Inediti d'autore Racconto di Stefania Bergo. E lucevan le stelle: da una storia vera, il ricordo di uno stupro etnico che diventa amore, grande quanto il cielo stellato, quanto la passione per la musica.
Lo sapeva bene, Chiara, che prima o poi sarebbe successo. Lo sapeva da quando Marco, ancora bambino, le aveva chiesto notizie di sua madre, quella biologica. Quel giorno qualcosa dentro di lei si ruppe, avvertì i frantumi cadere ai suoi piedi, fendendo la pelle. Quel giorno ebbe la certezza che prima o poi Marco sarebbe andato alla ricerca di Liala. Non gli raccontò nulla di lei, allora, fu molto vaga. Come avrebbe potuto dire ad un bambino che la sua vera mamma era stata violentata da un branco senza nome? Tra cui suo padre.Era una tiepida mattina di maggio.
Marco sedeva da solo, lo scompartimento era completamente vuoto. Avrebbe potuto approfittare del viaggio per dormire, ma non riuscì a chiudere occhio, come la notte precedente. Estrasse dalla borsa i documenti che Chiara gli aveva consegnato. Pochi fogli, pesanti come lastre di piombo. In quelle righe c'era scritto il suo passato: il nome di sua madre, la città dove abitava quando lui nacque, quanti anni aveva. Sedici.
Aveva prenotato un Bed&Breakfast proprio vicino alla stazione. Arrivò all'imbrunire. Saltò la cena, il suo stomaco era chiuso, serrato. Riuscì solo a trangugiare una birra locale, tiepida, che gli arrivò subito alla testa e per un po' la cosa gli piacque. Per pochissimi istanti si sentì leggero. Aria nella testa e nuvole sul cuore. Vaporose, morbide. Ma sempre nuvole. L'ebbrezza cessò quasi subito e fu colto da uno sconforto esagerato. E dalla paura. Ma cosa si era messo in testa, cosa andava cercando, cosa si aspettava? Il giorno dopo, il funzionario del comune lo attendeva. Lo avrebbe condotto lungo i corridoi della burocrazia, traghettandolo tra i diversi uffici, inseguendo tracce di vita passata. Ma lui, voleva davvero sapere? E se fosse riuscito a incontrare Liala? Non era preparato a tanto, non lo sarebbe stato mai. Come si può esserlo?
Dormì solo qualche ora. Scese a far colazione anche se lo stomaco ancora non si decideva a schiudersi.
Il signor Goran portava dei buffi occhiali rotondi sul naso, sembrava uscito da un film degli anni quaranta. Pure il gilet, sopra la camicia inamidata, era rétro e gli conferiva un'aria rassicurante, come quella di un bibliotecario innamorato di letteratura. Quando Marco entrò, il signor Goran alzò lo sguardo, osservandolo da sopra le lenti, scoprendo gli incisivi da roditore. E Marco ebbe la sensazione che lo stesse aspettando da sempre...
Dopo un paio d'ore, Marco uscì al sole. Si sentiva sfinito, svuotato, gli pareva fossero trascorsi giorni. Gli occhi faticarono ad abituarsi alla luce. O forse era l'anima che non tollerava più il chiarore dell'aria fresca primaverile? Il signor Goran era stato bravissimo ad inseguire i fantasmi. E aveva messo insieme tutti i pezzi di un puzzle grave. Gli incastri erano perfetti, anche se mancava ancora qualche tassello.
Rientrò al suo alloggio senza accorgersene, quasi, stringendo i nuovi documenti al petto, come uno studente diligente. Crollò nel suo letto e dormì quasi nove ore, né manco avesse trovato la pace. Non sognò, era sgonfio anche di pensieri, in attesa della decantazione. "Deceduta". Così era scritto sul fascicolo di sua madre. Un impersonale e irrispettoso "deceduta" che non le rendeva giustizia. Per la precisione si era suicidata, trovata nel sangue che si fece sgorgare dalle vene dei polsi. Appena qualche mese dopo la sua nascita. I sedimenti sollevati dall'esplosione si acquietarono a terra, scoprendo un'anima asettica. Fu allora, ritrovando apparentemente la lucidità, che un'idea prese forma tra i detriti. Voleva sapere di sua madre, di quei dettagli che nessun ufficio burocratico avrebbe mai potuto conoscere, quelli nascosti nei meandri del cuore durante gli ultimi mesi della sua sfortunata vita.
Conosceva il suo ultimo indirizzo, la strada che aveva accolto i suoi primi vagiti. Non era lontano dalla stazione e lui aveva tempo, il treno sarebbe partito non prima della 11:00.
S'incamminò come un automa, inciampando tra la ghiaia sparsa lungo il bordo della carreggiata.
Si fermò davanti a una piccola abitazione chiara. Non si poteva dirne con esattezza il colore, perché i muri si stavano sgretolando e l'intonaco rimasto pareva un superstite segnato dal tempo e dalla barbarie umana. Il cancello era aperto. Imboccò il vialetto, pochi passi che lo separavano da una porta chiusa ormai da troppi anni, una porta mai aperta che lui voleva spalancare. O forse no. La sua determinazione vacillò un momento. Si fermò a pochi passi dall'uscio. Stava quasi per indietreggiare e andarsene, scappando dal suo destino, quando una musica lo trattenne. Sentì le note della Tosca uscire dalla finestra socchiusa. Le riconobbe chiaramente, lui studiava canto, da qualche anno. Chiara lo aveva iscritto al Conservatorio, incoraggiando la sua passione e il suo talento naturale. Quella musica lo stava chiaramente chiamando a sé, non aveva scampo. Salì l'unico gradino su cui era poggiato uno zerbino logoro. Trovò una salda posizione di equilibrio, divaricando appena le gambe. Inspirò. E all'unisono con l'aria che gli usciva nuovamente dai polmoni dopo un'apnea che parve interminabile, bussò.
Non aspettò molto. Come se qualcuno lo avesse atteso per anni dietro la porta e non vedesse l'ora di aprire.
Marco attese che la vecchia Vesna gli si rivolgesse, non sapeva bene che dire, ad un tratto non gli sembrò più una bella idea cercare tracce di sua madre, rischiando di trovarsi davanti a una verità corrosiva. Ma Vesna non disse nulla. Lo osservò in silenzio. Lo stava aspettando davvero. Il signor Goran l'aveva avvertita che qualcuno aveva chiesto notizie di Liala. E chi se non suo figlio?
Lo guardò avidamente, quasi tornasse indietro nel tempo. Gli stessi occhi chiari, lucidi come sassi calcarei bagnati al sole, incorniciati da una curva perfetta di ciglia folte e bionde. Il naso piccolo, regolare. Le labbra no, quelle non le aveva prese da sua madre, lei le aveva carnose come l'uva matura di settembre. Marco invece aveva labbra sottili, di un rosa deciso. Ebbe un guizzo di rabbia mista a dolore pensando che dovessero essere le labbra di suo padre. Istintivamente si accarezzò il ventre come se Liala stesse per nascere in quel momento. Liala, la sua ultima figlia, venuta al mondo dopo aver perso i primi tre, tutti maschi, in un terribile incidente, quella figlia benedetta, dono delle stelle.
Un'auto sfrecciò proprio in quel momento, sollevando una nuvola di polvere dal selciato, ridestando i due protagonisti della scena. Marco si decise a parlare.
«Buon giorno. Il mio nome è Marco. Sto cercando informazioni su una persona che viveva qui. Liala. Ha avuto un figlio diciott’anni fa e l’ha dato in adozione... e poi si è... – si interruppe per deglutire – voi la conoscevate?», disse con voce tremante, tutto d’un fiato, per non avere il tempo di cambiare idea.
Vesna non si lasciò scomporre sentendo pronunciare il nome di sua figlia.
«Mi hanno detto che... è morta. Ma vorrei sapere qualcosa di più, di lei, vorrei conoscerla. Io sono...», disse Marco senza riuscire a finire la frase.
«Lo so chi sei. Ce l'hai scritto in faccia.»
Passò un'altra macchina, la città si stava svegliando. Il rombo del motore coprì l'ultima frase, anche perché Vesna la sussurrò appena.
«Ha lasciato qualcosa per te, prima di andarsene - continuò -, aspetta qui... »
«Posso entrare?» chiese Marco raccogliendo tutto il suo coraggio, mentre la porta si stava socchiudendo. Non sapeva perché l'avesse chiesto. Pensò all'odore di sua madre, a quello che doveva aver sentito almeno una volta, quello che sperava di avvertire nell'aria di quella casa, come se le pareti potessero impregnarsi di umanità e trattenerla per sempre, traccia indelebile di una presenza passata.
«No.» fu la risposta secca della vecchia Vesna. Non voleva farlo entrare, non voleva accoglierlo. Voleva solo portare a termine un incarico affidatole molti anni prima, per mettere finalmente pace in quell'anima sconvolta da una vita dura, aspra, senza pietà. Come lo è la crudeltà umana.
La porta si chiuse e Marco restò in attesa. Immaginò di entrare e sedersi sul divano. Un divano doveva esserci per forza dietro quelle tende consumate, da cui continuavano ad uscire le note della Tosca.
Vesna tornò dopo qualche minuto. Aveva con sé una busta sigillata, sgualcita. La porse a Marco senza allungare troppo il braccio, quasi volesse trattenerla, come se in quel momento Laila se ne stesse andando di nuovo. Si guardarono a lungo negli occhi. Sapevano entrambi tutto. Ma in quel momento nessuno dei due aveva voglia di lasciarsi andare e ricominciare una lenta e dolorosa ricostruzione. Marco prese la busta, avvertendo uno strano calore sulla mano. Fece appena un cenno con la testa e si voltò per andarsene. Non disse nulla. Arrivò al cancello senza rendersene conto. In quel momento un'auto frenò bruscamente sulla ghiaia per evitare un gatto spuntato all'improvviso dalle sterpaglie, sollevando alcune pietroline, accelerandole come proiettili in ogni direzione. Una urtò un vaso di coccio contenente una pianta ormai totalmente rinsecchita, mandandolo in frantumi con un tonfo sordo. Quanto bastò per ridestare Marco dal suo oblio. Alzò lo sguardo, rendendosi conto di non aver distolto un solo istante gli occhi dalla busta, serrata tra le dita quasi cianotiche.
«Nonna!», esclamò voltandosi nuovamente verso la casa.
Mosse qualche passo verso di lei, che ancora era sull'uscio. Ma immediatamente la vecchia Vesna sbattè la porta, chiudendo ogni possibile replica, tagliando definitivamente un cordone ombelicale ormai marcio. Restò immobile con le spalle appoggiate alla porta e pianse. Non lo faceva da così tanto tempo che credeva di aver essiccato la sorgente del suo dolore.
«Nonna...», bisbigliò Marco. E chiuse anche lui una porta immaginifica.
Quando fu sicura di non essere udita, Vesna gridò tra i singhiozzi. E quel giorno la prosciugò davvero, la sorgente del suo dolore.
Marco salì sul treno.
Restò così, muto, indifferente, fino a quando una bambina, correndo lungo il corridoio del vagone, lo ridestò. Aprì la busta e una foto scivolò fuori, arrestandosi sul suo grembo. Era una foto sgualcita, i colori erano sbiaditi e in alcuni punti aveva perso anche la patina lucida protettiva. Era una ragazzina, sì e no quindici anni. Gli occhi chari brillavano mentre sorrideva sotto il sole. I capelli le facevano uno strano giro sulla fronte e le ricadevano morbidi sulle spalle.
Guardò meglio nella busta e trovò anche una lettera.
La spiegò e iniziò a leggere, mentre le mani gli tremavano e la testa veniva portata in giro dall'emozione, girando in tondo, avvitandosi come in una spirale leggera.
Ciao Anej.
Sì, questo è il nome che ti avrei dato.
Se stai leggendo questa mia lettera, significa che hai voluto sapere, conoscermi, che sei arrivato fino a casa mia. E questo mi fa sorridere. Anche ora, che sto pensando alla morte.
Dopo lo stupro, ti ho odiato, Anej. Mi battevo forte i pugni sulla pancia che cominciava a gonfiarsi e giorno dopo giorno mi ricordava la violenza, la vergogna. Mentre io volevo solo dimenticare e tornare a sorridere. Pregavo per vedere il sangue sgorgare ancora. Non passava giorno in cui non inveissi contro di te, che rappresentavi tutto il male della mia vita.
Ma poi, un giorno, ho avvertito un fremito, un movimento, un calcio al mio utero. Tu cominciavi a farti sentire, Anej, prepotentemente. Quel giorno, ho posato la mano aperta sulla mia pancia, non più un pungo serrato. Ti ho accarezzato. E, detestandomi, ho sorriso. Una parte di me voleva continuare ad odiarti, l'altra già ti amava impotente. Quel giorno ho realizzato che tu non avevi alcuna colpa, Anej. E che io dovevo smettere di provare vergogna. Ero una madre, non una vittima.
Ero così giovane. Sono ancora così giovane! Ti ho portato dentro per nove mesi e ti ho dato alla luce, sapendo che non ti avrei mai visto crescere. Cantavo per te, Anej, anche se avevo dovuto lasciare la scuola, il conservatorio. Adoravo la Tosca, mia madre ascoltava quel vecchio disco ogni giorno e io mi sono innamorata delle sue romanze struggenti. Sognavo di esibirmi, ero brava sai? Me lo dicevano tutti. Anche lui, quando mi squarciò la verginità e l'anima. Voleva che cantassi. Invece non feci altro che piangere e gridare. Ma nessuno volle sentirmi.
Sai che a volte ho fantasticato su di te, Anej? Ti ho immaginato mentre ti esibivi sul palcoscenico di un prestigioso teatro italiano. Chissà perché, forse tutte le madri lo fanno, forse è normale proiettare i propri sogni sui figli. Ma io non sono come le altre madri, io non ti vedrò mai crescere. E questo, pur sapendo che per te è un bene, mi uccide forse più del ricordo di quel giorno, in cui la mia vita cessò di essere vivibile.
Ormai tutto è compiuto, Anej. Sono stata involucro, ho generato una nuova vita e l'ho consegnata nelle mani di chi saprà amarla, al pari mio, proteggerla, come io non avrei mai potuto fare. Ormai non ha senso continuare a portare queste croci, sono talmente pesanti che non riesco nemmeno più a cantare, mi tolgono il fiato. Voglio solo morire, Anej.
Perdonami, amore mio, perdonami per averti odiato e non voluto. Porterò questa colpa in eterno.
Liala.
*
Chiara guardò ancora una volta il volantino nelle sue mani.
La bacchetta del direttore d'orchestra richiamò i musicisti. Un nostalgico clarinetto iniziò l'assolo della melodia in si minore, zittendo la platea. Marco prese fiato. Guardò il pubblico e gli parve di vedere una ragazza bionda sorridergli. Aveva i capelli sciolti sulle spalle..
Chiuse gli occhi e inspirò.
«E lucevan le stelle....».
Guardò il cielo. Le stelle brillavano davvero. Soprattutto una...
Stefania Bergo |
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