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In Uganda a tre anni: emozioni e paranoie di una madre

In Uganda a tre anni: emozioni e paranoie di una madre

Mamme in viaggio Di Stefania Bergo. Uganda: la prima volta in Africa di una viaggiatrice di tre anni e mezzo e la sua mamma. Da Bologna a Kampala ad Aber, tra paranoie ed estasi.

Ricordo un giorno di novembre in cui, rientrando in casa con Emma ho pensato... Anzi, non era solo un pensiero, era un forte istinto, un suggerimento ad alta voce della mia mente, un bisogno corporeo, dell'anima... Ho sentito che avrei voluto partire, fare un viaggio, di quelli che ti impegnano un giorno intero, con lunghe tratte aeree e attese interminabili negli aeroporti di scalo. Ecco, ho avvertito cristallino questo bisogno e le parole sono uscite dalla mia bocca, quasi con un sospiro.
Qualche giorno dopo, Alessandro, il papà di Emma, mi ha comunicato che potevo raggiungerlo in Uganda...
Ho deciso tutto il giorno stesso, appena in tempo per fare le vaccinazioni a Emma, che allora aveva tre anni e mezzo, e prenotare un volo per Entebbe. Ancora più istintivo della mia prima volta in Africa. Ma con infinite responsabilità in più. Anzi una. La più grande.
SUGGERIMENTO
Per le vaccinazioni è bene sentire il pediatra o l'ambulatorio del viaggiatore, anche se solitamente sono meno informati dei viaggiatori stessi sulle malattie a rischio nel paese di destinazione. L'antitetanica e l'anti tifo sono generalmente indicate per i viaggi in paesi con diverse abitudini sanitarie e alimentari, come l'Africa, l'India, il Sud America e l'Asia, e comunque per i viaggi on the road, così come l'anti epatite A e B (se non già fatta nell'ambito delle vaccinazioni consigliate), in modo da tutelarsi da abrasioni infette e ingestione di liquidi e cibi non propriamente cotti o lavati (per cui si deve comunque avere la massima attenzione, soprattutto nei bambini). Nel mio caso, pur non essendo obbligatoria per l'Uganda, ho fatto a Emma anche l'anti febbre gialla, prevedendo safari e viaggi in paesi africani limitrofi a rischio. Oltre a questo, ho ovviamente scelto una profilassi antimalarica adeguata alla sua età (Malarone pediatrico, più leggero del Lariam, anche se da prendere quotidianamente, e ben tollerato).

Inutile dire che i nonni, tutti e quattro, mi abbiano subito scoraggiata.

Così come l'agente assicurativo cui ho chiesto una copertura per le settimane di soggiorno e che mi ha risposto: «Non esistono compagnie che assicurino per viaggi in Uganda, così come per tutti i paesi in guerra...». Che??! Lo ammetto, il mio entusiasmo ha vacillato un po'. Ad un passo dal sogno mi è persino balenata l'idea di rinunciare a realizzarlo, «perché forse certi sogni devono restare tali». No, questo no! Me ne sarei pentita per il resto della mia vita. Così come mi sarei pentita di aver voluto a tutti costi tornare in Africa, questa volta con Emma, se le fosse successo qualcosa di brutto. Ma allora, la metto sotto una campana di vetro e mi/ci impedisco di vivere e soprattutto volare?
Fortunatamente, avere un'amica cittadina del mondo (più di una in realtà) mi ha messo a disposizione molti più motori di ricerca di un agente provinciale che probabilmente non ha mai fatto un'assicurazione che non fosse legata ad un'automobile. E così, ho protetto il mio viaggio con World Nomads. E solo il nome mi ha fatto sentire una zingara felice di nuovo in partenza.
Le mie paranoie di madre mi hanno poi fatto segnalare sul sito della Farnesina il nostro itinerario e la permanenza ad Aber, un piccolo villaggio rurale nel mezzo del nulla, e rifornire la valigia di medicinali pediatrici, una sorta di kit di sopravvivenza pronte a tutto... O quasi. E subito il viaggio mi è apparso diverso. Io mi sono sentita diversa. Quante volte sono stata in Africa, la maggior parte delle quali nemmeno ho palesato la mia presenza all'ambasciata, sempre senza preoccuparmi di eventuali problemi sanitari, sempre con un bagaglio leggero. Ma lo spirito nomade di una madre ha sempre un po' di zavorra, pur volando libero nell'aria.

Si parte!

Parto una mattina di dicembre, molto presto. Questa volta non ho la mia valigia gialla, ma una più agile, scura. Emma è sveglia, sebbene siano appena le cinque del mattino, accoccolata come un koala nella fascia che mi sono fatta cucire dalla mia mamma, in modo da poterla tenere in braccio e allo stesso tempo avere le mani libere per il bagaglio e i documenti di viaggio.
SUGGERIMENTO
Per neonati o i bambini ancora piccoli, sotto i due anni d'età, vanno benissimo le fasce elastiche, quelle strisce lunghe circa quattro metri con cui legare i bambini a sé e avere e mani libere per valige e documenti di viaggio o per sgranocchiarsi uno snack, mentre i pargoli se la dormono tranquillamente o si godono, comunque al sicuro e senza stancarsi, il mondo che li circonda. Quando sono un po' più grandi, però, la fascia elastica non va più bene, è scomoda sia per il peso del bambino sia per il fatto che dopo i due, tre anni, non è che si possano tenere legati tutto il tempo: hanno bisogno di andare in bagno, voglia di muoversi e di esplorare. Serve qualcosa di più pratico e veloce da accomodare! Io mi sono fatta ritagliare da mia madre un semplice telo di cotone robusto (lo stesso con cui ho creato la sua culla sospesa) a forma di trapezio, cucendo poi due strisce, tipo bretelle, lungo le basi. Con una bretella, quella sul lato più lungo, legavo la "fascia" ai miei fianchi, di lato, con due nodi; poi prendevo in braccio Emma, sempre di lato, con una gamba davanti alla mia pancia e una dietro alla mia schiena; poi legavo l'altra bretella sulla mia spalla opposta, in modo che il trapezio la avvolgesse.
I nonni ci salutano commossi, mentre percorro il sentiero obbligato tra le cinghie che delimitano la fila di accesso ai controlli. E mentre loro sentono il cuore pesare sempre di più, potrei giurarci, io inizio a sentirmi leggera. Entusiasta. Sto tornando in Africa e ci sto andando con Emma! Un sogno che diventa realtà grazie alla concomitanza di eventi favorevoli e alla generosità di Ale, un Babbo Natale che sta aspettando la sua bimba che non vede da quasi due mesi.

Emma sull'aereo e all'aeroporto di Bruxelles (al ritorno)

Viaggiamo con la Brussels Airlines. 

Dopo lo scalo a Bruxelles, dove benedico la fascia di mia madre per gli spazi interminabili da percorrere velocemente, saliamo sull'aereo che finalmente ci porterà in Uganda. Emma è felice. Felice di viaggiare con la sua mamma, felice di andare da papà. Per lei è tutto una sorpresa: la piccola televisione incastonata nel sedile anteriore, «il film delle patate» (Cattivissimo me 2, ndr), il menù da bambino con un set per colorare in regalo, il gelato servito tra le nuvole, persino il piccolo bagno in cui si può lavare la mani da sola salendo sul water. Si addormenta già carica di esperienze e io mi incanto a guardarla, godendomi la sensazione del viaggio.
Finalmente arriviamo a destinazione che è ormai sera. Il caldo dell'Africa non ci coglie certo impreparate. Vestite di vari strati, ci sbucciamo come due banane e, con Emma nella fascia, mi metto in fila per il visto d'ingresso in Uganda. Comincio ad avvertire un frullo alla bocca dello stomaco: ali di farfalla che si dimenano. Mi commuovo respirando l'aria che, oltre al tepore e all'umidità, porta dentro di me i ricordi. Riapro gli occhi, destandomi dal mio momentaneo stato di trance, e inizio a spiegare alla mia cucciola tutto quello che stiamo facendo e che ci aspetta. Soprattutto papà, che attende oltre la porta a vetri, dopo il recupero bagagli. Emma lo accoglie col sorriso più bello del mondo e lo abbraccia, scostandosene di tanto in tanto per metterlo a fuoco e non confonderlo con un sogno. Per lei poco importa che tutt'intorno ci sia l'Africa. È di nuovo col suo papà dopo una lunga mancanza! L'unica sensibile a tutto il resto sono io, sebbene di tanto in tanto assapori anche lo spettacolo del loro incontro.

Sulla strada per Aber

Trascorriamo la notte a Kampala, nella casa del CUAMM (il datore di lavoro di papà), dopo un viaggio di quasi un'ora nel buio. 

Come la prima volta, nove anni fa. Ma ora so cosa mi aspetta il giorno dopo e questo basta ad illuminare ciò che mi circonda e a gustarmi la strada. Ripongo in valigia gli indumenti pesanti e mi addormento nel mio bozzolo con Emma.
Il mattino seguente, mentre aspettiamo l'autista dell'ospedale Pope John XXIII, nostra destinazione finale, scendiamo sulla main road a fare qualche spesa per i volontari rimasti ad Aber. Emma, con gli occhiali per il troppo sole, avverte finalmente il caldo dell'Africa, vede i suoi colori, la sua industriosa confusione, la "marmellata" di macchine, i negozi con la merce apparentemente in bilico, le caprette che pascolano tra i rifiuti negli scoli. Chissà cosa pensa, mi chiedo. Chissà se anche lei si sta innamorando, come è successo a me. Io sono ubriaca di stimoli e ricordi. Felice!

Finalmente l'autista arriva. Carichiamo i bagagli sull'ambulanza. E tutto mi appare ancor più familiare, come se mai me ne fossi andata, come se i quasi quattro anni trascorsi in Italia non fossero mai esistiti.

Mi sento a casa da sempre. Emma ride nel vedere la jeep carica, accomodandosi tra le valigie e la spesa fatta ieri da papà. Ma si addormenta poco dopo.
Io mi sintonizzo sul paesaggio. Forse per la vicinanza geografica, la natura mi restituisce un commovente déjà vu, un inspiegabile rattoppo della mia vita al momento in cui ho lasciato il Kenya, non come se gli anni altrove non fossero esistiti ma come se li avessi vissuti lì, in realtà, con tutto il loro accaduto. Uscire dalla città densa di persone scorgendo la vastità, gli alberi, il bush, il verde intagliato da sinuose lingue di terra rossa, i mercati agli angoli della strada, la gente che cammina (sempre), i mendicati che chiedono, le mamme che indossano i colori e portano i loro figli legati sulla schiena, i sorrisi di una terra disgraziata e generosa, il profumo della frutta, i fiumi portatori di vita, il sole caldo a picco, stagliato nel cielo di un azzurro mai scordato. Tutto mi appartiene nel ricordo.

Il viaggio è lungo, ma immancabilmente piacevole e divertente.

Malgrado ad ogni bump sulla strada le patate rotolino da un angolo all'altro dell'abitacolo e le valigie tendano a rovinarci addosso e schiacciarci contro i finestrini, arriviamo sane e salve ad Aber, nel buio, sotto ad una pioggia antipatica ma senza grosse pretese. Aber è un villaggio rurale, sorto attorno alla lunga lingua di terra rossa battuta che è la strada principale. Entriamo in casa, «quella dell'Africa», e subito Emma ed io cominciamo ad esplorarla, in cerca degli accenni di descrizione fatti via etere da papà. La casa è davvero ampia, con un grande salone d'ingresso, l'angolo cucina, un corridoio centrale su cui si aprono due stanze da letto e il bagno. Tutto ovviamente molto spartano: i pavimenti di vernice rossa e gli arredi costruiti presumibilmente sul posto... Incantevole! Emma ritrova subito la zanzariera rosa che avvolge il suo lettino come «la capanna di una principessa», così come gliel'ha descritta papà al telefono. E io quella più grande che racchiude il letto matrimoniale come in un bozzolo... E ancora una volta si risolve la discontinuità temporale tra questo mio nuovo viaggio e la mia lunga permanenza trascorsa in Kenya.

Emma ad Aber

Paranoie e nuovi amici

La paranoie di madre rovinano i miei primi due giorni di soggiorno (o forse solo qualche ora...), tutta intenta ad evitare qualsiasi contatto accidentale tra il cavo orale di Emma e l'acqua non potabile. Che tra l'altro termina di fluire quasi subito dai rubinetti della nostra dimora e ci ritroviamo, quindi, a dover riempire ogni giorno due grandi taniche dalla pompa manuale all'esterno della casa, oltre a bollire l'acqua per l'igiene personale, il lavaggio delle stoviglie e ovviamente per il filtro per la potabilizzazione. Una scomodità che si risolve presto grazie al nostro spirito d'adattamento (Emma impara subito quanto possa essere divertente lavarsi dentro una grande bacinella azzurra versandosi addosso caraffate d'acqua tiepida) e all'aiuto di Polly, la nostra house keeper, che mi aiuta ogni giorno nei lavori domestici e nella preparazione del pranzo (avendo anche più idee sul menù con le materie prime limitate a disposizione), mentre Emma ed io ci concentriamo sull'Africa. Questa volta, infatti, non sono qui per dedicarmi agli altri, ma per vedere questa amata terra attraverso gli occhi di mia figlia e gustare fino all'ultima emozione le sue reazioni di fronte ad una realtà tanto diversa dall'unica che fin'ora abbia sperimentato.

Emma ad Aber e con Samuel e Francesco

Conosciamo la famiglia di cui papà ci ha parlato: Marco e Maria Grazia (un educatore e un medico) qui in Uganda ormai da due anni a mezzo con i loro figli, Francesco e Samuel, rispettivamente di quattro e tre anni. 

Emma trova dunque due nuovi amici con cui trascorrere la mattinata e il pomeriggio, mentre il suo papà lavora nell'ufficio delle sister per l'informatizzazione dell'ospedale. Forse non si accorge nemmeno dell'Africa tutt'intorno, del sole caldo di inizio dicembre, dei pazienti dell'ospedale che passano e si distraggono per qualche secondo seguendo i nastri colorati del kiwido che i bambini fanno roteare in aria, del canto del gallo che ci accompagna ad ogni ora del giorno e della notte, delle donne che caricano fardelli sulla testa e li trasportano in perfetto inspiegabile equilibrio, delle lenzuola stese sull'erba ad asciugare, del profumo del pranzo a base di fagioli e matoke fritte, dell'aroma degli arrosticini e del reggae parimenti dispersi nell'aria dal pub di Toni, delle capre che ruminano gli scarti della cucina e le immondizie, della musicalità di una lingua non conosciuta, della terra rossa che lascia l'indelebile marchio sulle scarpe, del senso di libertà che restituisce sedersi nel fango a giocare senza preoccuparsi delle conseguenze, delle farfalle che colorano il cielo. O forse sí.

Il safari

Riusciamo anche a concederci un safari, per vedere da vicino almeno qualcuno degli animali di cui tanto ho parlato ad Emma.

Grazie alla disponibilità di Marco che ci accompagna con il suo piccolo fuoristrada. Ovviamente, anche Francesco e Samuel vengono con noi, rendendo la giornata ancora più indimenticabile. Sotto gli occhi meravigliati (meravigliosi) di Emma sfilano buffi facoceri, scimmiette dispettose e babbuini, elefanti in compagnia degli affezionati uccellini a caccia di parassiti tra le pieghe della loro pelle incartapecorita, giraffe che camminano oscillando il morbido collo o si grattano le guance con i rami alti degli alberi, mandrie di gazzelle e gnu saltellanti, bufali immobili nell'erba alta, volatili di ogni dimensione e colore. Attraversiamo il Nilo su un traghetto e ci dirigiamo verso le Murchison Falls, le cascate color caffellatte che fanno da sfondo alla nostra miglior foto ricordo.

Murchison Falls e terra rossa

Il giorno dopo, mi accodo a Giovanni alla fine del suo turno e gli chiedo di farmi visitare un po' l'ospedale, il Pope John XXIII

Essendo solo il secondo ospedale missionario di cui abbia esperienza, il paragone con il St. Orsola di Matiri (Kenya) mi risulta inevitabile. L'odore acre delle camerate mi ricorda il mio primo giorno a Matiri, quando l'ho considerato sgradevole. E mi ritrovo a sorprendermi, pensando al fatto che, nel tempo, quello stesso odore sia diventato familiare, a tal punto da non avvertirlo nemmeno più. I pazienti siedono lungo i corridoi porticati affacciati su un chiostro centrale erboso. Vedo delle donne che macinano il grano con delle pietre.
Una differenza con il Kenya che mi salta subito agli occhi durante il mio giro guidato, è l'atteggiamento degli ugandesi, almeno di quelli del bush. Abituata a salutare chiunque incrociassi lungo il mio cammino, conoscenti e non, mi sorprendo che qui sorridano solo se ti conoscono o in risposta alla tua cortesia. Nessuno di loro saluta a prescindere. Nessuno che sorrida senza apparente motivo o tenda la mano. E questo, da un lato, è positivo. Credo significhi che non abbiano bisogno, che non si sentano quasi in dovere di essere accondiscendenti. O forse, semplicemente che siano persone più riservate dei kenioti.

Ospedale Pope John XXIII di Aber – Uganda

Le settimane ad Aber volano, senza nemmeno lasciarmi il tempo di vedere le stelle, il cielo denso che tanto mi manca e che solo lì, lontano dall'inquinamento luminoso, si può vedere. 

Onestamente, non mi sono ricordata di alzare lo sguardo ogni volta che rientravamo a casa, nel buio, dopo aver giocato tutto il pomeriggio o essere stati al villaggio a fare spese o aver visitato il vicino orfanotrofio. Ero troppo concentrata in basso (solo in termini di altitudine), su Emma e la sua meraviglia, le sue reazioni ad una realtà che a me (adulta) appare tanto diversa da quella che solitamente viviamo, ma che forse a lei sembrava solamente nuova.
Rientriamo in Italia separatamente da papà, che aveva già prenotato il suo volo molto prima di sospettare di poter portare in Africa sua figlia.
Partiamo di notte, questa volta. Dopo la cena e l'ormai consueto «film delle patate», Emma si addormenta e riposa comoda e tranquilla fino a destinazione, mentre io mi siedo meno comodamente per terra e cerco di dormire con la testa appoggiata al bordo del sedile (soluzione trovata anche da un'altra mamma che, proprio dinnanzi a me, cerca di coprirsi con il lembo della coperta che penzola dai sedili dove dormono beatamente i suoi due bambini... Ah, le mamme!).
Facciamo scalo a Bruxelles più di nove ore ed Emma riesce a godersi pure l'attesa come un gioco, assaporando il viaggio a tal punto da giungere a un'importante decisione: «Mamma, voglio vivere qui, all'aeroporto... Perché io voglio andare da tutte le parti!».
Direi che non c'è nulla da aggiungere.



Stefania Bergo


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