Palcoscenico | Di Tamara Marcelli. Il monologo teatrale di Judith Keith, La moglie ebrea, dalla pièce del 1938, in ventitré scene drammatiche, Terrore e miseria de Terzo Reich di Bertolt Brecht.
La differenza tra un racconto e un monologo è la differenza tra il raccontare e il vivere. Nel Teatro i personaggi non sono narrati, ma vivono sulla scena ogni volta, in ogni rappresentazione.La parola Teatro deriva dal greco “Theaomai” che significa “io vedo”, l’Epica deriva da “epomai” ossia “io racconto”. Ed è tutta qui la differenza, anche se a volte si confondono.
Inauguriamo questa sezione di editoriali dedicati al Teatro con delle piccole grandi perle della letteratura internazionale, dai classici ai contemporanei, assaporando monologhi che chissà quante volte abbiamo visto sui palcoscenici di tutto il mondo. Leggere e ricordare, leggere e immaginare.
Il monologo che segue è tratto da Terrore e miseria del Terzo Reich, di Bertolt Brecht, edito da Einaudi.
Bertolt Brecht (1898-1956) è stato un drammaturgo, autore tra i più grandi del secolo scorso, rappresentante del “Teatro Epico” in cui l’attore “mostra” il personaggio allo spettatore inducendolo ad un ragionamento.
Un taglio netto con il passato.
Parla Judith Keith. È lei, dottore? Buonasera. Le telefono per dirle che dovrete cercarvi un altro quarto al bridge, perché io sto partendo. – No, non per molto tempo, ma qualche settimana starò via certo. – vado ad Amsterdam. – Sì, la primavera dicono che là sia bellissima. – Ci stanno dei miei amici. – No, al plurale, ci creda o non ci creda. – Come farete per il bridge? – Ma se sono già due settimane che non giochiamo più! – D’accordo, è stato anche per il raffreddore di Fritz. Quando fa così freddo, non è più il caso di giocare a bridge: è quello che dicevo anch’io! – Ma no, dottore, come avrei potuto? – E da voi c’era anche la mamma di Tecla in visita. – Lo so, lo so. – Perché avrei dovuto pensare una cosa simile? – No, la decisione non è stata così improvvisa, in realtà ho rimandato di giorno in giorno, ma adesso devo proprio… Già, anche le nostre spedizioni al cinema dovranno finire, mi saluti Tecla. – Potrebbe magari telefonargli domenica? – Arrivederci, allora. – Sì, certo, con piacere! – Addio!
[riattacca e chiama un altro numero]
Sono Judith Keith. Vorrei parlare con la signora Schock.- Sei tu, Lotte? – Volevo darti un saluto in fretta in fretta: parto per qualche tempo. – No, niente di speciale. Voglio solo vedere un po’ di facce nuove. - Ah, ecco cosa volevo dirti. Qui da Fritz, martedì venturo ci sarà a cena il professore. Potreste venire anche voi? Io, come ti ho detto, parto stasera. – Sì, martedì. – No, volevo solo dire che parto stasera; non ha niente a che vedere con l’altra cosa, soltanto pensavo che avreste potuto venire anche voi. – Be’, allora diciamo: nonostante che non ci sia io: va bene? – Ma lo so che voi non siete così, e del resto viviamo in tempi difficili e tutti stanno con gli occhi aperti. Allora venite? – Se Max può? Vedrai che potrà. C’è anche il professore, diglielo. – Adesso devo smettere. Addio, allora!
[riattacca e chiama un altro numero]
Sei tu, Gertrud? Parla Judith. Scusa se ti disturbo. – Grazie. Volevo chiederti se puoi occuparti un po’ di Fritz. Io parto e starò via qualche mese. – Penso che tu, come sua sorella… perché non ti va? – Ma no, non avrà affatto l’aria di questo, certo non per Fritz. – Sì, lui lo sa che noi non andavamo … tanto d’accordo, ma… - Allora ti chiamerà lui, se vuoi. – Sì, glielo dirò. – È tutto abbastanza in ordine: certo, l’appartamento è un po’ troppo grande. – Quello che si deve fare nel suo studio lo sa Ida. Lascia che faccia lei. – È una donna intelligente e sa le sue abitudini. – Ah, ancora un’altra cosa, e non fraintendermi, ti prego. Non gli piace parlare prima di pranzo: ricordatene, per favore. Io mi sono sempre astenuta dal farlo. – Ti sarei grata se non cominciassimo a discutere adesso, il mio treno parte fra poco e non ho ancora finito di fare i bagagli. – Sta’ attenta ai suoi vestiti e fagli memoria che deve andare dal sarto, si è ordinato un soprabito, e bada che la sua stanza da letto sia riscaldata, dorme sempre con la finestra aperta e fa troppo freddo. – No, non credo che si debba allenare. Ma adesso devo smettere. – Grazie grazie mille, Gertrud. Comunque ci riscriveremo. – Addio.
[riattacca e chiama un altro numero]
Ana, sono Judith. Senti, sto per partire. – No, è necessario, la situazione diventa troppo difficile. – Troppo difficile! – Sì …, no, Fritz non vuole, non sa ancora niente. Ho bell’e fatto i bagagli. – Non credo. – Non credo che farà molte obiezioni. La situazione è troppo difficile socialmente parlando. – No, non abbiamo preso nessun accordo. – Ma non ne abbiamo mai parlato, mai! – No, non è cambiato, al contrario. – Volevo pregarvi di stargli un po’ vicino, nei primi tempi. – Sì, specialmente la domenica, e persuadetelo a cambiar casa. – La casa è troppo grande per lui. – Sarei venuta volentieri a salutarti, ma sai, il portinaio! – Allora addio, no, non venire alla stazione, assolutamente no! – Addio, ti scrivo. – Certo!
[riattacca e non chiama nessun altro numero. Ha fumato una sigaretta e ora dà fuoco al libricino nel quale aveva cercato i numeri telefonici. Va su e giù per la stanza, due o tre volte. Poi comincia a parlare, prova il discorso che intende fare al marito.]
Sì, dunque io parto, Fritz. Ho forse tardato anche troppo, devi scusarmi, ma…
[si ferma, riflette e comincia da capo]
Fritz, non devi più cercar di trattenermi, non puoi… È evidente che finirei per rovinarti. Lo so che non sei un vigliacco, che non hai paura della polizia, ma c’è di peggio. Non ti metteranno in campo di concentramento, ma ti vieteranno l’accesso alla clinica, domani o dopodomani, e allora non dirai niente, ma ti ammalerai. Non voglio vederti qui a girellare per casa, a sfogliare riviste. Credimi, se me ne vado è per puro egoismo, non per altro. Non dirmi niente…
[si ferma di nuovo e ricomincia un’altra volta da capo]
Non dirmi che non sei cambiato, non è vero! La settimana scorsa hai scoperto molto obiettivamente che la percentuale degli scienziati ebrei non è poi tanto grande. Si comincia sempre così, con l’obiettività… e perché adesso continui a ripetermi che mai come ora ho dato prova del mio nazionalismo ebraico? Sì, sono nazionalista. È come una malattia che ti prende. Oh, Fritz, che destino è stato il nostro!
[si ferma di nuovo e ricomincia da capo]
Non ti ho detto che volevo andarmene, che già da tempo volevo andarmene, perché non posso parlare quando ti guardo, Fritz. Allora mi sembra che ogni parola sia inutile. Tanto, è già tutto deciso! Che cos’hanno? Cosa vogliono in realtà? Che cosa gli faccio? Non mi sono mai occupata di politica. Tenevo per Thalmann, forse? Sono una di quelle signore borghesi che hanno servitù eccetera, e tutt’a un tratto cosa succede? Soltanto alle bionde è permesso di essere così? Negli ultimi tempi ho pensato spesso a quello che mi dicevi anni fa, che ci sono persone che valgono e persone che valgono meno, e che ai primi si dà l’insulina quando hanno il diabete e agli altri no; e allora mi era parso naturale, stupida che non ero altro! Adesso hanno fatto una nuova distinzione del genere, e io appartengo alla categoria di quelli che valgono meno. Ben mi sta.
Sì, faccio i bagagli. Non devi far finta di non aver notato niente in questi ultimi giorni. Fritz, posso sopportare tutto, meno che questo: di non guardarci dritto negli occhi nell’ultima ora che ci resta. Non dobbiamo dare questa soddisfazione, a quei bugiardi che costringono tutti a mentire. Dieci anni fa, quando qualcuno diceva che non si notava affatto che io fossi ebrea, tu replicavi: “Eh, altroché!” era una cosa che mi faceva piacere; era sincerità. Perché non avere adesso il coraggio di dire le cose come sono?
Faccio i bagagli perché altrimenti non sarai più primario, perché quelli della clinica ti salutano già a stento e tu non riesci più a dormire la notte. Non voglio che tu mi dica che non devo andarmene. Anzi, mi affretto perché non voglio che un giorno tu mi dica:” Devi andartene”. È, questione di tempo. Il carattere, è questione di tempo. Ha una certa durata, proprio come un guanto. Ce ne sono di buoni che durano un pezzo. Ma nessuno dura in eterno. E non sono neanche in collera. Ma sì che lo sono. Perché devo tollerare tutto questo? Cosa c’è di male nella forma del mio naso e nel colore dei miei capelli? E devo lasciare la città dove sono nata perché quelli possano risparmiare il burro.
Oh, Fritz!
[si ferma]
[Rumore di una porta che si apre. Si riassetta rapidamente. Entra il marito]
Il monologo che segue è tratto da Terrore e miseria del Terzo Reich, di Bertolt Brecht, edito da Einaudi.
Bertolt Brecht (1898-1956) è stato un drammaturgo, autore tra i più grandi del secolo scorso, rappresentante del “Teatro Epico” in cui l’attore “mostra” il personaggio allo spettatore inducendolo ad un ragionamento.
Un taglio netto con il passato.
Il pregio principale del teatro epico, basato sullo straniamento, il cui scopo è rappresentare il mondo in maniera che divenga maneggevole, è precisamente la sua naturalezza, il suo carattere tutto terrestre, il suo umorismo, la sua rinuncia a tutte le incrostazioni mistiche che il teatro tradizionale si porta appresso fin dall'antichità.Il Teatro epico è fortemente politico, il suo scopo, sottolineando la finzione teatrale, è quello di portare ad uno sviluppo culturale e sociale collettivo. Intriso e calato perfettamente nella realtà circostante.
La moglie ebrea
[Francoforte, 1935. Sera. Una donna prepara i bauli. Sceglie quello che vuole portare via, dopo un po’, stanca, si siede su un baule, il capo appoggiato sulla mano. Poi si alza e va al telefono.]Parla Judith Keith. È lei, dottore? Buonasera. Le telefono per dirle che dovrete cercarvi un altro quarto al bridge, perché io sto partendo. – No, non per molto tempo, ma qualche settimana starò via certo. – vado ad Amsterdam. – Sì, la primavera dicono che là sia bellissima. – Ci stanno dei miei amici. – No, al plurale, ci creda o non ci creda. – Come farete per il bridge? – Ma se sono già due settimane che non giochiamo più! – D’accordo, è stato anche per il raffreddore di Fritz. Quando fa così freddo, non è più il caso di giocare a bridge: è quello che dicevo anch’io! – Ma no, dottore, come avrei potuto? – E da voi c’era anche la mamma di Tecla in visita. – Lo so, lo so. – Perché avrei dovuto pensare una cosa simile? – No, la decisione non è stata così improvvisa, in realtà ho rimandato di giorno in giorno, ma adesso devo proprio… Già, anche le nostre spedizioni al cinema dovranno finire, mi saluti Tecla. – Potrebbe magari telefonargli domenica? – Arrivederci, allora. – Sì, certo, con piacere! – Addio!
[riattacca e chiama un altro numero]
Sono Judith Keith. Vorrei parlare con la signora Schock.- Sei tu, Lotte? – Volevo darti un saluto in fretta in fretta: parto per qualche tempo. – No, niente di speciale. Voglio solo vedere un po’ di facce nuove. - Ah, ecco cosa volevo dirti. Qui da Fritz, martedì venturo ci sarà a cena il professore. Potreste venire anche voi? Io, come ti ho detto, parto stasera. – Sì, martedì. – No, volevo solo dire che parto stasera; non ha niente a che vedere con l’altra cosa, soltanto pensavo che avreste potuto venire anche voi. – Be’, allora diciamo: nonostante che non ci sia io: va bene? – Ma lo so che voi non siete così, e del resto viviamo in tempi difficili e tutti stanno con gli occhi aperti. Allora venite? – Se Max può? Vedrai che potrà. C’è anche il professore, diglielo. – Adesso devo smettere. Addio, allora!
[riattacca e chiama un altro numero]
Sei tu, Gertrud? Parla Judith. Scusa se ti disturbo. – Grazie. Volevo chiederti se puoi occuparti un po’ di Fritz. Io parto e starò via qualche mese. – Penso che tu, come sua sorella… perché non ti va? – Ma no, non avrà affatto l’aria di questo, certo non per Fritz. – Sì, lui lo sa che noi non andavamo … tanto d’accordo, ma… - Allora ti chiamerà lui, se vuoi. – Sì, glielo dirò. – È tutto abbastanza in ordine: certo, l’appartamento è un po’ troppo grande. – Quello che si deve fare nel suo studio lo sa Ida. Lascia che faccia lei. – È una donna intelligente e sa le sue abitudini. – Ah, ancora un’altra cosa, e non fraintendermi, ti prego. Non gli piace parlare prima di pranzo: ricordatene, per favore. Io mi sono sempre astenuta dal farlo. – Ti sarei grata se non cominciassimo a discutere adesso, il mio treno parte fra poco e non ho ancora finito di fare i bagagli. – Sta’ attenta ai suoi vestiti e fagli memoria che deve andare dal sarto, si è ordinato un soprabito, e bada che la sua stanza da letto sia riscaldata, dorme sempre con la finestra aperta e fa troppo freddo. – No, non credo che si debba allenare. Ma adesso devo smettere. – Grazie grazie mille, Gertrud. Comunque ci riscriveremo. – Addio.
[riattacca e chiama un altro numero]
Ana, sono Judith. Senti, sto per partire. – No, è necessario, la situazione diventa troppo difficile. – Troppo difficile! – Sì …, no, Fritz non vuole, non sa ancora niente. Ho bell’e fatto i bagagli. – Non credo. – Non credo che farà molte obiezioni. La situazione è troppo difficile socialmente parlando. – No, non abbiamo preso nessun accordo. – Ma non ne abbiamo mai parlato, mai! – No, non è cambiato, al contrario. – Volevo pregarvi di stargli un po’ vicino, nei primi tempi. – Sì, specialmente la domenica, e persuadetelo a cambiar casa. – La casa è troppo grande per lui. – Sarei venuta volentieri a salutarti, ma sai, il portinaio! – Allora addio, no, non venire alla stazione, assolutamente no! – Addio, ti scrivo. – Certo!
[riattacca e non chiama nessun altro numero. Ha fumato una sigaretta e ora dà fuoco al libricino nel quale aveva cercato i numeri telefonici. Va su e giù per la stanza, due o tre volte. Poi comincia a parlare, prova il discorso che intende fare al marito.]
Sì, dunque io parto, Fritz. Ho forse tardato anche troppo, devi scusarmi, ma…
[si ferma, riflette e comincia da capo]
Fritz, non devi più cercar di trattenermi, non puoi… È evidente che finirei per rovinarti. Lo so che non sei un vigliacco, che non hai paura della polizia, ma c’è di peggio. Non ti metteranno in campo di concentramento, ma ti vieteranno l’accesso alla clinica, domani o dopodomani, e allora non dirai niente, ma ti ammalerai. Non voglio vederti qui a girellare per casa, a sfogliare riviste. Credimi, se me ne vado è per puro egoismo, non per altro. Non dirmi niente…
[si ferma di nuovo e ricomincia un’altra volta da capo]
Non dirmi che non sei cambiato, non è vero! La settimana scorsa hai scoperto molto obiettivamente che la percentuale degli scienziati ebrei non è poi tanto grande. Si comincia sempre così, con l’obiettività… e perché adesso continui a ripetermi che mai come ora ho dato prova del mio nazionalismo ebraico? Sì, sono nazionalista. È come una malattia che ti prende. Oh, Fritz, che destino è stato il nostro!
[si ferma di nuovo e ricomincia da capo]
Non ti ho detto che volevo andarmene, che già da tempo volevo andarmene, perché non posso parlare quando ti guardo, Fritz. Allora mi sembra che ogni parola sia inutile. Tanto, è già tutto deciso! Che cos’hanno? Cosa vogliono in realtà? Che cosa gli faccio? Non mi sono mai occupata di politica. Tenevo per Thalmann, forse? Sono una di quelle signore borghesi che hanno servitù eccetera, e tutt’a un tratto cosa succede? Soltanto alle bionde è permesso di essere così? Negli ultimi tempi ho pensato spesso a quello che mi dicevi anni fa, che ci sono persone che valgono e persone che valgono meno, e che ai primi si dà l’insulina quando hanno il diabete e agli altri no; e allora mi era parso naturale, stupida che non ero altro! Adesso hanno fatto una nuova distinzione del genere, e io appartengo alla categoria di quelli che valgono meno. Ben mi sta.
Sì, faccio i bagagli. Non devi far finta di non aver notato niente in questi ultimi giorni. Fritz, posso sopportare tutto, meno che questo: di non guardarci dritto negli occhi nell’ultima ora che ci resta. Non dobbiamo dare questa soddisfazione, a quei bugiardi che costringono tutti a mentire. Dieci anni fa, quando qualcuno diceva che non si notava affatto che io fossi ebrea, tu replicavi: “Eh, altroché!” era una cosa che mi faceva piacere; era sincerità. Perché non avere adesso il coraggio di dire le cose come sono?
Faccio i bagagli perché altrimenti non sarai più primario, perché quelli della clinica ti salutano già a stento e tu non riesci più a dormire la notte. Non voglio che tu mi dica che non devo andarmene. Anzi, mi affretto perché non voglio che un giorno tu mi dica:” Devi andartene”. È, questione di tempo. Il carattere, è questione di tempo. Ha una certa durata, proprio come un guanto. Ce ne sono di buoni che durano un pezzo. Ma nessuno dura in eterno. E non sono neanche in collera. Ma sì che lo sono. Perché devo tollerare tutto questo? Cosa c’è di male nella forma del mio naso e nel colore dei miei capelli? E devo lasciare la città dove sono nata perché quelli possano risparmiare il burro.
Che razza di uomini siete! Sì, anche tu! Siete capaci di inventare la teoria dei quanti, la teoria di Trendelenburg, e lasciate che dei semiselvaggi vi ordinino di conquistare il mondo e di separarvi dalla moglie che vorreste avere.Siete dei mostri, o dei leccapiedi di mostri. Sì, non è ragionevole da parte mia, ma a che serve la ragione in un mondo simile? Tu te ne stai seduto lì, vedi tua moglie che fa i bagagli e non dici niente. Perché i muri hanno orecchie, eh? Ma se voi non dite niente! Gli uni stanno a orecchie tese, gli altri tacciono! Che schifo! Anch’io dovrei tacere. Se ti volessi bene, tacerei. Ma io ti voglio bene davvero! Dammi quella biancheria, è biancheria fine, ne avrò bisogno. Ho trentasei anni, non sono ancora vecchia, ma tante esperienze non posso più farne. Nel paese dove andrò non deve più succedermi niente di simile. Se trovo un altro uomo, devo sapermelo tenere. E non dirmi che mi manderai del denaro, sai che non è possibile. E non avere l’aria di credere che sia una cosa provvisoria: per quattro settimane! È una faccenda che non dura quattro settimane. Lo sai tu e lo so anch’io. Non dire: “In fin dei conti si tratta di qualche settimana”, mentre mi porgi il mantello di pelliccia che non mi occorrerà prima dell’inverno. E non parliamo di disgrazia, parliamo di vergogna…
Oh, Fritz!
[si ferma]
[Rumore di una porta che si apre. Si riassetta rapidamente. Entra il marito]
Tamara Marcelli Artista poliedrica, eccentrica, amante dell'arte in tutte le sue forme. Una sognatrice folle. Ha studiato Lettere e Tecniche dello Spettacolo, canto e recitazione per oltre dieci anni e ha lavorato come attrice in alcuni importanti Teatri del Lazio. Scrive poesie, romanzi, testi teatrali, articoli e saggi. Il blu che non è un colore, Montag. Il sogno dell'isola, Montag. |
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