Gli scrittori della porta accanto

[Libri] "Ladivine" di Marie Ndiaye, incipit #87

Tornava a essere Malinka non appena saliva sul treno, e la cosa non le suscitava né piacere né disagio, poiché da molto tempo aveva smesso di farci caso.

Ladivine-Marie-Ndiaye-incipit

Ladivine

di  Marie Ndiaye
Giunti

ebook 9,99€
cartaceo 15,30€
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Ma lo sapeva, perché da quel momento non le riusciva più di rispondere istintivamente al nome di Clarisse, le rare volte in cui capitava che un conoscente, in viaggio sullo stesso treno, la salutasse o la chiamasse con quel nome e la trovasse disorientata, inebetita e vagamente sorridente, creando una situazione di imbarazzo reciproco da cui lei, un po’ intontita, non aveva la prontezza di spirito di tirare fuori entrambi semplicemente ricambiando, con un minimo di naturalezza, il buongiorno, il come va.
Era stata proprio quella sua incapacità di rispondere al nome di Clarisse a farle capire che lei era Malinka dal momento in cui saliva sul treno per Bordeaux.
Sapeva che si sarebbe girata immediatamente se qualcuno l’avesse chiamata così, se qualcuno, incontrando con lo sguardo il suo viso o riconoscendo da lontano la sua figura sottile, la sua andatura sempre un po’ precaria, avesse esclamato: Ehi, Malinka, buongiorno!
Non poteva succedere – ma era poi così sicuro? In un periodo ormai lontano, in un’altra città, in un’altra regione, c’erano stati dei ragazzi e delle ragazze che l’avevano chiamata Malinka perché non la conoscevano sotto altri nomi, e d’altronde nemmeno lei se ne era ancora inventato uno.
Non era da escludere che, un bel giorno, una donna della sua età l’avrebbe avvicinata per domandarle, con aria felicemente sorpresa, se fosse proprio lei quella Malinka del suo passato, conosciuta in quella scuola media e in quella città di cui lei, Clarisse, aveva dimenticato perfino il nome, l’aspetto.
E Clarisse non si sarebbe potuta esimere dal sorridere, non in modo vago ma con sicurezza e audacia, e non sarebbe apparsa né disorientata né inebetita, nonostante che lei, invece, non avrebbe di certo riconosciuto la donna che affermava di averla frequentata quando era Malinka.
Ma avrebbe riconosciuto il proprio nome e quella particolare tendenza dell’ultima sillaba ad attardarsi nell’aria tracciando una scia di promesse, di lieta attesa e di giovinezza intatta, e per questo sulle prime non avrebbe visto motivo di far posto all’imbarazzo fra lei e quella vecchia compagna di scuola della quale non rammentava nulla, per questo si sarebbe sforzata di dare al proprio volto un’espressione di contentezza simile a quella dell’altra, prima di ricordarsi del pericolo che rappresentava per lei l’accettare di ridiventare Malinka, anche solo occasionalmente.
Allora non osava pensare a ciò che sarebbe stato necessario fare.
Voltare bruscamente le spalle a quella donna, sforzarsi di sorridere fingendo di non capire era qualcosa che travalicava di gran lunga le timide trasgressioni alle regole dell’educazione e della cortesia concepibili da una Clarisse Rivière avvezza a non sbilanciarsi mai.

Seduta in treno, gli occhi fissi al finestrino, alla spessa consistenza e alle minuscole striature del vetro che il suo sguardo non oltrepassava, tanto che le sarebbe stato difficile descrivere il paesaggio attraversato la mattina in un senso, a sera nell’altro, una volta al mese da anni e anni, tremava di apprensione all’idea di doversi costruire un atteggiamento assennato nel caso in cui qualcuno l’avesse chiamata Malinka.

Poi i suoi pensieri vagavano alla deriva, e poco a poco dimenticava il motivo del suo tremore, sebbene il tremore non l’abbandonasse e lei, non sapendo come farlo cessare, finisse confusamente per attribuirlo al movimento del treno che scandiva, sotto i piedi, nei muscoli, nella testa affaticata, il nome che tanto amava e detestava, che le ispirava al tempo stesso paura e compassione, Malinka, Malinka, Malinka.
Quando sua figlia Ladivine era ancora piccola, non sempre era stato facile andare a Bordeaux così di nascosto, passarvi una parte della giornata e poi tornare a casa abbastanza presto da non suscitare sospetti in nessuno.
Ma ci era sempre riuscita.
Non ne era né fiera né turbata.
Aveva fatto quel che doveva fare, lo avrebbe fatto fino alla morte dell’una o dell’altra, e per non rinunciarvi si era appellata a tutte le risorse di cui disponeva e che sapeva limitate – d’intelligenza, di furbizia, di tattica.
A volte pensava di non avere nessuna di quelle capacità, o di averle perdute col tempo, eppure era riuscita a mobilitare ciò che non aveva per architettare una routine sicura e adeguata alla situazione.
Ma non ne era né fiera né turbata.
Come un animale, faceva quel che doveva fare. In proposito, non aveva opinioni, nessun sentimento, soltanto la convinzione ostinata, incrollabile, come innata, che incombesse su di lei la duplice responsabilità dell’azione e della segretezza.
E quando, arrivata a Bordeaux, andava a piedi fino al quartiere Sainte-Croix, prendendo ogni volta le stesse strade e camminando sempre sullo stesso lato, non era tanto la necessità della segretezza, quanto il dovere imposto a se stessa di non cedere mai che le impediva di prendere un taxi o, successivamente, il tram, dove qualche viaggiatore abituale avrebbe potuto finire per riconoscerla, rivolgerle la parola o chiederle dove stesse andando, e a quel punto Clarisse Rivière, che in quella città mentalmente era Malinka, essendo incapace di inventarsi una scusa qualsiasi, non avrebbe potuto far altro che dire la verità.
«Vado a trovare mia madre» avrebbe risposto.
Era inconcepibile che potesse essere indotta a pronunciare una simile frase. Le sarebbe sembrato di fallire là dove il fallimento non poteva essere né perdonato né dimenticato né trasformato in semplice errore, nella missione stessa dell’intera sua vita che non aveva altro senso, si diceva tanto evasiva quanto implacabile, se non quello di nascondere a tutti che Clarisse Rivière si chiamava Malinka e che la madre di Malinka non era morta.
Svoltava nella buia rue du Port, si fermava davanti all’edificio dai muri neri, entrava con la sua chiave e lì, nell’umido vano d’ingresso, apriva la porta dell’appartamento.
Sua madre, pur aspettandosi quella visita poiché Clarisse Rivière andava a trovarla il primo martedì di ogni mese, la accoglieva sempre con la stessa esclamazione falsamente sorpresa, permeata di un sarcasmo forzato:
«Toh, chi si vede, ecco mia figlia!».

E Clarisse Rivière aveva smesso ormai da un pezzo di rimanerci male, perché capiva che era il modo in cui sua madre, quella donna così limitata, esprimeva ciò che in fin dei conti doveva essere senz’altro dell’affetto o addirittura della tenerezza per lei, Malinka, che aveva, in un’altra vita, un altro nome che sua madre ignorava.

La madre di Malinka non sapeva niente di Clarisse Rivière.
Ma non era così sprovveduta da ignorare di non sapere niente. Fingeva di non avere il sospetto che sua figlia Malinka, il primo martedì del mese, si fosse appena lasciata alle spalle un’esistenza più strutturata e meno solitaria di quella che le aveva approssimativamente raccontato molto tempo prima e nella quale sembrava vivere e lavorare solo in modo fortuito, con l’unico obiettivo di poter andare a trovare sua madre una volta al mese.
Clarisse Rivière era consapevole che se sua madre fingeva di cascarci, se non cercava di saperne di più, se addirittura, come le era parso a volte, non voleva affatto essere informata, era perché aveva capito e accettato le ragioni di quel segreto.
Che le avesse capite, d’accordo, ma perché e in che modo avrebbe dovuto accettarle?
Ah, quanto a questo, quanto alla muta sottomissione di sua madre a ciò che invece avrebbe dovuto indignarla, a Clarisse Rivière non sarebbe bastata tutta la vita per essergliene riconoscente – di una riconoscenza offuscata dalla disperazione e dal rancore – e tanto meno per espiarla.
Eppure sentiva il dovere di agire così.
Era qualcosa che non si poteva spiegare né giustificare né assolvere.
A Clarisse Rivière non bastava che sua madre avesse capito e che, nel dolore e nell’orribile amarezza di una simile, inconfessabile intuizione, fosse diventata una donna difficile, astiosa e lunatica, spesso offensiva
L’avrebbe voluta ancora più difficile, l’avrebbe voluta colma d’odio e di sdegno.
Ma la cosa, quella cosa, non poteva essere detta.
Soltanto il malumore, l’aspro risentimento potevano renderne conto, e fino a un certo punto, ossia nella misura in cui quelle manifestazioni di acredine non si avvicinavano troppo alle parole che non dovevano essere dette.
Clarisse Rivière aveva a volte l’impressione che quelle parole, se solo le avesse pronunciate, avrebbero ucciso entrambe – lei perché ciò che aveva fatto, ciò che aveva sentito come un dovere e un obbligo fare, non era scusabile, sua madre perché all’umiliazione di un simile trattamento si sarebbe aggiunta quella di esserne consapevole e di averlo comunque tollerato, sia pure con rabbia e risentimento.
Quelle parole le avrebbero uccise, pensava a volte Clarisse Rivière. E se non fosse andata così, se fossero sopravvissute a quelle parole, non avrebbero comunque potuto rivedersi mai più.

Quarta di copertina
"Ladivine" di Marie Ndiaye, Giunti, 2016.

Il primo martedì di ogni mese, seguendo un rituale immutabile, Clarisse Rivière lascia il marito e la figlia per prendere in gran segreto un treno per Bordeaux. Lì, in un quartiere popolare vicino al porto, vive sua madre, Ladivine. I suoi familiari, però, non sanno niente di lei e sono convinti che Clarisse sia orfana. Allo stesso modo Ladivine ignora la loro esistenza: Clarisse infatti ha sempre taciuto ogni dettaglio della propria vita alla madre, una donna che teme, disprezza e compatisce al tempo stesso.
Abbandonata molti anni prima dal padre di Clarisse, Ladivine lavora come domestica, ha solo sua figlia al mondo e la ama di un amore immenso e opprimente. Bianca come suo padre, Clarisse, che in realtà si chiama Malinka, rifiuta il proprio nome almeno quanto rinnega le sue origini e la pelle nera della madre.
Adesso, dopo anni di inganni, la tranquilla esistenza borghese costruita da Clarisse rischia di essere soffocata dalle stesse mura che ha eretto per proteggersi. Sarà sua figlia, che porta il nome della nonna, a intraprendere un viaggio a ritroso verso la misteriosa terra da cui proviene Ladivine.
Marie NDiaye, acclamata autrice di ''Tre donne forti'' con cui ha vinto il Premio Goncourt nel 2009, ci regala un romanzo raffinato e inquietante su tre generazioni di donne prigioniere delle proprie radici.
Titolo originale: ''Ladivine'' (2013).

★★★★★

Il buon giorno di vede dal mattino, dicono, e un buon incipit e una copertina accattivante possono essere il perfetto bigliettino da visita di un libro.
Secondo voi, quante stelline si merita il biglietto da visita di questo libro?

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