Gli scrittori della porta accanto

Aìli che voleva correre, di Adriana Pillitu: incipit

Aìli che voleva correre, di Adriana Pillitu: incipit

Incipit #69 Ricordo ancora il pomeriggio in cui ricevetti la telefonata del mio capo. Dopo che avevo ascoltato le sue parole, realizzai che avevo il mio primo servizio!



Aìli che voleva correre

di Adriana Pillitu
Narrativa
Zerounoundici Edizioni
cartaceo 6,87€
ebook 2,99€


Mi era stato affidato, dal giornale in cui lavoravo come free lance, l’incarico di raccontare la nuova migrazione dei popoli, di indagare il senso profondo di quella ricerca di nuovi scenari di vita per sfuggire a ferite inferte da povertà, guerre, dittature.
Era un lavoro nuovo e impegnativo che mi avrebbe portato lontano da quella quasi soddisfacente nicchia che era il raccontare episodi reali individuati da informazioni correnti.
Seduto alla scrivania del mio studio, quel pomeriggio d’inizio estate, incominciai a riflettere sulla mia imminente avventura aspettando un’intuizione che mi dicesse da dove dovevo incominciare il nuovo incarico; finora avevo avuto a disposizione orizzonti brevi, noti, che poco mi aiutavano a costruire scenari ampi.
Genova, quel giorno, era addolcita da una luce particolare, che penetrava dalle tende accostate.
Dalla finestra del mio studio potevo vedere uno scorcio del porto. A quell’ora i pescherecci si preparavano a staccarsi dalla banchina per affrontare il mare aperto, con tutte le sue incognite. Riuscivo a scorgere tre barconi da pesca, in fila, uno di fianco all’altro. Mi giungeva lo sferragliare degli argani che avvolgevano le reti da pesca, le grida dei pescatori che si parlavano a voce alta, imprecavano, cantavano a squarciagola, mescolando canti e imprecazioni. Compivano gesti solenni e abituali, signori e sudditi di un regno senza regnante. Il mare era il vero sovrano. La nave incide l’acqua che sembra cedere, arrendevole, per poi richiudersi subito dopo, a riaffermare la sua sovranità. I tre pescherecci, ormai pronti, attivarono le sirene, la prima, la seconda, la terza e via in mare aperto, con i suoni che laceravano l’aria.
Ritornai ai miei pensieri, dai quali quella breve scena mi aveva distolto. Anche a me aspettava un viaggio in mare aperto e ancora non sapevo come lo avrei affrontato.
Partii per l’Isola qualche giorno dopo.

Quella mattina decisi di esplorarla, l’Isola.

Perché avevo scelto quel luogo? Perché quella era un’Isola che, immersa in un mare antico, si affacciava al mondo. Era lì, il mondo altro, così diverso per me, così lontano dalla mia vecchia rassicurante Europa. Non mi ero mai spinto così a sud, era la prima volta.
Mi pareva che proprio quello dovesse essere il mio punto d’inizio, uno spicchio di mondo nel quale confluivano culture diverse che da secoli si mescolavano, si contaminavano, si intrecciavano, uscendone più ricche. Crocevia di Popoli e Culture.
Abituato a paesaggi di mare, nella mia Genova, abbracciai con un unico sguardo il panorama, da quel punto alto nel quale mi trovavo e rimasi folgorato dalla sua bellezza. Una lingua di terra, scogli alti e bianchi, si avventurava nel mare, che la faceva da padrone, dominando tutto con la maestosità della sua forza e si gettava sulla costa alta divorando, a ogni slancio, un pezzetto di roccia. L’onda, esperta ricamatrice, con la velocità dei suoi gesti, generava merletti suggestivi.
C’era stata burrasca nei giorni passati, avevano detto in paese e il mare, ancora, non si era acquietato.
Incominciai a scendere lungo il sentiero che portava giù alla spiaggia, una piccola caletta nella quale, solitario, un vecchio pescatore, seduto sulla sabbia, riparava la sua rete da pesca.
Mi rivolse uno sguardo benevolo, come di persona abituata.
Parlando tra me, mormorai: «Sembra che voglia divorare tutto» mentre guardavo affascinato il mare.
«Eh, sì, è lui che comanda! Il mare decide quando possiamo prendere le barche e andare al largo o quando dobbiamo restare qui, a casa» rispose il vecchio e guardò lontano, assorto, alla ricerca di immagini di vita spesa a obbedire al mare. Le sue parole furono sottolineate da un’onda altissima, che, sul lato sinistro, si scagliò sugli scogli con grande rumore e ritornò indietro. Il mare faceva sentire la sua voce per affermare ancora la sua potenza e il vento e la risacca componevano un crescendo invadente.
«Il confine naturale di un’isola è il mare» continuai, «è il mare che racchiude la vita, che dà e toglie, che nutre e imprigiona. Ma il mare è anche una via di fuga.»
«Mmmh…» rispose il vecchio. «Molti ne vengono e molti ne muoiono. Al camposanto non abbiamo quasi più posto. Sono poveri disgraziati che fuggono, attraverso il mare, dal loro triste destino e non sanno che qui li mettono nei recinti. Alla nostra miseria si aggiunge la loro disperazione. Ma tu perché sei qui?» mi chiese squadrandomi da capo a piedi e accorgendosi che non ero un turista.
Aveva gli occhi liquidi, indagatori e tutta la saggezza data dall’età e, forse, da una vita non facile.
«Sono qui per raccontare l’immigrazione, è il mio mestiere: ascoltare, capire, raccontare e farne partecipe il mondo» risposi con sicurezza, anche se non era proprio sicurezza quello che provavo.
Mi faceva piacere chiacchierare con quel vecchio, mi sentivo partecipe e, nello stesso tempo, oggetto di interesse, quell’interesse autentico e profondo per l’altro che incita a dare il meglio di sé. Potevo guardarlo dritto negli occhi e nel profondo del suo sguardo potevo scorgere tutto il suo calore. Ma anche se percepivo il suo sguardo accogliente, lui non disse nulla e non replicò alle mie parole, concentrandosi nuovamente sul suo lavoro.

«Comunque io mi chiamo Guido» e mi avvicinai porgendogli la mano. «Guido Costa.»

Nonostante il suo silenzio, percepivo la benevolenza del suo animo, ma non avrei saputo spiegare il perché.
Mi avviai lungo il sentiero, su quel terreno brullo e arido, arato dal vento, fra cespugli antichi, sopravvissuti, nei tempi, alla crudezza della salsedine; piccole piante, che sembravano nascere dal nulla, tanto arido era il terreno, ma con forza sbocciavano alla vita, punteggiate da allegri fiori gialli che offrivano i loro calici ad avidi insetti. Sembrava una terra ostile, arida e sfuggente a prima vista, ma poi la scoprivi piena di vita, certamente non rigogliosa ma, a suo modo, vitale sotto la sferza del sole che non la fiaccava. Quella terra, sfuggente a uno sguardo superficiale ma ricolma di vita, era la metafora del vecchio pescatore, in apparenza inaridito dalla vita e dal sole, dal vento, dalla salsedine che si depositava sulla sua pelle, ma con l’anima gentile e protesa verso l’altro, pronta a perdonare le debolezze e le contraddizioni dell’umanità.
Risalii, dunque, lentamente, senza fretta, assaporando quella atmosfera arcana dove tutto mi riportava al mito e alla storia. Tuttavia non l’isola, ma il mare attirava ancora la mia attenzione e aggrovigliava i miei pensieri. Il mare, il viaggio attraverso l’elemento liquido, informe, primordiale, da cui tutto ha avuto origine, rappresenta la partenza verso il nulla, verso la morte che conduce alla rinascita, alla nuova vita. Incominciavo a intravedere le prime case alla fine del sentiero che mi avrebbe portato al paese; in quel punto il sentiero sembrava stranamente deserto, anche i vacanzieri e i loro bambini che a quell’ora si potevano vedere girovagare senza meta alla scoperta di quella natura a loro estranea, erano assenti.
Da lontano sentivo giungere uno strano vociare, tante voci confuse che si traducevano in rumore, una voce superava le altre, metallica, artificiale. Allungai il passo e mi affrettai, curioso di scoprire che cosa stava succedendo. Giunsi nella piazza principale della cittadina, la solita piazza che generalmente ospita il Municipio e la Chiesa e che si offre come punto di ritrovo per le attività sociali di una piccola comunità.
La piazza era gremita, le persone agitate, a tratti urlanti, qualche giornalista riprendeva la scena, che, oramai era chiaro, era una manifestazione. Mi rivolsi alla donna che mi ritrovai di fianco e che, con forti esclamazioni, sottolineava le parole dell’oratore, un politico pomposo e roboante che, da un palco, attraverso un microfono, arringava la folla. Le chiesi la ragione di quella manifestazione. Con parole concitate e accorate mi spiegò che la rabbia delle persone nasceva dal senso di abbandono che l’isola viveva. Da soli e con solo le loro forze, giorno dopo giorno, si ritrovavano impegnati nell’accoglienza di immigrati che, a bordo dei loro barconi, sceglievano quell’approdo per la loro salvezza. Barconi carichi di volti e di corpi, di sguardi e di sorrisi, di dolori e di speranze. Talvolta corpi senza più vita nel fondo della barca, talvolta il ricordo di cadaveri abbandonati in mare aperto. Talvolta, bambini e mamme. E nell’intreccio delle strade del paese si ritrovano mondi che non sempre riuscivano a convivere. La generosità e la solidarietà della gente dell’isola non poteva bastare.

Ricordai le parole del vecchio: alla nostra miseria si aggiunge la loro disperazione.

Dal piano più alto del palazzo del Municipio, sventolava la bandiera dell’Europa, dodici stelle gialle disposte in cerchio su fondo blu, ma nel centro del cerchio… un grandissimo punto interrogativo dominava sulla corona delle dodici stelle color dell’oro. Il messaggio degli isolani era chiaro. La nave, simbolo dello Stato che lotta con il proprio destino, andava ricondotta al porto sicuro, le stelle della bandiera europea non simboleggiavano più la perfezione, la completezza e l’unità. La grande contraddizione della nostra società era palese: da un lato la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani nata, dopo la seconda guerra mondiale, dalla suggestione delle barbarie commesse contro l’umanità, nella quale si afferma che la vita e il rispetto di essa è un valore assoluto, custode della dignità umana e ancora, la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti umani. Dall’altro, la condizione dei migranti, la violazione dei loro diritti, lo spregio della loro dignità. Convenzioni giuridiche, alle quali molte altre si sono aggiunte nel corso degli anni, leggi morali che non possono essere in contraddizione con le diverse realtà di questo mondo, che non possono sottrarre l’umanità alla condizione di appartenenza alla famiglia umana, abitare la Terra, casa comune.
Mi dissero che il giorno prima un barcone, carico di migranti, alla deriva in mare aperto, era stato tratto in salvo. A bordo undici corpi ormai abbandonati dalla vita.
Su invito del medico del paese, mi recai nella sala mortuaria del cimitero, grande spazio dove potevo osservare un mare di croci infisse fra i sassi della terra, alcune avevano inciso i nomi, altre anonime, con numeri al posto dei nomi.
Fu là che vidi per la prima volta Aìli, un corpo minuto, esanime, su un freddo tavolo in acciaio. Rimasi colpito dall’espressione di quel volto, del colore dell’ambra, giovane, disteso, quasi sorridente, come di chi ha finalmente trovato la pace a lungo cercata. Sembrava dormisse, con il corpo rannicchiato, in posizione fetale. La visione di quel corpo acerbo si impadronì dei miei pensieri, non riuscivo a distaccarmene. Sentivo di dover fare qualcosa per renderle omaggio, perché anche lei, come molte, non fosse una delle tante vittime, senza nome e senza storia, ignote, e proprio perché ignote, incapaci di scalfire le coscienze del mondo.
Quella sera, affidai i fantasmi della mia mente al mio diario, sul quale ero solito scrivere quasi ogni sera prima di dormire. Una sorta di rito che mi liberava dagli incubi del giorno. Randagio senza pace nell’anima. E a poco a poco quella figura di persona era di nuovo viva, e la immaginai bambina e adolescente nella sua terra, con la sua famiglia, i suoi amici, con i suoi sogni e le sue speranze.
Ecco che cosa dovevo fare: avrei scritto la sua storia, seppur immaginandola. La sua figura, non più anonima, avrebbe preso corpo, e forse qualcuno, leggendola, l’avrebbe per un attimo riportata in vita anche se solo nella ribalta dei pensieri. Sarei stato dunque io la voce narrante di Aìli. La sua storia, un sogno a occhi aperti, i miei. Incominciai a scrivere freneticamente seguendo solamente la mia immaginazione.

Quarta di copertina
Aìli che voleva correre, di Adriana Pillitu (Zerounoundici Edizioni), 2015.

Aìli che voleva correre è la storia di un sogno e di un viaggio. Anzi, due: il viaggio di una ragazza di nazionalità etiope che recide il legame con il suo passato, la sua famiglia e la sua terra per la realizzazione di un sogno, e il viaggio interiore di un giornalista, Guido, il quale, attraverso il racconto della vita di Aìli e della sua morte, interroga la sua coscienza e vive la sua trasformazione. Parte da Genova, la sua città, per un'isola del Mediterraneo. Colpito dai corpi privi di vita che vede nell'obitorio del cimitero, si sofferma su quello di una giovane ragazza. La sua morte lo turba profondamente e decide di scriverne la storia, immaginandola. La ricostruzione della vita della ragazza, come persona ma soprattutto come donna, sarà per il giornalista l'occasione di intraprendere un suo viaggio interiore, che lo porterà alla consapevolezza di sé e dei valori sopiti nella sua anima. La sua vita, umana e professionale, acquisterà da quel momento un significato nuovo.

★★★★★

Il buon giorno si vede dal mattino, dicono, e un buon incipit e una copertina accattivante possono essere il perfetto bigliettino da visita di un libro.
Secondo voi, quante stelline si merita il biglietto da visita di questo libro?

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