Con la mia valigia gialla, di Stefania Bergo, StreetLib collana Gli scrittori della porta accanto, 2017, seconda edizione. Uno spaccato d'Africa e di vita.
125 pagine | cartaceo 9,99€
Mi sembra di contemplare un miracolo. La vita. Prepotente. Vittoriosa. Anche qui, dove tutto è difficile, dove tutto è una conquista, dove non c’è certezza alcuna. Sento la manina avvi-ticchiata al mio dito stringere così forte da farmi male. Da farmi male dentro. Perché questa stretta mi costringe a non essere da meno, a sopravvivere ai miei errori, al mio dolore, sebbene tutto sembri crollare dentro di me. E questa volta non riesco a fermarle, le lacrime. Mi accarezzano le guance e cadono sulla copertina a fiori.
La sua mamma è arrivata adesso. Si è seduta davanti a me e mi sta guardando mentre piango. Mi osserva interrogativa e potrei giurare di sentire i suoi pensieri, “Perché piangi? Il mio bambino è vivo, sta bene. Che c’è da piangere?”. Non può certo capire che in realtà piango perché io mi sento viva. Di nuovo.
Sms del 31.12.04 ore 12.02
Ho appena dato da mangiare a un neonato di quattro settimane che pesa 1 kg e mezzo... e ho pianto… chissà che avrà pensato la sua mamma che mi stava guardando.
Mi distolgo dalle mie emozioni e mi accorgo che Giorgio ha teso un tranello pure a Erica. Le ha messo in braccio una bimba di quattro o cinque mesi, con il viso paffuto come una luna piena, adornata di pizzi e fiocchi rosa. E lei sembra terribilmente a disagio, osservo sorridendo. Anzi, ridendo di lei. Continua a parlarle come se la sua interlocutrice fosse un’adulta.
«Io e te non abbiamo niente da dirci, ora. Io so parlare solo di atomi ed energia e tu non sai dialogare ancora. Magari quando sarai più grande mi sarai più simpatica… ora, non ti offendere, ma non abbiamo proprio niente in comune…», le dice – seriamente − tenendola goffamente con le mani sotto le ascelle, sollevata in aria, come se temesse pure di ricevere un ricordino umido dalla piccola. Non riesco a trattenere una risata. È così impacciata. Eppure tanto dolce, penso.
Rimetto lo scricciolo prematuro nell’incubatrice, saluto la sua mamma e torno verso casa con Erica. È ora di pranzo ormai.
Speranza è appena arrivata. Ha fatto un po’ di acquisti anche per la nostra festa, quella che Angela, ovviamente, ha pensato per la serata. E non so come, non so dove, è pure riuscita a trovare una bottiglia di Martini per l’aperitivo.
Abbiamo pensato a tutto. Dagli stuzzichini ai fuochi d’artificio − beh, non esageriamo, sono delle semplici fontanelle di luce. Angela e io prepariamo i cappellini per tutti, pure per Giorgio, mentre i ragazzi, rientrati dall’ospedale, vanno in missione per rubare una foglia di banano alle suore e decorare la nostra tavola. Tornano con una bellissima, enorme foglia, un’autentica tovaglia decorata a mano. Uniamo le panche e ce la stendiamo sopra. Poi, ci dedichiamo tutti insieme a preparare la cena. Abbiamo in serbo qualcosa di davvero speciale. Sì, perché anche qui, in mezzo al niente, vogliamo il nostro cenone, una festa in piena regola, per salutare il 2004 che con un guizzo finale è diventato indimenticabile.
La sua mamma è arrivata adesso. Si è seduta davanti a me e mi sta guardando mentre piango. Mi osserva interrogativa e potrei giurare di sentire i suoi pensieri, “Perché piangi? Il mio bambino è vivo, sta bene. Che c’è da piangere?”. Non può certo capire che in realtà piango perché io mi sento viva. Di nuovo.
Sms del 31.12.04 ore 12.02
Ho appena dato da mangiare a un neonato di quattro settimane che pesa 1 kg e mezzo... e ho pianto… chissà che avrà pensato la sua mamma che mi stava guardando.
Mi distolgo dalle mie emozioni e mi accorgo che Giorgio ha teso un tranello pure a Erica. Le ha messo in braccio una bimba di quattro o cinque mesi, con il viso paffuto come una luna piena, adornata di pizzi e fiocchi rosa. E lei sembra terribilmente a disagio, osservo sorridendo. Anzi, ridendo di lei. Continua a parlarle come se la sua interlocutrice fosse un’adulta.
«Io e te non abbiamo niente da dirci, ora. Io so parlare solo di atomi ed energia e tu non sai dialogare ancora. Magari quando sarai più grande mi sarai più simpatica… ora, non ti offendere, ma non abbiamo proprio niente in comune…», le dice – seriamente − tenendola goffamente con le mani sotto le ascelle, sollevata in aria, come se temesse pure di ricevere un ricordino umido dalla piccola. Non riesco a trattenere una risata. È così impacciata. Eppure tanto dolce, penso.
Rimetto lo scricciolo prematuro nell’incubatrice, saluto la sua mamma e torno verso casa con Erica. È ora di pranzo ormai.
Speranza è appena arrivata. Ha fatto un po’ di acquisti anche per la nostra festa, quella che Angela, ovviamente, ha pensato per la serata. E non so come, non so dove, è pure riuscita a trovare una bottiglia di Martini per l’aperitivo.
Abbiamo pensato a tutto. Dagli stuzzichini ai fuochi d’artificio − beh, non esageriamo, sono delle semplici fontanelle di luce. Angela e io prepariamo i cappellini per tutti, pure per Giorgio, mentre i ragazzi, rientrati dall’ospedale, vanno in missione per rubare una foglia di banano alle suore e decorare la nostra tavola. Tornano con una bellissima, enorme foglia, un’autentica tovaglia decorata a mano. Uniamo le panche e ce la stendiamo sopra. Poi, ci dedichiamo tutti insieme a preparare la cena. Abbiamo in serbo qualcosa di davvero speciale. Sì, perché anche qui, in mezzo al niente, vogliamo il nostro cenone, una festa in piena regola, per salutare il 2004 che con un guizzo finale è diventato indimenticabile.
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Quarta di copertina
"Con la mia valigia gialla" di Stefania Bergo.
È un diario di viaggio autobiografico.Stanca della superficialità di una vita nemmeno troppo tranquilla, Stefania decide di partire. Da sola. Casualmente, trova in internet i contatti di un'associazione che gestisce il St. Orsola, un ospedale in un'area rurale del Kenya, Matiri. E parte con una valigia gialla, poche aspettative, tanta curiosità e voglia di cambiare, non certo il mondo, ma almeno la sua piccola insignificante esistenza.
"Con la mia valigia gialla" è il racconto dei piccoli eventi quotidiani (solo apparentemente banali) accaduti in quelle tre settimane, conditi con una manciata di riflessioni dell'autrice sulle diverse abitudini e sulla cultura locali, scanditi dai messaggi che inviava regolarmente via mobile a un caro amico con cui ha voluto condividere, in tempo reale, la sua esperienza.
Contrariamente a quanto si pensi, però, non è un libro sul volontariato. Il volontariato è solo un dettaglio. L'intenzione dell'autore era di raccontare il viaggio, una piccolissima parte d'Africa, quella che lei ha conosciuto, diversa dalla miriade di altre facce di una terra magica, unica. Ne racconta le usanze locali, i profumi, i colori, i suoni, il quotidiano. Le emozioni. E ne ha dato una sua personale chiave di lettura, intervallando ai dipinti della natura le sensazioni restituite, i pensieri suggeriti, le domande che si è posta e che pone a chi vorrà leggere le pagine del suo libro e soffermarsi, come lei, a cercare una risposta. Anche se spesso risposte non ce ne sono. Ecco perché questo libro non vuole insegnare nulla. È un semplice mezzo messo a disposizione dall'autrice per far compiere al lettore lo stesso viaggio (anche se non sarà mai lo stesso) senza prendere un aereo, semplicemente con l'immedesimazione.
La scelta dell'autrice per il selfpublished in seconda edizione, dopo la positiva esperienza con la casa editrice Zerounoundici, è stata dettata dal suo desiderio di devolvere il ricavato della vendita del suo primo libro all'associazione "Un ospedale per Tharaka - Kenya" onlus, che ha costruito e mantiene tutt'ora l'ospedale St. Orsola di Matiri, quello di cui l'autrice parla nel suo romanzo e cui è rimasta legata nel tempo. Per maggiori info: gliamicidimatiri.blogspot.it e www.tharakahospital.org.
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