Gli scrittori della porta accanto

Solo un assaggio: un estratto di "Vite di madri" di Emma Fenu

La luce sugli oceani

«Faccenda davvero misteriosa la maternità».

Incinta. Subito dopo le nozze.
Non erano i tempi dei test di gravidanza eseguiti in bagno, con il cuore palpitante, e delle ecografie che svelano l’imminente evolversi della vita nelle proprie viscere.
Si attendeva il ritardo, ci si fidava delle nausee, finché i tempi erano maturi per avere la conferma, presso il medico, di quanto le anziane già da tempo asserivano profeticamente, solo scrutando gli occhi e la pelle della futura mamma.
Spesso le future mamme erano condannate a seppellire sogni e corredini in un limbo, dove non c’erano croci, né nomi, né volti definiti.
Mia nonna ebbe, dunque, un aborto, un evento che rientrava nella quotidianità di donne che concepivano a ritmo serrato e che, a prescindere dall'arrotondarsi delle proprie forme, continuavano a impastare pane, nottetempo, dure come gli idoli di pietra dell’epoca nuragica, icone dai seni gonfi come otri e dal ventre prominente.
Erano le stesse donne che, sovente, vedevano diventare freddi e immobili i figli partoriti a casa, fra urla animalesche, in una lotta titanica fra la vita e la morte.
A questi ultimi bambini, poiché venuti alla luce, spettava il paradiso, se l’ostetrica era solerte nell’amministrare il battesimo, recidendo, con il cordone ombelicale, anche il filo del destino umano, come una parca.

«“A cosa mi serve un medico adesso? Ormai ho perso il bambino. Perché sono così inadeguata?” mormorò Isabel. “Per le altre donne fare figli è facile come respirare”».

Un proverbio in lingua sarda recita, al pari di una formula magica, chi esti po tui ge abarrada, “se è per te, rimane per te”. Mia nonna, forse, soleva ripetersi questa sequenza di parole, durante il trascorrere dei mesi e degli anni, che condannavano il suo utero all’onta di restare vuoto.
Finché smise di ripeterla questa frase propiziatoria, non appena si concluse il suo ciclico sanguinare, la cui comparsa mensile acuiva il dolore per la negata condizione di madre e la cui scomparsa, oggi menopausa, allora era, crudelmente, vecchiaia.
Ma mio nonno, tuttavia, voleva un figlio, un figlio di sangue, di DNA, che gli appartenesse come un arto, come un organo, come un’appendice.

Non posso ipotizzare le modalità con cui decisero, ma decisero.
Una giovane donna accettò di essere ventre, affinché un figlio vi fosse.
Conosco il suo nome, il suo cognome e il suo paese d’origine, ma non la considero mia nonna, non l’ho mai cercata, non ho mai immaginato i lineamenti del suo volto, la luce del suo sorriso.
Tuttavia, silenziosamente ed intimamente, la ringrazio.
La ringrazio perché senza di lei io non ci sarei; perché è stata complice di una scelta che per noi oggi è orrore, ma che, allora, era l’unica possibile forma di eterologa; perché si è separata dalla bambina che ha nutrito con il suo corpo senza neppure sentirne l’odore della pelle rosea; perché si è limitata a poche visite discrete presso la casa di mia mamma, consegnandole piccoli doni e, presentandole, successivamente, le persone che erano divenute parte della sua vita, il marito e i bimbi.
Ho stretto fra le mani il suo primo regalo per la neonata, forse infilato con pudore nelle sue fasce: è una medaglietta in oro, piccolissima, con un angelo dipinto e con, sopra incisa, la scritta “proteggimi”.
Una tenerezza infinita. In quel monile, pegno di una forma di amore, ho avvertito uno struggente addio, dolce e ricolmo di speranza.
Che un angelo protegga anche te, donna senza volto.

Così, dunque, ebbe inizio la vita di mia mamma, una bambina nata in una fredda notte di gennaio, sotto la candida coltre di neve che ricopriva un paese dove si snodavano vie minute in cui si proiettavano case dai tetti spioventi.

«Fragile come un fiocco di neve, la bambina sarebbe potuta facilmente svanire nel nulla».

I criteri gerarchici furono subito ben definiti: le decisioni inerenti alla vita della bambina spettavano esclusivamente al padre.
Mia nonna era destinata ad essere relegata al ruolo subalterno di moglie non amata, di madre troppo anziana e, poco più tardi, di nobile decaduta. Trascorreva le sue giornate nella grande casa a tre piani, dedicandosi al ricamo e alle sue meravigliose rose che a maggio rendevano il giardino un Eden, muovendosi, leggera e silenziosa come una jana, in uno spazio che contemplava la sua camera da letto, non condivisa con il marito, la sala da pranzo con i mobili in legno pregiato, lucidati con l’olio profumato, e i dintorni della villa.
Una villa che era stata splendida, frutto dell’estro di un architetto pionerista, ma che, man mano, volgeva in lento declino, simile ad una bambola di porcellana finissima esposta, per incuria, alle intemperie.
Mia nonna non poteva occuparsi materialmente della bambina, non era contemplato nel codice di comportamento che si addiceva alle gentildonne e, sinceramente, non ne sarebbe stata capace, svilita e sottomessa al potere e alla vigilanza del marito, e, ovviamente, priva di latte nei seni.

«Così Isabel scivola sempre di più nel suo mondo di benevolenza divina, nel quale le preghiere vengono esaudite, nel quale i bambini arrivano per volontà di Dio e con l’aiuto delle correnti».

Fu accuratamente designata, per svolgere il compito di balia e tata, una ragazza, Lucia. Possiedo una sua foto: era alta, mora, dai lineamenti che parevano intagliati nel legno di quercia, con la bocca dall’espressione volitiva e gli occhi di chi ha già troppo sacrificato, a soli vent’anni. Aveva appena partorito una figlia ma, essendo non maritata, aveva dovuto darla in adozione ad una coppia di suoi zii, benestanti e senza prole, che risiedevano nella zona di Firenze.

«Si ricordò della recente agonia della montata lattea che le aveva ingrossato e infiammato il seno perché non c’era più un bambino da allattare».

«La sola vista della neonata le fece risentire il movimento del feto nel ventre; le sue braccia sapevano istintivamente come tenerla in braccio, calmarla, consolarla».

Mia madre fu viziata come una principessa, protetta e reclusa come un gioiello antico, come una filigrana troppo esile e preziosa per essere indossata. Eppure, il dolore si insinua nelle crepe dei muri, se pur di pietra spessa, come edera velenosa.
Dopo cinque anni trascorsi a servizio, Lucia decise di tentare la fortuna in Germania, come cameriera. Avvisò per tempo i datori di lavoro, con il cuore in frantumi, riempiendo di baci le gote di una bambina non sua, che colmava la sua lacerazione, disperandosi al pensiero che fossero gli ultimi.

Immobile, sulla porta dello studio di suo padre, la bambina si è svegliata prima del solito, senza che nessuno le facesse il solletico sotto le coperte. Forse un presentimento. Ha sceso le scale in camicia da notte, con l’orsacchiotto di peluche logoro per i troppi abbracci. Li vede. Li sente.
«Non parto più, signor V., non ce la faccio a staccarmi dalla piccola».
«No, mi spiace. Hai detto che te ne vai, e ora devi andare. Hai compiuto la tua scelta, non puoi tornare indietro».
La bambina sentì il suono della propria voce che prorompeva in un urlo disperato, che infrangeva il silenzio ovattato che la neve soltanto sa regalare.
Ma Lucia fu allontanata lo stesso, poiché giudicata non sufficientemente affidabile.

«La bambina non mollò la presa. […] Gwen ci mise molto a calmare la nipote. La coccolò e la prese in braccio, cercando di distrarla con indovinelli e filastrocche».

Un anno dopo la sua dipartita dalla villa dei miei nonni, la ragazza fece ritorno in paese per un breve soggiorno, in visita alla propria famiglia.
È ancora una volta mattina.
È ancora una volta gennaio.
Ancora una volta mia madre indossa solo la camicia da notte ed è ai piedi delle scale. Sente la sorella di Lucia che riferisce che quest'ultima è alla stazione, appena giunta. La bambina imbocca la porta di casa, esce scalza, lasciando impronte minute sulla neve, attraversa il paese di corsa con il cuore che scoppia, per recarsi in prossimità del treno. Si riabbracciano.
La neve di gennaio racconta la storia di una donna, fin dai suoi primi vagiti.

«“Raccontami un altro mito”, disse Isabel.
Tom rifletté per un momento. “Sai che dal nome Janus trae origine la parola gennaio? Entrambi portano il nome del dio Giano, la divinità bifronte.”[…]
“Il dio di cosa?”
“Dei passaggi. Guarda sempre in due direzioni, da dove arriva e dove va, incerto fra i due punti di vista. Gennaio guarda avanti al nuovo anno e indietro a quello vecchio, vede il passato e il futuro”».

Fu immensamente amata, mia madre.
Amata da mio nonno, in modo assoluto e possessivo, da mia nonna, in modo devoto e silente, e da una giovane madre negata, Lucia.
Ci furono, dunque, tre figure femminili: una ha dato il proprio ventre; una, la sola “mamma”, la propria dedizione imperitura; una il proprio latte, le proprie coccole, le proprie mani per pettinare i capelli, per tendere una caramella, per pulire il vomito, per lenire il mal di pancia.
E ce ne fu una quarta, a distanza di 24 anni: una bambina dai riccioli castani e grandi occhi nocciola, che volle colmare ogni vuoto, e che, non potendo essere solo figlia, divenne madre non appena fu in grado di fare una carezza, di asciugare una lacrima, di esprimere, con caparbietà, un’opinione, e inventare, ogni giorno, una nuova favola per la sua mamma gravemente malata. Basta esordire con: C’era una volta… e spazio e tempo reali scompaiono. Puff!

«Al faro si può vivere qualsiasi storia che si voglia immaginare, e nessuno potrà dire che è falsa: né i gabbiani né i prismi né il vento».

Non importa se non le ho neppure conosciute, due di queste donne. Noi non abbiamo bisogno di sangue, di follicoli, di contatti di pelle e di logiche spiegazioni per creare legami. Ci uniscono fili invisibili, per sempre.

«Proprio come qualsiasi altra madre, in qualunque parte del mondo».

Citazioni tratte da: M. L. Stedman, La luce sugli oceani.


Titolo:  VITE DI MADRI
Editore:  Echos Edizioni (seconda edizione)
Genere: Narrativa non fiction
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