Sapere quando arrendersi è una competenza fondamentale nell’arte della guerra.
È maggio, il mese più crudele dell’anno (altro che aprile!).
Se fossi stata una madre perfetta, di quelle previdenti, lo avrei dovuto capire che i mesi di nascita dei figli vanno differenziati: è una questione di sopravvivenza familiare. Cercherò di ricordarmene nella prossima vita. Anzi, sono certa che non me ne potrò dimenticare, perché gli ultimi giorni sono stati un ottovolante con la cabina di pilotaggio guasta e il piano di volo impostato da un pazzo furioso. Non solo mi sono trovata a gestire due feste di compleanno (diverse e assolutamente equivalenti, ciascuna ritagliata su misura delle esigenze di Sofia e di Arturo), ma nell’intermezzo ho gestito: i colloqui con gli insegnanti, le incombenze per la fine delle attività extrascolastiche e pure, per non farsi mancare niente, la gita scolastica e un viaggio di lavoro di mio marito. Tutto qui? Macché. Questo era solo il contorno! Il piatto forte è stata l’organizzazione dell’evento cruciale per il mio anno lavorativo e per la sorte futura del museo che curo.
Ah, certo, è pure il mese delle allergie.
Eppure sono sopravvissuta. Posso provare a spiegare come, anche se – ora come ora – non l’ho capito bene nemmeno io.
Forse, come sempre, la cosa migliore è cominciare dall’inizio.
Domenica 21 maggio.
Ore 8.20
«Mamma... mi sta bene?»
Sofia appare con il vestito rosa a balze che sarebbe più adatto a una festa di Carnevale e che mi è costato più di una settimana di lavoro. Comunque, compie cinque anni e mi sembrava brutto costringerla a ripiegare su qualcosa di più sobrio. Del resto, sarebbe stato impossibile senza ricorrere al servizio di sorveglianza dell’outlet: farla uscire dal negozio priva del suo abito da fatina avrebbe comportato una rissa dalla quale sarei uscita perdente.
«Sei bellissima... ma ci vorranno ancora sei o sette ore prima che arrivino gli ospiti.»
Sofia non fa una piega e agita la sua bacchetta di plastica che culmina con una stella luminosa. Perfetta per una fata che volesse dirigere il traffico in un incrocio nebbioso.
Io, al contrario, sono in camicia da notte, con gli occhi incrostati dal mascara che ieri sera non ho avuto la forza di togliere. In questa tenuta sto risistemando la cucina mentre la caffettiera è sul fornello. Ho preparato la più grande che ho, calcolando a occhio e croce che mi ci vorrà parecchia caffeina per arrivare a sera.
«Dov’è il latte?» chiede Sofia, inerpicandosi sullo sgabello di fronte alla penisola.
«Sotto il tuo naso, nella tazza.»
«È troppo caldo!» sancisce subito.
Cerco di essere paziente: «Non l’hai nemmeno toccato».
Lei annusa la tazza con ostentazione e storce il naso: la faccia ruota tutta attorno al piccolo asse di quel suo nasino vezzoso che è il mio orgoglio (il naso non l’ha ereditato da me, ma gliel’ho messo io, accidenti!). «Si capisce dall’odore.»
«Allora lascialo raffreddare.»
Sofia agita la bacchetta luccicante e l’indice della mano libera. «Poi non ha più lo stesso sapore!»
Io so quando arrendermi e, siccome sto svuotando la lavastoviglie, prendo una scodella sbeccata e ci verso del latte freddo.
Lei l’afferra e lo tracanna soddisfatta.
Dovrei riuscire a non pensare a mia cognata – regina della casa e madre senza macchia – almeno stamattina. Dovrei essere felice perché oggi non le riuscirà di raggiungerci con marito e figlio per ricordarmi la nostra inadeguatezza. Lei però è il mio costante metro di paragone da sempre, un po’ come un grillo parlante (ma nella versione grillo mannaro!) e finché non riuscirò ad assestarle una martellata non me ne libererò. Pazienza, oggi non ho tempo per i martelli.
Intanto ho come l’impressione che manchi qualcosa. Un dettaglio, ma non di quelli significativi. Qualcosa che ti colpisce tipo un libro che manca in libreria e di cui ti accorgi perché vedi un buco ma non sapresti dire cosa ci stava prima. Tra lo sfavillio della padella e lo sfavillio interno della lavastoviglie la mia memoria visiva ha colto di sfuggita un baco nel mio sistema di allestimento esterno.
Ma che cos’è?
Mi passo in rassegna con un’occhiata panoramica.
Un secondo di fermo immagine e capisco cosa manca: il mio anello!
Guardo una mano e l’altra.
La fede è al suo posto sull’anulare sinistro. Ma al mio anulare destro manca l’anello che ho messo ieri sera per la cena da Marco, il capo di Claudio (che, per la cronaca, è mio marito).
Come può non essere più al mio dito?
Potrei occuparmi subito della faccenda, ma conto sulla mia previdenza inconscia (di conscia non ne ho, è evidente) e rassicuro me stessa: lo avrò messo sul comodino, con un gesto abituale di quelli cui non si presta mai attenzione.
Ci penserò dopo: l’elenco affisso allo sportello del frigo con un delizioso magnete a forma di maialino è così pieno di cose da fare e niente può essere anteposto alla prima operazione indicata. Qual è? Cito testualmente: Bonificare soggiorno.
Poi ci sono i giochi dei bambini. Quelli, per definizione, si scompongono. Possono pure essere indicati per bambini al di sotto dei tre anni, ma i pezzi ci sono ugualmente, solo più grossi (così quando ne perdi uno si nota subito e, come genitore, sai di avere un problema da risolvere. Un altro!).
Un giorno, aggirandomi per le scansie di un negozio di giocattoli ho annunciato, determinata: «Ne prendo solo di un pezzo unico!». Certe cose dovrei dirle da sola, tra me e me, ma quella volta ero con mia cognata e mi pareva brutto non comunicarle la mia decisione. Sobbalzò, mi appoggiò una mano sull’avambraccio come se dovesse impedirmi di buttarmi dalla finestra e scandì: «Sei pazza?».
«Scusa?»
Persino il negoziante, incuriosito dalla foga di Camilla, si era fermato per ascoltare la conversazione.
«I giocattoli di un unico pezzo non stimolano la creatività. Devi prendere intrattenimenti destrutturati, l’ho letto su una rivista... Non puoi crescere i tuoi figli con una visione del mondo come di un oggetto sul quale non possono intervenire...»
A oggi ne sono rimasti solo venti, attualmente sparsi in venti angoli diversi del mio soggiorno. Da allora, si sappia, non ragiono più ad alta voce in presenza di altre madri.
Tanto meno di mia cognata, ma lei è un argomento a parte.
Sono così, con un fagotto di indumenti avvolti in una coperta infeltrita, in testa l’eco della voce di Camilla, il Grillo Mannaro, quando arriva Arturo. Arturo è il mio piccolo uomo. Centodieci centimetri segnati l’altro giorno sullo stipite della porta della cucina, un pigiamino verde un po’ scappato e i capelli arruffati.
Entrambi i miei figli hanno il risveglio istantaneo (e precoce, ma solo nei giorni di festa). Dal momento in cui aprono gli occhi sono al massimo delle potenzialità.
«Da 0 a 100 in un secondo» fu la definizione di Claudio una volta che nostro figlio si era svegliato parlando.
Arturo arriva saltellando. «Mamma, ti aiuto!»
Ne approfitto: «Grazie, tesoro. Potresti...».
Però l’ho detto, no, che è un uomo? E infatti...
«Prima però guardo un cartone alla tv!»
Ecco, appunto.
«Vengo anch’io!» e Sofia si arrampica sullo schienale del divano per scavalcarlo e incollarsi al fratello. Arturo sbuffa, alza gli occhi al cielo, si passa una mano sulla fronte.
«Non puoi stare qui» dice serio, scostandosi per mettere una spanna d’aria tra sé e la sorella. «Voglio guardare una cosa da maschi grandi.»
Sofia si ferma, bacchetta in pugno e sbaffo di latte sulla bocca. «Calcio?» chiede sospettosa.
«No, non te lo posso dire» e intanto Arturo sbircia il tavolinetto.
Sofia ha capito cosa manca e vuole essere la prima ad arraffare la preda. Si alza indifferente e prende tempo.
«Se non lo puoi dire è perché non lo sai... io invece lo so cosa voglio vedere!»
Solleva un giornale e fatica a contenere la delusione di trovarci solo il ripiano del tavolino.
Inspiro fiera di me e ruoto leggermente per mostrare il telecomando, infilato sotto la mia ascella sinistra: «Mi dispiace» annuncio soddisfatta. «Oggi niente tv: si riordina.»
Arturo scatta in piedi: «Non è giusto! Non è la mia festa: è la sua! Riordina lei!».
«Io sono la festeggiata e non posso lavorare.» Sofia ha stretto le braccia al petto e la stella le lampeggia vicino a un orecchio.
Cerco di chetare gli animi. «Artù, fai colazione. Ne parliamo dopo.»
Troppo tardi. Lui sta già correndo a infilarsi nel corridoio da cui è arrivato: «Papà! Sofia fa i capricci!».
Non so se sono solo i miei figli che hanno la tendenza a creare squadre in famiglia, soprattutto del tipo maschi contro femmine, ma mi auguro che il coniuge si svegli pieno di ragionevolezza, voglia di fare e partecipazione collettiva.
Il suo grugnito da orso in letargo non mi rassicura.
«Adesso arrivo. Ancora dieci minuti...»
Parto a passo marziale verso lo sgabuzzino dove stiperò tutto ciò che dovrebbe avere un posto ma non ce l’ha e di certo non lo troverà oggi (sta a dire una buona parte di ciò che vortica in casa) e metto in chiaro ad alta voce: «Dieci minuti non li ha nessuno, oggi! Sveglia!».
La voce da orso reagisce. «Okay, capo...»
Se fossi stata una madre perfetta, di quelle previdenti, lo avrei dovuto capire che i mesi di nascita dei figli vanno differenziati: è una questione di sopravvivenza familiare. Cercherò di ricordarmene nella prossima vita. Anzi, sono certa che non me ne potrò dimenticare, perché gli ultimi giorni sono stati un ottovolante con la cabina di pilotaggio guasta e il piano di volo impostato da un pazzo furioso. Non solo mi sono trovata a gestire due feste di compleanno (diverse e assolutamente equivalenti, ciascuna ritagliata su misura delle esigenze di Sofia e di Arturo), ma nell’intermezzo ho gestito: i colloqui con gli insegnanti, le incombenze per la fine delle attività extrascolastiche e pure, per non farsi mancare niente, la gita scolastica e un viaggio di lavoro di mio marito. Tutto qui? Macché. Questo era solo il contorno! Il piatto forte è stata l’organizzazione dell’evento cruciale per il mio anno lavorativo e per la sorte futura del museo che curo.
Ah, certo, è pure il mese delle allergie.
Eppure sono sopravvissuta. Posso provare a spiegare come, anche se – ora come ora – non l’ho capito bene nemmeno io.
Forse, come sempre, la cosa migliore è cominciare dall’inizio.
Domenica 21 maggio.
Ore 8.20
«Mamma... mi sta bene?»
Sofia appare con il vestito rosa a balze che sarebbe più adatto a una festa di Carnevale e che mi è costato più di una settimana di lavoro. Comunque, compie cinque anni e mi sembrava brutto costringerla a ripiegare su qualcosa di più sobrio. Del resto, sarebbe stato impossibile senza ricorrere al servizio di sorveglianza dell’outlet: farla uscire dal negozio priva del suo abito da fatina avrebbe comportato una rissa dalla quale sarei uscita perdente.
«Sei bellissima... ma ci vorranno ancora sei o sette ore prima che arrivino gli ospiti.»
Sofia non fa una piega e agita la sua bacchetta di plastica che culmina con una stella luminosa. Perfetta per una fata che volesse dirigere il traffico in un incrocio nebbioso.
Io, al contrario, sono in camicia da notte, con gli occhi incrostati dal mascara che ieri sera non ho avuto la forza di togliere. In questa tenuta sto risistemando la cucina mentre la caffettiera è sul fornello. Ho preparato la più grande che ho, calcolando a occhio e croce che mi ci vorrà parecchia caffeina per arrivare a sera.
«Dov’è il latte?» chiede Sofia, inerpicandosi sullo sgabello di fronte alla penisola.
«Sotto il tuo naso, nella tazza.»
«È troppo caldo!» sancisce subito.
Cerco di essere paziente: «Non l’hai nemmeno toccato».
Lei annusa la tazza con ostentazione e storce il naso: la faccia ruota tutta attorno al piccolo asse di quel suo nasino vezzoso che è il mio orgoglio (il naso non l’ha ereditato da me, ma gliel’ho messo io, accidenti!). «Si capisce dall’odore.»
«Allora lascialo raffreddare.»
Sofia agita la bacchetta luccicante e l’indice della mano libera. «Poi non ha più lo stesso sapore!»
Io so quando arrendermi e, siccome sto svuotando la lavastoviglie, prendo una scodella sbeccata e ci verso del latte freddo.
Lei l’afferra e lo tracanna soddisfatta.
Mentre la guardo trangugiare calcolo quante probabilità ci sono che le venga uno scompiglio digestivo, ma in base alla mia stima non è un rischio alto. Incrocio le dita e sistemo una padella.
In mente mi echeggiano i moniti di mia cognata: «La colazione è il pasto più importante, soprattutto per i bambini. Deve essere generosa, equilibrata e consumata a tavola con tutta la famiglia. Una famiglia che non si riunisce a tavola almeno due volte al giorno, per la prima colazione e per la cena, non può dirsi una vera famiglia... Casomai, è un gruppo coabitante».Dovrei riuscire a non pensare a mia cognata – regina della casa e madre senza macchia – almeno stamattina. Dovrei essere felice perché oggi non le riuscirà di raggiungerci con marito e figlio per ricordarmi la nostra inadeguatezza. Lei però è il mio costante metro di paragone da sempre, un po’ come un grillo parlante (ma nella versione grillo mannaro!) e finché non riuscirò ad assestarle una martellata non me ne libererò. Pazienza, oggi non ho tempo per i martelli.
Intanto ho come l’impressione che manchi qualcosa. Un dettaglio, ma non di quelli significativi. Qualcosa che ti colpisce tipo un libro che manca in libreria e di cui ti accorgi perché vedi un buco ma non sapresti dire cosa ci stava prima. Tra lo sfavillio della padella e lo sfavillio interno della lavastoviglie la mia memoria visiva ha colto di sfuggita un baco nel mio sistema di allestimento esterno.
Ma che cos’è?
Mi passo in rassegna con un’occhiata panoramica.
Un secondo di fermo immagine e capisco cosa manca: il mio anello!
Guardo una mano e l’altra.
La fede è al suo posto sull’anulare sinistro. Ma al mio anulare destro manca l’anello che ho messo ieri sera per la cena da Marco, il capo di Claudio (che, per la cronaca, è mio marito).
Come può non essere più al mio dito?
Potrei occuparmi subito della faccenda, ma conto sulla mia previdenza inconscia (di conscia non ne ho, è evidente) e rassicuro me stessa: lo avrò messo sul comodino, con un gesto abituale di quelli cui non si presta mai attenzione.
Ci penserò dopo: l’elenco affisso allo sportello del frigo con un delizioso magnete a forma di maialino è così pieno di cose da fare e niente può essere anteposto alla prima operazione indicata. Qual è? Cito testualmente: Bonificare soggiorno.
Non so se è solo in casa mia che il soggiorno sembra la spiaggia di Rio de Janeiro dopo la parata del Martedì Grasso.
Comincio con la raccolta delle scarpe. Sia chiaro, sono enormemente felice che in questa casa tutti quanti abbiano due piedi, ma con gli indumenti gemelli si creano sempre problemi. Forse stanchi di vivere appaiati, lontani dai corpi tendono a condurre esistenze separate e a esplorare il mondo in direzioni diverse, quando non opposte. Pantofole, ciabatte e scarpe da ginnastica scompaiono singolarmente negli anfratti: non mi stupisco più di trovare calzini antiscivolo di dimensioni mignon sotto i cuscini del divano (e ho smesso di domandarmi come ci finiscano), ma che il mimetismo sia una caratteristica anche delle mie pantofole taglia 40 o delle scarpe da ginnastica taglia 46 di mio marito... be’ è una cosa che non smette mai di risvegliare in me scomodi interrogativi. Le calze sono più perfide, perché si appiattiscono. Non che con i guanti vada meglio ma, fortunatamente, non è stagione.Poi ci sono i giochi dei bambini. Quelli, per definizione, si scompongono. Possono pure essere indicati per bambini al di sotto dei tre anni, ma i pezzi ci sono ugualmente, solo più grossi (così quando ne perdi uno si nota subito e, come genitore, sai di avere un problema da risolvere. Un altro!).
Un giorno, aggirandomi per le scansie di un negozio di giocattoli ho annunciato, determinata: «Ne prendo solo di un pezzo unico!». Certe cose dovrei dirle da sola, tra me e me, ma quella volta ero con mia cognata e mi pareva brutto non comunicarle la mia decisione. Sobbalzò, mi appoggiò una mano sull’avambraccio come se dovesse impedirmi di buttarmi dalla finestra e scandì: «Sei pazza?».
«Scusa?»
Persino il negoziante, incuriosito dalla foga di Camilla, si era fermato per ascoltare la conversazione.
«I giocattoli di un unico pezzo non stimolano la creatività. Devi prendere intrattenimenti destrutturati, l’ho letto su una rivista... Non puoi crescere i tuoi figli con una visione del mondo come di un oggetto sul quale non possono intervenire...»
Il resto fu l’elogio della possibilità di smontare e di rimontare come momento nodale nell’evoluzione psicopedagogica dei nostri eredi.
Il giocattolaio se ne andò con una curiosa smorfia di ammirazione (non so se per me o per Camilla) e io mi sentii in colpa, così comprai un puzzle da cento pezzi.A oggi ne sono rimasti solo venti, attualmente sparsi in venti angoli diversi del mio soggiorno. Da allora, si sappia, non ragiono più ad alta voce in presenza di altre madri.
Tanto meno di mia cognata, ma lei è un argomento a parte.
Sono così, con un fagotto di indumenti avvolti in una coperta infeltrita, in testa l’eco della voce di Camilla, il Grillo Mannaro, quando arriva Arturo. Arturo è il mio piccolo uomo. Centodieci centimetri segnati l’altro giorno sullo stipite della porta della cucina, un pigiamino verde un po’ scappato e i capelli arruffati.
Entrambi i miei figli hanno il risveglio istantaneo (e precoce, ma solo nei giorni di festa). Dal momento in cui aprono gli occhi sono al massimo delle potenzialità.
«Da 0 a 100 in un secondo» fu la definizione di Claudio una volta che nostro figlio si era svegliato parlando.
Arturo arriva saltellando. «Mamma, ti aiuto!»
Ne approfitto: «Grazie, tesoro. Potresti...».
Però l’ho detto, no, che è un uomo? E infatti...
«Prima però guardo un cartone alla tv!»
Ecco, appunto.
«Vengo anch’io!» e Sofia si arrampica sullo schienale del divano per scavalcarlo e incollarsi al fratello. Arturo sbuffa, alza gli occhi al cielo, si passa una mano sulla fronte.
«Non puoi stare qui» dice serio, scostandosi per mettere una spanna d’aria tra sé e la sorella. «Voglio guardare una cosa da maschi grandi.»
Sofia si ferma, bacchetta in pugno e sbaffo di latte sulla bocca. «Calcio?» chiede sospettosa.
«No, non te lo posso dire» e intanto Arturo sbircia il tavolinetto.
Sofia ha capito cosa manca e vuole essere la prima ad arraffare la preda. Si alza indifferente e prende tempo.
«Se non lo puoi dire è perché non lo sai... io invece lo so cosa voglio vedere!»
Solleva un giornale e fatica a contenere la delusione di trovarci solo il ripiano del tavolino.
Inspiro fiera di me e ruoto leggermente per mostrare il telecomando, infilato sotto la mia ascella sinistra: «Mi dispiace» annuncio soddisfatta. «Oggi niente tv: si riordina.»
Arturo scatta in piedi: «Non è giusto! Non è la mia festa: è la sua! Riordina lei!».
«Io sono la festeggiata e non posso lavorare.» Sofia ha stretto le braccia al petto e la stella le lampeggia vicino a un orecchio.
Cerco di chetare gli animi. «Artù, fai colazione. Ne parliamo dopo.»
Troppo tardi. Lui sta già correndo a infilarsi nel corridoio da cui è arrivato: «Papà! Sofia fa i capricci!».
Non so se sono solo i miei figli che hanno la tendenza a creare squadre in famiglia, soprattutto del tipo maschi contro femmine, ma mi auguro che il coniuge si svegli pieno di ragionevolezza, voglia di fare e partecipazione collettiva.
Il suo grugnito da orso in letargo non mi rassicura.
«Adesso arrivo. Ancora dieci minuti...»
Parto a passo marziale verso lo sgabuzzino dove stiperò tutto ciò che dovrebbe avere un posto ma non ce l’ha e di certo non lo troverà oggi (sta a dire una buona parte di ciò che vortica in casa) e metto in chiaro ad alta voce: «Dieci minuti non li ha nessuno, oggi! Sveglia!».
La voce da orso reagisce. «Okay, capo...»
Quarta di copertina"La rivincita della mamma imperfetta" di Annalisa Strada, Piemme, 2015.
Lola ha trentott’anni, due figli meravigliosi, un marito che ama e un lavoro che adora. Insomma, tutte le carte in regola per poter entrare nel club delle Mamme Imperfette.
Nel corso di una settimana, la più temibile dell’anno – quella delle feste di compleanno di Sofia e Arturo (diversificate, ma entrambe curatissime); dei colloqui con gli insegnanti pre-chiusura estiva (tutti rigorosamente in orario di lavoro); dell’inaugurazione della mostra che ha curato per mesi e delle allergie che mettono KO il già non presentissimo marito – dimostrerà al mondo che può farcela. Perché la vita delle mamme che lavorano, ma che vogliono anche veder crescere i propri figli è così: una corsa a ostacoli, dove puoi star certa che se fai bene da una parte dall’altra succederà un disastro.
Ma in fondo al cuore lo sai: è stata la scelta giusta e tra qualche anno (10? 15?) potrai concederti una pausa!
Nel corso di una settimana, la più temibile dell’anno – quella delle feste di compleanno di Sofia e Arturo (diversificate, ma entrambe curatissime); dei colloqui con gli insegnanti pre-chiusura estiva (tutti rigorosamente in orario di lavoro); dell’inaugurazione della mostra che ha curato per mesi e delle allergie che mettono KO il già non presentissimo marito – dimostrerà al mondo che può farcela. Perché la vita delle mamme che lavorano, ma che vogliono anche veder crescere i propri figli è così: una corsa a ostacoli, dove puoi star certa che se fai bene da una parte dall’altra succederà un disastro.
Ma in fondo al cuore lo sai: è stata la scelta giusta e tra qualche anno (10? 15?) potrai concederti una pausa!
★★★★★
Il buon giorno si vede dal mattino, dicono, e un buon incipit e una copertina accattivante possono essere il perfetto bigliettino da visita di un libro.
Secondo voi, quante stelline si merita il biglietto da visita di questo libro?
Tutti i nostri incipit:
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