La fila di croci sembra non avere mai fine.
Croci bianche tutte uguali, incolonnate a presidiare il loro metro di terra ai piedi della collina.
Le vedo scorrere come dei soldati in parata.
Questo è ciò che rimane, penso, mentre dal finestrino aperto dell’automobile, l’aria calda di luglio mi accarezza il volto. Non siamo indispensabili per nessuno, il vuoto che lasciamo viene sempre riempito da qualcos’altro.
Estranea a ogni faccenda umana, la Neretva è un’apparizione luminosa. Da qualche chilometro, le anse del fiume ci accompagnano attraverso le colline: l’acqua è verde scura, eppure tersa, priva di detriti, gelida anche d’estate. La guardo scorrere e forse capisco cosa intendono quando raccontano storie sullo spirito del fiume, forse intuisco quale misteriosa forza si nasconda dietro questo incessante moto dall’alto verso il basso. Anche noi ci stiamo muovendo, nonostante le croci bianche, nonostante la nostra inadeguatezza, andiamo avanti e più ci allontaniamo dalla costa dalmata più sappiamo che non sarà semplice tornare indietro.
Cerchiamo delle risposte ma non credo che le nostre domande siano quelle giuste. Forse dovrei sparire anche io, ignorare ogni scarto e ogni possibilità di fuga per abbandonarmi all’acqua che scorre, lasciando il mondo durante un’ultima estate di meraviglia.
Ma non sono un uomo così coraggioso.
Respiro profondamente, una, due, tre volte.
La ripetizione mi conforta, sapere che a una cosa ne seguirà sempre un’altra, e poi ancora senza interruzione, seguendo un ritmo naturale che non può ammettere spazi vuoti.
La strada ora è più ripida, il paesaggio sta cambiando, l’ombra dei boschi ci avvolge e il mare diventa un ricordo lontano. Nell’automobile entra l’aria dei primi monti Balcanici, gli aspri dirupi carsici dove trovavano rifugio i seguaci del bano Domagoj, pirati ferocissimi che infestavano le coste della Dalmazia e dell’Istria veneziana.
Queste sono sempre state zone franche, luoghi segreti, ultimi nascondigli, apparizioni di leggende. Ma arrivati a questo punto non posso accontentarmi di pensieri fuggenti.
Ci fermiamo su uno spiazzo erboso per sgranchire le gambe.
Sono le tre del pomeriggio, fa molto caldo, non c’è un filo di vento e la vallata sembra deserta.
Viaggiamo solo noi, lungo la strada per Mostar.
Davide guida silenzioso, in bocca ha una sigaretta croata.
Durante questo viaggio parliamo poco. Siamo entrambi delusi, affaticati da una vita che consideriamo ingiusta. Naturalmente ci stiamo sbagliando, a prescindere da ogni scelta e da ogni responsabilità personale, abbiamo sempre vissuto in un paesaggio umano scolpito dal privilegio. Per capirlo siamo dovuti ripartire, vedere da vicino cosa significa essere vittime, essere braccati da un nemico che non concede quartiere. Ogni confronto è improponibile ma adesso almeno l’orizzonte è diventato molto più semplice, quasi ordinario.
Sebbene con un poco di ritardo, la nostra giovinezza sta volgendo al termine, fra pochi mesi saremo entrambi costretti a fare delle scelte importanti. Io sono a un passo dalla laurea in Lettere, a conclusione di un percorso di studi brillante sebbene troppo discontinuo. La discussione della tesi certificherà la fine di ogni attesa e di ogni giustificazione. Davide invece deve decidere se intraprendere una nuova strada che potrebbe essere rischiosa o anche solo inutile.
Per il momento abbiamo bisogno di tacere poi vedremo cosa succede.
Le croci sono finite, non ci sono più ostacoli fra noi e la fitta trama degli alberi. Mi piace tenere la testa fuori dal finestrino, lo facevo anche da bambino. Annuso, osservo, catturo il vento con le mani, creando forme tonde, immagino grandi natiche generose. Ma il paesaggio è immobile, potenzialmente ostile, resiste un’obbligata tregua che sarebbe un errore scambiare per serenità. Non riesco a scorgere nessun movimento, lo sguardo si perde dentro ai boschi, uomini e bestie stanno tutti nascosti al riparo, in attesa della frescura notturna.
L’interruzione dura pochi minuti, il tempo necessario per attraversare il confine fra un paese e quello successivo, quando siamo di nuovo costretti all’evidenza della guerra.
Comincia la distesa delle mezzelune.
Sono centinaia, candide, della stessa dimensione delle croci, disposte nella stessa lingua di terra, alla stessa identica distanza. Un altro cimitero, questo è islamico.
E sembra non finire mai.
La guerra in Bosnia invece è finita da circa sette mesi, quando a Dayton, una sconosciuta cittadina militare dell’Ohio, sotto lo sguardo colpevole degli Stati Uniti, della Russia e della Comunità Europea, i belligeranti serbi, croati e bosgnacchi, i bosniaci di fede musulmana, hanno firmato l’accordo di pace che divide il paese i due zone amministrate autonomamente: una dai serbi con capitale Banja Luka e l’altra da una federazione formata da croati e bosgnacchi con capitale Sarajevo. Almeno così dovrebbe essere, in realtà sulle montagne si continua a sparare e i gruppi paramilitari di tutte le fazioni sono armati e bellicosi. Questa è zona di guerra, superate le postazioni dell’esercito croato che controllano il confine alla fine della pianura, non abbiamo ancora incontrato un’automobile civile lungo la strada, solo blindati militari dell’IFOR, la forza multinazionale della NATO, schierata in Bosnia con il mandato di fare rispettare la fragile pace e i nuovi confini.
Davide e io, a bordo di una vecchia Panda marrone con il tettuccio apribile, viaggiamo solitari ma determinati a proseguire. Dobbiamo raggiungere Sarajevo, la capitale della Bosnia Erzegovina in fiamme.
Fino a ieri sera eravamo ancora in Croazia. Trascorrevamo le vacanze in un’isola chiamata Hvar, celebre per la bellezza del mare, il vino bianco, le coltivazioni di lavanda e le piantagioni di marijuana clandestine. Un luogo riparato, dove la guerra ha fatto pochi danni, riuscendo comunque a infiammare il nazionalismo di gente che non ne aveva mai sentito il bisogno. Alloggiavamo in un piccolo appartamento nel centro rinascimentale di Stari Grad, insieme a due amiche di Milano che hanno preso un’altra decisione e quindi un’altra strada. È bastato un incontro casuale a farci cambiare idea sul proseguimento della nostra estate. Tre ragazzi di Sarajevo hanno affittato la camera di fianco alla nostra. Li abbiamo incontrati sul terrazzo comune, erano appena tornati dalla spiaggia. Al più giovane di loro, Edin, mancava un braccio e aveva mezza faccia devastata dalle ustioni.
«È stato il proiettile di un mortaio.»
Ci ha spiegato in inglese, leggendo la domanda nei nostri sguardi attoniti di ben cresciuti ragazzoni italiani senza una macchia sulla pelle. Un proiettile qualsiasi dei migliaia caduti durante l’interminabile assedio alla città è esploso a tre metri da lui mentre tornava a casa da scuola. I suoi amici erano fisicamente integri ma accomunati dal dolore della giovinezza violata.
«Andate a Sarajevo, non restate qua.»
All’inizio non abbiano capito ma Edin ha insistito.
«In questo posto non servite a niente. Questa è una vacanza al mare, in un luogo turistico qualsiasi, ne avrete già fatte tante. Andate a Sarajevo, andate e guardate quello che è successo durante questi anni feroci, guardate quello che ci è rimasto dopo la guerra civile. Guardate le ferite delle persone, i quartieri distrutti, l’ombra nera dei roghi, i crateri nelle strade, i volti dei bambini, gli orfani senza casa, ogni cosa dovete guardare. Noi dobbiamo rialzarci e abbiamo bisogno dei vostri occhi.»
In questo posto non servite a niente, «Here, you are useless», così ha detto Edin. Non avevo mai pensato che la mia vita potesse servire a qualcosa.
Al mattino presto siamo partiti, è stata una decisione più semplice di quanto ci aspettassimo. Abbiamo percorso l’isola di Hvar per tutta la sua lunghezza e al porto di Sućuraj ci siamo imbarcati su un piccolo traghetto guarnito di luci colorate. Tornati sul continente, abbiamo deciso di lasciarci a sud la bellezza perduta di Dubrovnik e le sue anonime pizzerie seriali, per immergerci subito dentro alla ferita aperta della Bosnia Erzegovina: la terra dei valorosi Illiri, del Duca, dei Bogomili, dello zar Stefano Uroš IV Dušan il conquistatore. La terra del Magnifico Sultano Ottomano.
Trascorse due ore di viaggio, stiamo ancora guidando, procediamo lungo la Valle della Neretva in direzione di Mostar. Mi vedo di nuovo viaggiare su queste strade, lontane eppure così familiari, ripercorse lungo un tracciato disegnato da altri.
I ricordi possono ingannare, l’odore dell’estate balcanica è più forte di sempre. Ma ho molto tempo per pensare, per tentare di riannodare i fili sparsi della memoria.
Quando è stata la prima volta?
Quando è che la storia è ripartita tumultuosa senza chiederci il permesso? Come siamo arrivati a questo punto? Deve per forza esserci stato un inizio, una scintilla scatenante.
Sono passati tanti anni, ero piccolo allora.
Mio padre guidava il pulmino Volkswagen rosso.
Mia madre e mia sorella cantavano canzoni.
Era l’estate del 1981.
Croci bianche tutte uguali, incolonnate a presidiare il loro metro di terra ai piedi della collina.
Le vedo scorrere come dei soldati in parata.
Questo è ciò che rimane, penso, mentre dal finestrino aperto dell’automobile, l’aria calda di luglio mi accarezza il volto. Non siamo indispensabili per nessuno, il vuoto che lasciamo viene sempre riempito da qualcos’altro.
Estranea a ogni faccenda umana, la Neretva è un’apparizione luminosa. Da qualche chilometro, le anse del fiume ci accompagnano attraverso le colline: l’acqua è verde scura, eppure tersa, priva di detriti, gelida anche d’estate. La guardo scorrere e forse capisco cosa intendono quando raccontano storie sullo spirito del fiume, forse intuisco quale misteriosa forza si nasconda dietro questo incessante moto dall’alto verso il basso. Anche noi ci stiamo muovendo, nonostante le croci bianche, nonostante la nostra inadeguatezza, andiamo avanti e più ci allontaniamo dalla costa dalmata più sappiamo che non sarà semplice tornare indietro.
Cerchiamo delle risposte ma non credo che le nostre domande siano quelle giuste. Forse dovrei sparire anche io, ignorare ogni scarto e ogni possibilità di fuga per abbandonarmi all’acqua che scorre, lasciando il mondo durante un’ultima estate di meraviglia.
Ma non sono un uomo così coraggioso.
Respiro profondamente, una, due, tre volte.
La ripetizione mi conforta, sapere che a una cosa ne seguirà sempre un’altra, e poi ancora senza interruzione, seguendo un ritmo naturale che non può ammettere spazi vuoti.
La strada ora è più ripida, il paesaggio sta cambiando, l’ombra dei boschi ci avvolge e il mare diventa un ricordo lontano. Nell’automobile entra l’aria dei primi monti Balcanici, gli aspri dirupi carsici dove trovavano rifugio i seguaci del bano Domagoj, pirati ferocissimi che infestavano le coste della Dalmazia e dell’Istria veneziana.
Queste sono sempre state zone franche, luoghi segreti, ultimi nascondigli, apparizioni di leggende. Ma arrivati a questo punto non posso accontentarmi di pensieri fuggenti.
Ci fermiamo su uno spiazzo erboso per sgranchire le gambe.
Sono le tre del pomeriggio, fa molto caldo, non c’è un filo di vento e la vallata sembra deserta.
Viaggiamo solo noi, lungo la strada per Mostar.
Davide guida silenzioso, in bocca ha una sigaretta croata.
Durante questo viaggio parliamo poco. Siamo entrambi delusi, affaticati da una vita che consideriamo ingiusta. Naturalmente ci stiamo sbagliando, a prescindere da ogni scelta e da ogni responsabilità personale, abbiamo sempre vissuto in un paesaggio umano scolpito dal privilegio. Per capirlo siamo dovuti ripartire, vedere da vicino cosa significa essere vittime, essere braccati da un nemico che non concede quartiere. Ogni confronto è improponibile ma adesso almeno l’orizzonte è diventato molto più semplice, quasi ordinario.
Sebbene con un poco di ritardo, la nostra giovinezza sta volgendo al termine, fra pochi mesi saremo entrambi costretti a fare delle scelte importanti. Io sono a un passo dalla laurea in Lettere, a conclusione di un percorso di studi brillante sebbene troppo discontinuo. La discussione della tesi certificherà la fine di ogni attesa e di ogni giustificazione. Davide invece deve decidere se intraprendere una nuova strada che potrebbe essere rischiosa o anche solo inutile.
Per il momento abbiamo bisogno di tacere poi vedremo cosa succede.
Le croci sono finite, non ci sono più ostacoli fra noi e la fitta trama degli alberi. Mi piace tenere la testa fuori dal finestrino, lo facevo anche da bambino. Annuso, osservo, catturo il vento con le mani, creando forme tonde, immagino grandi natiche generose. Ma il paesaggio è immobile, potenzialmente ostile, resiste un’obbligata tregua che sarebbe un errore scambiare per serenità. Non riesco a scorgere nessun movimento, lo sguardo si perde dentro ai boschi, uomini e bestie stanno tutti nascosti al riparo, in attesa della frescura notturna.
L’interruzione dura pochi minuti, il tempo necessario per attraversare il confine fra un paese e quello successivo, quando siamo di nuovo costretti all’evidenza della guerra.
Comincia la distesa delle mezzelune.
Sono centinaia, candide, della stessa dimensione delle croci, disposte nella stessa lingua di terra, alla stessa identica distanza. Un altro cimitero, questo è islamico.
E sembra non finire mai.
La guerra in Bosnia invece è finita da circa sette mesi, quando a Dayton, una sconosciuta cittadina militare dell’Ohio, sotto lo sguardo colpevole degli Stati Uniti, della Russia e della Comunità Europea, i belligeranti serbi, croati e bosgnacchi, i bosniaci di fede musulmana, hanno firmato l’accordo di pace che divide il paese i due zone amministrate autonomamente: una dai serbi con capitale Banja Luka e l’altra da una federazione formata da croati e bosgnacchi con capitale Sarajevo. Almeno così dovrebbe essere, in realtà sulle montagne si continua a sparare e i gruppi paramilitari di tutte le fazioni sono armati e bellicosi. Questa è zona di guerra, superate le postazioni dell’esercito croato che controllano il confine alla fine della pianura, non abbiamo ancora incontrato un’automobile civile lungo la strada, solo blindati militari dell’IFOR, la forza multinazionale della NATO, schierata in Bosnia con il mandato di fare rispettare la fragile pace e i nuovi confini.
Davide e io, a bordo di una vecchia Panda marrone con il tettuccio apribile, viaggiamo solitari ma determinati a proseguire. Dobbiamo raggiungere Sarajevo, la capitale della Bosnia Erzegovina in fiamme.
Fino a ieri sera eravamo ancora in Croazia. Trascorrevamo le vacanze in un’isola chiamata Hvar, celebre per la bellezza del mare, il vino bianco, le coltivazioni di lavanda e le piantagioni di marijuana clandestine. Un luogo riparato, dove la guerra ha fatto pochi danni, riuscendo comunque a infiammare il nazionalismo di gente che non ne aveva mai sentito il bisogno. Alloggiavamo in un piccolo appartamento nel centro rinascimentale di Stari Grad, insieme a due amiche di Milano che hanno preso un’altra decisione e quindi un’altra strada. È bastato un incontro casuale a farci cambiare idea sul proseguimento della nostra estate. Tre ragazzi di Sarajevo hanno affittato la camera di fianco alla nostra. Li abbiamo incontrati sul terrazzo comune, erano appena tornati dalla spiaggia. Al più giovane di loro, Edin, mancava un braccio e aveva mezza faccia devastata dalle ustioni.
«È stato il proiettile di un mortaio.»
Ci ha spiegato in inglese, leggendo la domanda nei nostri sguardi attoniti di ben cresciuti ragazzoni italiani senza una macchia sulla pelle. Un proiettile qualsiasi dei migliaia caduti durante l’interminabile assedio alla città è esploso a tre metri da lui mentre tornava a casa da scuola. I suoi amici erano fisicamente integri ma accomunati dal dolore della giovinezza violata.
«Andate a Sarajevo, non restate qua.»
All’inizio non abbiano capito ma Edin ha insistito.
«In questo posto non servite a niente. Questa è una vacanza al mare, in un luogo turistico qualsiasi, ne avrete già fatte tante. Andate a Sarajevo, andate e guardate quello che è successo durante questi anni feroci, guardate quello che ci è rimasto dopo la guerra civile. Guardate le ferite delle persone, i quartieri distrutti, l’ombra nera dei roghi, i crateri nelle strade, i volti dei bambini, gli orfani senza casa, ogni cosa dovete guardare. Noi dobbiamo rialzarci e abbiamo bisogno dei vostri occhi.»
In questo posto non servite a niente, «Here, you are useless», così ha detto Edin. Non avevo mai pensato che la mia vita potesse servire a qualcosa.
Al mattino presto siamo partiti, è stata una decisione più semplice di quanto ci aspettassimo. Abbiamo percorso l’isola di Hvar per tutta la sua lunghezza e al porto di Sućuraj ci siamo imbarcati su un piccolo traghetto guarnito di luci colorate. Tornati sul continente, abbiamo deciso di lasciarci a sud la bellezza perduta di Dubrovnik e le sue anonime pizzerie seriali, per immergerci subito dentro alla ferita aperta della Bosnia Erzegovina: la terra dei valorosi Illiri, del Duca, dei Bogomili, dello zar Stefano Uroš IV Dušan il conquistatore. La terra del Magnifico Sultano Ottomano.
Trascorse due ore di viaggio, stiamo ancora guidando, procediamo lungo la Valle della Neretva in direzione di Mostar. Mi vedo di nuovo viaggiare su queste strade, lontane eppure così familiari, ripercorse lungo un tracciato disegnato da altri.
I ricordi possono ingannare, l’odore dell’estate balcanica è più forte di sempre. Ma ho molto tempo per pensare, per tentare di riannodare i fili sparsi della memoria.
Quando è stata la prima volta?
Quando è che la storia è ripartita tumultuosa senza chiederci il permesso? Come siamo arrivati a questo punto? Deve per forza esserci stato un inizio, una scintilla scatenante.
Sono passati tanti anni, ero piccolo allora.
Mio padre guidava il pulmino Volkswagen rosso.
Mia madre e mia sorella cantavano canzoni.
Era l’estate del 1981.
★★★★★
Il buon giorno di vede dal mattino, dicono, e un buon incipit e una copertina accattivante possono essere il perfetto bigliettino da visita di un libro.
Secondo voi, quante stelline si merita il biglietto da visita di questo libro?
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