Di Marianna Maselli «Empuja. Sukuma. Kierera. Pussé. Zurka. Significa sempre spingi, l’ho detto così tante volte in così tante lingue diverse in nove anni da ostetrica in giro per il mondo». Viaggio nella maternità in Africa e Afganistan.
Accompagno le donne nel loro divenire mamme, durante la gravidanza, fino al parto e nei primi tempi di vita con il bambino; prima di decidere di fermarmi in Italia ho girato diversi paesi del nostro mondo con il mio lavoro.In Kenya le “mie” mamme arrivavano a partorire nel nostro ospedale, il St. Orsola di Matiri, dopo tante ore di cammino.
Quando le contrazioni cominciano loro si mettono in marcia, magari ci sono due, sei o nove km di strada da fare sotto il sole e sempre accompagnate da una donna della famiglia. Arrivano già a travaglio avanzato si distendono sul lettino da parto e vivono le ultime contrazioni prima della nascita manifestandone l’intensità con un “Uuuuuuhèè!” detto a bassa voce e scioccando le dita ad ogni picco della contrazione. Ho sempre ammirato la loro forza; dopo il parto bevono una tazza di cioccolato caldo, prendono il loro piccolo fagotto e vanno a riposare in una camerata con 10-15 posti letto. Le ritrovi tutte lì, nelle loro divise ospedaliere a quadretti bianchi e viola con i loro piccoli al seno, accogliendoti con grandissimi sorrisi e sonore strette di mano.Alle mamme che venivano da molto lontano proponevamo di fermarsi in paese a casa di qualche conoscente nelle ultime settimane delle gravidanza.
In quasi tutte le missioni in Africa ho trovato le Maternity Waiting House, delle case in prossimità dei centri di salute in cui le mamme aspettano il travaglio. Non è sempre semplice convincerle a restare lì, devono lasciare altri bambini, il lavoro nei campi, la casa e non possono pensare di dedicare un paio di settimane all’attesa. Ma in Kenya, in Sierra Leone, in Zimbabwe, in South Sudan non esistono mezzi di trasporto; qualcuno magari nel villaggio ha una macchina, possono esserci più di un motorino ma il passaggio si paga e non è accessibile a tutti. E allora molto spesso quando il travaglio comincia in piena notte e non si può scegliere di prendere un mezzo fino alla clinica più vicina, si resta a casa per il parto, nell’incertezza di quello che accadrà.Una volta a Sumbuya, in Sierra Leone, è arrivata a partorire nella nostra clinica una mamma con un grosso pancione.
Già molto avanti con il travaglio e in pochissimo tempo ha partorito un piccolo bebè, davvero piuttosto piccolo per la pancia che aveva. E di fatto non era tutto... poco dopo è nata la sua sorellina, una gemella che ha colto tutti di sorpresa, soprattutto la mamma che è tornata a casa con due bimbe quando pensava di aspettarne una sola. Questi eventi imprevedibili in Africa accadono spesso e purtroppo non sono sempre a lieto fine.Qui in Italia assisto parti in casa ed in casa maternità (un luogo extra-ospedaliero), ritengo che accogliere una nuova vita nel calore e nell’intimità del proprio domicilio, circondati dalle persone che si desidera, sia un scelta sicura ed un esperienza molto piena. In Africa, invece, ho lavorato molto con le TBA (Traditional Birth Attendant, le levatrici tradizionali ossia le donne che assistono i parti nei villaggi) per sensibilizzarle ad accompagnare le mamme in clinica; loro non hanno conoscenze cliniche, non hanno strumenti a disposizioni e non possono né riconoscere né intervenire nel caso in cui si presenti una complicazione; le gravidanze non sono sempre controllate, non ci sono test e visite mensili per scartare l’insorgenza di una patologia.
Quando una mamma va a partorire in clinica in Zimbabwe, le dicono di portare con sé due teli puliti (generalmente delle bellissime stoffe colorate).
Uno da mettere sul lettino al momento del parto ed uno per avvolgere il bambino, un sapone per le mani dell’ostetrica e per l’igiene nei giorni successivi al parto, una candela perché di notte generalmente non c’è luce nei centri di salute ed a volte anche una lama pulita con cui tagliare il cordone ombelicale. Le cliniche, soprattutto le più rurali, non sono molto attrezzate per l’assistenza ai parti; quando vengono rifornite dal governo i materiali non sono mai abbastanza e finiscono in fretta per cui spesso gli infermieri si trovano addirittura a dover lavare i guanti e senza farmaci di prima necessità.Ma quando un centro di salute riceve il supporto di un’organizzazione non governativa, la situazione cambia radicalmente: le cliniche supportate da Medici Senza Frontiere (MSF), ad esempio, sono sempre rifornite di tutti i farmaci e materiali necessari ed in un certo senso questo incentiva la gente a rivolgersi al centro.
In South Sudan erano poche le mamme che sceglievano di partorire nell’ospedale MSF all’interno del campo rifugiati di Batil in cui ho lavorato; preferivano restare a casa, nelle loro tende.
Quando sono in travaglio queste mamme sono talmente tanto tranquille che nessuno potrebbe pensare che siano in una fase avanzata della dilatazione. Restano sdraiate sui loro letti o girano nella stanza, le contrazioni arrivano ma sembra sempre che non siano quelle da travaglio attivo e poi ti dicono che devono andare in bagno e dopo pochi minuti dalla latrina arriva il grido che annuncia la nascita di un bambino. È successo per lo meno tre volte in tre mesi, per fortuna non vanno mai in bagno da sole e c’è sempre qualcuno pronto ad accogliere il piccolo.Partorire sembra così naturale, così “animale”, una funzione del corpo... in tutto il mondo, ma noi ci abbiamo aggiunto tanta “testa” mentre loro continuano a farlo così, semplicemente.
Il posto culturalmente più “diverso” in cui sono stata è l’Afghanistan. Lì avere tanti figli è un dovere per cui ogni mamma ne ha otto, dieci, tredici, numeri ben più alti di quelli nei paesi africani che ho conosciuto.
Le mamme vengono a partorire accompagnate dalle suocere. Tutti gioiscono quando nasce un figlio maschio mentre se nasce una bimba non bisogna congratularsi con la mamma… sono tante le cose davvero dure da mandare giù. Come il fatto che se c’è bisogno di un intervento di emergenza bisogna chiedere al marito che è fuori dall’ospedale di acconsentire al taglio cesareo e questo prolunga tantissimo i tempi quando anche pochi minuti sono essenziali per il benessere di mamma e bambino.Non ho potuto conoscere il paese ma ho potuto incontrare tante donne bellissime.
La maternità di MSF a Khost è esclusivamente gestita da personale femminile e questo incentiva tanto le mamme a venire a partorire da noi; e lì dentro non esistono veli, si parla a voce alta, si ride, si scherza, si sogna tanto, ci si abbraccia e si condividono gioie e dolori legate alla vita ed al lavoro.
Nel compound, prima di accedere alla maternità, le donne sono tutte uguali, fantasmi blu che parlano a voce bassa. Ma varcata la soglia, cambia tutto!
Le ostetriche e il resto del personale afghano che lavoravano con me, erano tra le poche fortunate cui è permesso avere un impiego e lasciare la casa; hanno sposato qualcuno che hanno conosciuto tre giorni dopo le nozze, sono completamente soggette alla volontà dei propri padri o della famiglia del proprio marito dopo essersi sposate ma sono così curiose di sapere com’è il mondo fuori, di imparare tutto quello che possono sul lavoro, di continuare a studiare e di andare lontano anche solo con i pensieri.Ho avuto e ho ancora il piacere di stare accanto alle donne in diversi angoli nel mondo e qui in Italia.
Dando vita — è il caso di dirlo — con alcune colleghe a Maishamani, uno spazio dedicato alle mamme e alle famiglie per celebrare la vita in un momento che è tra i più ricchi: la nascita di un bambino e di una mamma, binomio inscindibile. E ancora non smetto di stupirmi per la profondità e la forza che ognuna di noi ha e che in quel momento speciale viene fuori. Come il liquido amniotico.Marianna Maselli | www.maishamani.it
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