Gli scrittori della porta accanto

Integrazione: a che punto siamo in Italia?

Integrazione: a che punto siamo in Italia?

Di Elena Genero Santoro. Globalizzazione e integrazione: capita a volte che, visitando altri paesi in Europa, ci si renda conto di quanta strada ci sia ancora da fare in Italia.

Confesso che la mia conoscenza fisica della Germania è esigua e parziale a dire poco (con i tedeschi invece ci lavoro tutti i giorni), per cui quello che scriverò potrebbe essere pure smentito, spero integrato, da chi ha una maggiore esperienza del territorio. Comunque.
A Francoforte centro sono stata solo una volta e non ho mai fatto turismo. L’aeroporto al contrario lo conosco bene, non voglio dire come le mie tasche, sarebbe presuntuoso poiché è immenso.
E poi c’è Russelsheim, una cittadina di 61 mila abitanti a sud ovest di Francoforte. Russelsheim è famosa per la sede dell’Opel (ma io di solito vado nella sede di Hyundai) e che abbia 61 mila abitanti lo apprendo pure da Wikipedia, mentre per l’aspetto che ha, ha più l’aria di un paese che di una vera città.
Ci sono stata l'ultima volta circa due anni fa. La cosa che mi ha colpito è che il centro storico non fosse storico. Forse non era nemmeno il centro-centro (e c’è poi una zona di ricche villette, un po’ più in là, nonché la parte industriale), ma in ogni caso era un’area commerciale e pedonale completamente chiusa al traffico. L’unico monumento davvero antico era una chiesa evangelica dipinta di rosa che col suo campanile troneggiava in una piazza. Quest’assenza di storicità mi è stata spiegata: dopo la seconda guerra mondiale molte zone sono state ricostruite e quindi anziché essere antiche sono moderne. Svelato l’arcano.
La seconda cosa sorprendente, per me, era che tutti quei negozi non ospitavano brand famosi e conosciuti (che ne so, Desigual, Motivi, Zara, Accessorize) ma roba che in Italia non abbiamo mai visto.


E dov’è finita la globalizzazione? La globalizzazione c’è, ma è di altra natura.  Si tratta di integrazione. Ora ci arrivo.

Il terzo dettaglio che mi ha incuriosito è stato che la maggior parte di quei negozi non era gestita da tedeschi, per niente. C’erano kebabbari, c’erano ristoranti e store di abbigliamento cinesi, c’erano infine vetrine di abiti per donne musulmane, ma nulla di germanico. C’era anche un favoloso ristorante italiano (di nome “Delicato”), gestito da napoletani, nel quale ho cenato magnificamente per due sere consecutive. Di tedeschi, in quel quartiere, ne avrò incontrati due: sempre gli stessi, un uomo e una donna che continuavano a passeggiare tenendosi per mano. Si può parlare di integrazione?
E poi c’erano i rumeni. Il bar di Armando aveva come clienti fissi un gruppo di perdigiorno provenienti dall’est Europa, che si incontravano sempre allo stesso tavolino, si riempivano la pancia di birra e spendevano ore e ore fino a tarda sera discutendo di qualcosa nella loro lingua d’origine. Il bar di Armando era territorio loro, a differenza di quello di fronte che era popolato da nordafricani: marocchini, magrebini, algerini, non avrei saputo distinguerli. A me i nordafricani parevano tutti uguali, anche se immagino fossi io che non riuscivo a coglierne le differenze. Parlavano un italiano approssimativo mangiandosi sempre le vocali.
Invece da Armando c’erano i rumeni. All’inizio non li avevo focalizzati bene, tuttavia ogni giorno erano almeno in quattro o cinque. Dopo un po’ avevo iniziato a riconoscerli e avevo pure imparato i loro nomi. C’era Constantin, che era alto, segaligno, con i capelli scuri. Poi c’era Ciprian, che invece era biondo con gli occhi azzurri. Sarebbe stato un bel ragazzo, se non fosse stato troppo grosso, con una gran pancia che si gonfiava ulteriormente non appena ci buttava dentro litri e litri di birra. Ogni tanto poi faceva la sua apparizione Gogu, che era mingherlino, bruno e aveva un’aria scaltra. Meno frequente era la presenza di Istrate, biondissimo e parecchio arrogante. Aveva i capelli ricci di un angelo, ma uno sguardo strafottente e irritante. Istrate non veniva spesso, ma, quando c’era, era impossibile non accorgersene: a volte persino Armando, con la sua aria flemmatica e il suo fare sempre bonario, aveva dovuto riprenderlo e chiedergli di darsi un contegno e di togliere i piedi dal tavolo. I rumeni erano sempre abbastanza chiassosi e la loro presenza si notava. Quando c’erano loro, non era inusuale che gli altri presenti mostrassero fastidio o pagassero la consumazione in fretta per uscire al più presto. Ero abbastanza sicura che Armando avrebbe dovuto vietare loro l’ingresso, perché gli facevano perdere clienti, ma forse lui si era fatto bene i suoi conti e aveva valutato che le birre dei rumeni compensavano i caffè di altri ospiti di passaggio. E poi Porta Palazzo era una zona alquanto degradata: non stavamo nella Torino bene, non c’era clientela snob da quelle parti.
Solo uno dei rumeni si distingueva per la sua presenza silenziosa. Il suo nome era Victor, anche se tutti lo chiamavano Vic, e mi ero fatta l’idea che fosse una specie di capo di quella sgangherata banda.

- Elena Genero Santoro, Gli angeli del bar di fronte

Ora, anche a Torino, come raccontato nel mio libro Gli angeli del bar di fronte, abbiamo dei quartieri tipicamente abitati da immigrati.

Porta Palazzo, per esempio, o San Salvario, dove si trovano anche delle macellerie musulmane e forse qualche vestito da abbinare al niqab, ma si tratta di quartieri, in genere degradati, o “riqualificati”, situati in grandi città, che a volte sono delle specie di ghetti, dove si trovano prevalentemente i rappresentanti di una nazione (esempio: "il quartiere dei cinesi"). Nelle città piccole la presenza degli stranieri si nota meno. Si può parlare di integrazione?
Ciò che mi ha colpito di Russelsheim, invece, è che la porzione che ho visitato io non era degradata per niente. Era pulita, pittata di fresco, colorata, impeccabile. Le etnie erano miste. I negozi arabi e cinesi erano contenuti in edifici chiari dall’architettura completamene nordica.
Forse è facile dire che l’erba del vicino è sempre più verde. Però darei un’occhiata alle notizie italiane, tipo quella dell'espresso, a giugno del 2015: “Gli italiani sono i più razzisti d'Europa: primi per odio contro i rom, i musulmani e gli ebrei”.
Non voglio dire che nessun immigrato possa essere un delinquente, ma un sacco di loro non lo sono affatto. Però il conflitto in Italia c’è, è inutile negarlo.
Secondo Eurostat, al 1º gennaio 2013 l'Italia era il quarto Paese dell’Unione europea per numero assoluto di cittadini stranieri regolarmente residenti, con 4,4 milioni di presenze, dopo Germania (7,7 milioni), Spagna (5,1 milioni) e Regno Unito (4,9 milioni). In termini percentuali invece si collocava al dodicesimo posto (con il 7,4% di cittadini stranieri sul totale della popolazione residente).
- Wikipedia
Quindi in Italia abbiamo una percentuale di immigrati minore che altrove in Europa, per giunta.
La domanda sorge spontanea: com’è che, all’estero, convivono con una percentuale di immigrati maggiore della nostra? Come ci riescono? Forse dovremmo rivedere un pochino il concetto di integrazione…


di Elena Genero Santoro
Ama viaggiare e conoscere persone che vivono in altri Paesi. Lettrice feroce e onnivora, scrive da quando aveva quattordici anni.
Perché ne sono innamorata, Montag
L’occasione di una vita, ebook Lettere Animate
Un errore di gioventù, 0111 Edizioni
Gli Angeli del Bar di Fronte, 0111 Edizioni.



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