie improvvise, incendi, alluvioni, terremoti, crudeltà umana. Non siamo al sicuro dalla natura effimera della nostra esistenza. Lo sanno bene i popoli che vivono in un conflitto perenne, quelli in balia delle malattie altrove debellate, quelli che abitano sugli argini di fiumi spesso travolgenti. Noi ce ne accorgiamo solo di tanto in tanto. E questo ci fa paura. Ci illudiamo di essere al di sopra di tutto, ma quando ci rendiamo conto di essere granelli di sabbia trasportati dal vento, abbiamo paura.
Sebbene la paura sia un istinto necessario alla sopravvivenza, non possiamo lasciarci sopraffare.

Non dobbiamo smettere di viaggiare o di tendere la mano al nostro vicino.  Non dobbiamo restare nel buio della nostra paura ma rispondere. 

Del resto, quanti incidenti mortali accadono sulle strade? Abbiamo forse rinunciato tutti a guidare per questo? A giudicare dal traffico nelle ora di punta, direi proprio di no. Anche perché, ad essere pignoli, nessun posto al mondo è realmente al sicuro. E allora, che possiamo fare?
Ricordo quando, a gennaio del 2008, arrivai in Kenya, proprio nel bel mezzo degli scontri conseguenti le elezioni. Alcune aree erano sconvolte da massacri, odi etnici che col pretesto della politica stavano dando sfogo a tutta la crudeltà di cui l'essere umano è capace. Nella casa dove risiedevo c'era Rose. Aveva paura ogni giorno, per via della sua appartenenza ad una tribù, quella di minoranza, quella su cui si stavano accanendo. Ricordo le parole di Apophie, la nostra chirurga ruandese scappata ai massacri del suo paese che le hanno portato via tutta la famiglia. Le ripeteva che «non possiamo vivere con la paura, tanto non possiamo farci nulla». 

La paura non ci mette al sicuro, non è una barriera tra noi e l'inevitabile. Quindi, perché non andare oltre?

Vivere la nostra vita tutti i giorni, senza farci condizionare, è la nostra risposta migliore a chi fa del terrore lo scopo della propria esistenza.
Dovremmo riuscire a incanalare la nostra rabbia in qualcosa di costruttivo, non distruttivo, mentre, spesso, la paura ci confonde. Siamo naufraghi che annaspano e si aggrappano a qualsiasi cosa assomigli ad un appiglio. Trasformiamo la nostra paura in odio, a volte non molto diverso dalla causa che lo ha creato – e tutto questo spesso sapientemente indirizzato a nostra insaputa. Questo non significa andare oltre la pura, vincerla. Significa lasciarsi vincere da essa.

E come affrontare la paura nei bambini? È giusto dire loro la verità o tenerli all'oscuro di tutto, in modo che non siano spaventati?

Io credo non sia onesto verso l'intelligenza dei bambini e non sia nemmeno utile crescere il proprio figlio nella menzogna o in una verità assurdamente edulcorata. Ma è necessario trasmettere ai nostri figli un messaggio positivo. Il male innegabilmente esiste, il mondo è pieno di "gente cattiva" ed è giusto che i bambini conoscano i fatti, magari senza troppi dettagli, perché è giusto che siano cauti, coscienti dei pericoli. Ma è altrettanto giusto che siano rassicurati. Credo sia importante non trasmettere ai bambini la nostra paura lungimirante, far sentire loro che possono essere al sicuro, che “i cattivi” possono anche essere sconfitti e che i feriti possono guarire. Che il mondo può guarire. Perché l'essere umano è anche capace di tanta bellezza. I bambini devono sapere che una via d'uscita c'è. Il nostro compito, di adulti, è quello di trovarla. O saranno proprio loro, a trovarla, una volta cresciuti. «Il mondo cambia col tuo esempio, non con la tua opinione», scriveva Paulo Coelho. Ma questo esempio dev'essere buono. Lo dobbiamo ai nostri figli.

Stefania Bergo

Stefania Bergo
Non ho mai avuto i piedi per terra e non sono mai stata cauta. Sono istintiva, impulsiva, passionale, testarda, sensibile. Scrivo libri, insegno, progetto ospedali e creo siti web. Mia figlia è tutto il mio mondo. Adoro viaggiare, ne ho bisogno. Potrei definirmi una zingara felice. Il mio secondo amore è l'Africa, quella che ho avuto la fortuna di conoscere e di cui racconto nel mio libro.
Con la mia valigia gialla, StreetLib - Collana Gli scrittori della porta accanto (seconda edizione).


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