Attorno all’inesorabile checkpoint della menopausa si estende un terreno molto discutibile, in cui la propria esperienza della mezza età non è determinata tanto dal confine arbitrario degli anni, quanto dalla sensibilità individuale.
Per dirla in breve, si diventa di mezza età quando ci si sente tali, non prima.
«Quando sarò grande...» dicono i bambini... ma essere grandi, come essere di mezza età, è una qualità estremamente sfuggente.
Trentacinque anni fa, un bel giorno di sole, mentre ce ne stiamo sedute a sgranare piselli in giardino, chiedo alla mamma e alla nonna: «Quanti anni vi sentite?». «Trentacinque» risponde mia nonna rapida come il fulmine, mentre apre i baccelli con le unghie e lascia cadere i piselli nel colino, dove rimbalzano con un sonoro plink, plink, come uno xilofono fatato. Ha 71 anni. «Ventisette» risponde mia madre, che ne ha 44. È miope e porta occhiali spessi, ha ciglia corte e pallide. I capelli castani sono avvolti in uno chignon, fermato sulla nuca da forcine scure che sembrano aghi di pino.
Ho visto nell’album di famiglia le foto di mia mamma da bambina. Ne ricordo una, in particolare, in cui si chinava tra le onde tranquille di una spiaggia in Cornovaglia con un’aureola di capelli biondi e ali da angioletto prestatele da un gabbiano alle sue spalle, che volava accanto nel momento esatto dello scatto.
In un’altra foto di quella stessa vacanza faceva la spaccata sulla sabbia: aveva un costumino da bagno di maglia e un salvagente attorno alla vita. Ho visto anche le foto in cui era più grande: i capelli erano sempre gli stessi, ondulati e dorati, ma le forme diverse, le gambe lunghissime, gli occhi pesantemente truccati, come quelli di Bette Davis. Era insieme a Françoise, la sua amica di penna francese (altrettanto carina, ma con i capelli neri) in diverse e pittoresche località che visitavano nei loro soggiorni a casa dell’una o dell’altra; in altre foto, ancora, era con gli animali domestici che aveva avuto prima che nascessi, che ho comunque conosciuto nel tempo attraverso i suoi numerosi racconti: Trixie, il terribile terrier; Diogene, il gatto del cantiere navale, che aveva l’abitudine di camminare sulla mensola del caminetto, facendo deliberatamente cadere qualsiasi ostacolo gli sbarrasse la strada.
Sotto le mie ciglia da diciassettenne osservo mia madre seduta sul plaid steso sull’erba, le lunghe gambe ripiegate sotto la gonna di tutti i giorni.
La tenera vivacità delle sue prime foto è svanita. Le gambe sono appesantite, il pallore latteo è interrotto dalle tracce bluastre delle
vene; le unghie dei piedi che spuntano dai sandali blu a tacco basso hanno il bordo irregolare come quello delle conchiglie, la pelle dei talloni è screpolata, ricorda la crosta di un formaggio stagionato. I polpacci sono muscolosi, abituata com’era a scarpinare su e giù per le strade di periferia con la carrozzina e i cestini della spesa; ricoperti per giunta da una peluria diffusa, che sembra una ragnatela.
Mentre mi alzo per andare a raccogliere la menta da aggiungere ai piselli, penso che l’adolescente dai capelli dorati con il costume di maglia, il terrier e la sua amica francese, sia stata vittima di un sortilegio. Un perfido mago deve averla per forza rinchiusa in un carapace dalle
membra appesantite e dalla pelle a macchie, da cui sbirciano – e restano – solo gli occhi con le palpebre alla Bette Davis che, anche se miopi, sono ancora riconoscibili dietro le spesse lenti degli occhiali.
Immagino che, forse, una volta raggiunta un’età particolare, 25 anni (un quarto di secolo ha un non so che di lugubre), o forse 30 o 35 anni – nel mezzo di quell’età che indica la Bibbia: «I giorni dei nostri anni arrivano a settant’anni» – qualche fenomeno renda gli adulti inconsapevoli. Uno scherzo nella percezione fa sì che l’immagine riflessa sia diversa da quella che vedono gli altri; non un contenitore scorticato, venato, irsuto che si è trasformato nel corso degli anni, bensì la persona che eri quando l’età ti ha catturata.
Ma nel momento stesso in cui formulo questa ipotesi, mi accorgo che è piuttosto lacunosa.
Quarta di copertina
Come quando all'improvviso ti piombano addosso le conseguenze di qualcosa che stai rinviando da tempo, gli "anta" colgono Jane di sorpresa, e impreparata. Nella sua casa, che divide con un figlio adolescente e un gatto, un giorno si guarda allo specchio e non si riconosce più. Come ci è finita lì? Dov'è andata la ventenne sognatrice e con il mondo ai suoi piedi?
Con leggerezza, humour e una punta di nostalgia, Jane ripercorre la sua vita, il difficile rapporto con la famiglia, gli amori, il lavoro, la maternità, e in questi salti in avanti e all'indietro cerca di ristabilire un equilibrio con se stessa alla soglia dei cinquant'anni, tra l'entusiasmo della gioventù e la saggezza che l'età richiede.
Una riflessione a tratti lieve, a tratti profonda, che, se non cancella i segni del tempo, fa però ridere, pensare e guardarsi allo specchio in un altro modo.
«Quando sarò grande...» dicono i bambini... ma essere grandi, come essere di mezza età, è una qualità estremamente sfuggente.
Trentacinque anni fa, un bel giorno di sole, mentre ce ne stiamo sedute a sgranare piselli in giardino, chiedo alla mamma e alla nonna: «Quanti anni vi sentite?». «Trentacinque» risponde mia nonna rapida come il fulmine, mentre apre i baccelli con le unghie e lascia cadere i piselli nel colino, dove rimbalzano con un sonoro plink, plink, come uno xilofono fatato. Ha 71 anni. «Ventisette» risponde mia madre, che ne ha 44. È miope e porta occhiali spessi, ha ciglia corte e pallide. I capelli castani sono avvolti in uno chignon, fermato sulla nuca da forcine scure che sembrano aghi di pino.
Ho visto nell’album di famiglia le foto di mia mamma da bambina. Ne ricordo una, in particolare, in cui si chinava tra le onde tranquille di una spiaggia in Cornovaglia con un’aureola di capelli biondi e ali da angioletto prestatele da un gabbiano alle sue spalle, che volava accanto nel momento esatto dello scatto.
In un’altra foto di quella stessa vacanza faceva la spaccata sulla sabbia: aveva un costumino da bagno di maglia e un salvagente attorno alla vita. Ho visto anche le foto in cui era più grande: i capelli erano sempre gli stessi, ondulati e dorati, ma le forme diverse, le gambe lunghissime, gli occhi pesantemente truccati, come quelli di Bette Davis. Era insieme a Françoise, la sua amica di penna francese (altrettanto carina, ma con i capelli neri) in diverse e pittoresche località che visitavano nei loro soggiorni a casa dell’una o dell’altra; in altre foto, ancora, era con gli animali domestici che aveva avuto prima che nascessi, che ho comunque conosciuto nel tempo attraverso i suoi numerosi racconti: Trixie, il terribile terrier; Diogene, il gatto del cantiere navale, che aveva l’abitudine di camminare sulla mensola del caminetto, facendo deliberatamente cadere qualsiasi ostacolo gli sbarrasse la strada.
Anche se la mia immaginazione continua a rifiutare il concetto, queste foto contengono la prova innegabile che mia madre – ora una donna di mezza età – è stata prima una bambina, poi un’adolescente.
Nelle ultime immagini dell’album ha 16 anni, uno in meno di quanti ne ho io adesso. E anche se l’aritmetica non è il mio forte, ho fatto un paio di calcoli. Nel 2000 avrò 42 anni, due anni in meno di quanti ne ha ora mia mamma, seduta al sole, intenta a sbucciare piselli. La matematica non lascia scampo, e questo è uno dei numerosi motivi per cui non mi piace. Non posso non credere ai calcoli secondo i quali tra 25 anni ne avrò 42 e sarò vecchia quasi quanto lei (e lei, a sua volta, ne avrà 69, e sarà, dunque, vecchia quasi come sua madre adesso). Eppure, non ci credo.Sotto le mie ciglia da diciassettenne osservo mia madre seduta sul plaid steso sull’erba, le lunghe gambe ripiegate sotto la gonna di tutti i giorni.
La tenera vivacità delle sue prime foto è svanita. Le gambe sono appesantite, il pallore latteo è interrotto dalle tracce bluastre delle
vene; le unghie dei piedi che spuntano dai sandali blu a tacco basso hanno il bordo irregolare come quello delle conchiglie, la pelle dei talloni è screpolata, ricorda la crosta di un formaggio stagionato. I polpacci sono muscolosi, abituata com’era a scarpinare su e giù per le strade di periferia con la carrozzina e i cestini della spesa; ricoperti per giunta da una peluria diffusa, che sembra una ragnatela.
Mentre mi alzo per andare a raccogliere la menta da aggiungere ai piselli, penso che l’adolescente dai capelli dorati con il costume di maglia, il terrier e la sua amica francese, sia stata vittima di un sortilegio. Un perfido mago deve averla per forza rinchiusa in un carapace dalle
membra appesantite e dalla pelle a macchie, da cui sbirciano – e restano – solo gli occhi con le palpebre alla Bette Davis che, anche se miopi, sono ancora riconoscibili dietro le spesse lenti degli occhiali.
Qualunque cosa dica la matematica, qualunque sia la prova fotografica, ho la certezza quasi assoluta che questo incantesimo non colpirà anche me.
Mi domando per un attimo se anche mia mamma non stia riflettendo in segreto, con la mia stessa incredulità, sul fatto che il tempo la trasformerà in una donna anziana come la nonna, giungendo infine alla conclusione che a lei non capiterà. Sembra stranamente ignara del modo in cui occupa lo spazio, del corpo che abita. Consapevole come sono, fin nei minimi dettagli, dei pori sul mio naso da adolescente, dello sviluppo di ogni mio piccolo difetto, di ogni minuscolo cambiamento delle dimensioni del mio quasi inesistente seno, della posizione di ogni pelo sulle mie sopracciglia; proprio non riesco a capire come qualcuno possa alzarsi al mattino, guardarsi allo specchio, fare un bel respiro e avere l’aspetto che ha oggi mia madre.Immagino che, forse, una volta raggiunta un’età particolare, 25 anni (un quarto di secolo ha un non so che di lugubre), o forse 30 o 35 anni – nel mezzo di quell’età che indica la Bibbia: «I giorni dei nostri anni arrivano a settant’anni» – qualche fenomeno renda gli adulti inconsapevoli. Uno scherzo nella percezione fa sì che l’immagine riflessa sia diversa da quella che vedono gli altri; non un contenitore scorticato, venato, irsuto che si è trasformato nel corso degli anni, bensì la persona che eri quando l’età ti ha catturata.
Ma nel momento stesso in cui formulo questa ipotesi, mi accorgo che è piuttosto lacunosa.
Quarta di copertina
"Una sconosciuta allo specchio" di Jane Shilling, Piemme, 2016.
Come quando all'improvviso ti piombano addosso le conseguenze di qualcosa che stai rinviando da tempo, gli "anta" colgono Jane di sorpresa, e impreparata. Nella sua casa, che divide con un figlio adolescente e un gatto, un giorno si guarda allo specchio e non si riconosce più. Come ci è finita lì? Dov'è andata la ventenne sognatrice e con il mondo ai suoi piedi?Con leggerezza, humour e una punta di nostalgia, Jane ripercorre la sua vita, il difficile rapporto con la famiglia, gli amori, il lavoro, la maternità, e in questi salti in avanti e all'indietro cerca di ristabilire un equilibrio con se stessa alla soglia dei cinquant'anni, tra l'entusiasmo della gioventù e la saggezza che l'età richiede.
Una riflessione a tratti lieve, a tratti profonda, che, se non cancella i segni del tempo, fa però ridere, pensare e guardarsi allo specchio in un altro modo.
★★★★★
Il buon giorno di vede dal mattino, dicono, e un buon incipit e una copertina accattivante possono essere il perfetto bigliettino da visita di un libro.
Secondo voi, quante stelline si merita il biglietto da visita di questo libro?
Tutti i nostri incipit:
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