Gli scrittori della porta accanto

[Libri] Il pozzo e il pendolo, di Edgar Allan Poe, pag.69 | #110

Il pozzo e il pendolo, di Edgar Allan Poe - Pagina 69, Gli scrittori della porta accanto

Il pozzo e il pendolo, di Edgar Allan Poe, Feltrinelli Editore, ristampa 2014 (prima edizione 1842). L’alchimia perfetta per l’incubo perfetto, un capolavoro assoluto e insuperato della letteratura dell’inquietudine.

Fino a quel punto non avevo aperti gli occhi. Sentivo d'esser disteso sul dorso e senza lacci. Tentai d'allungare una mano ma essa ricadde subito e con pesantezza su alcunché d'umido e di duro. Ve la lasciai qualche minuto mentre duravo sforzi per indovinare in qual luogo potessi essere e che cosa fosse per avvenirmi. Cresceva in me l'impazienza di servirmi degli occhi: e tuttavia non osavo. Temevo la prima occhiata sugli oggetti all'intorno. Non mi aspettavo di vedere cose orribili ma ero bensì atterrito dall'idea che attorno a me non ci potesse essere nulla da vedere. Al fine mentre il mio cuore era divorato da una folle angoscia apersi d'un sol colpo gli occhi. I miei più orribili presentimenti si stavano confermando. Tutto all'intorno era soltanto la tenebra d'una notte sempiterna. Mi sforzai di respirare ma la profondità di quel buio aveva come il potere di soffocarmi. L'aria era pesante fino a non poterla più sopportare. Tentai di tenere in esercizio la ragione nel mentre che rimanevo disteso. Tentai ancora di fissare i miei pensieri sulla procedura dell'Inquisizione e cominciando di lì pervenni a identificare la mia reale condizione. La sentenza era stata pronunciata: ed io avevo la sensazione che da allora fosse trascorso un tempo lunghissimo. Epperò non supposi d'essere già trapassato nemmeno un solo istante. Nonostante si legga diversamente nei romanzi una simile idea è incompatibile con l'esistenza reale. Ma in qual luogo e in quale stato io mi trovavo? Ero a parte del fatto che solitamente le sentenze venivano eseguite negli auto-da-fé e che uno di questi era stato tenuto la sera medesima del giorno in cui s'era svolto il mio processo. M'avevano ricondotto nella segreta e mi ci avrebbero lasciato fino al prossimo sacrificio che non sarebbe avvenuto prima di alcuni mesi? Immediatamente capii che non poteva essere così. Le vittime si dovevano offrire immediatamente e la segreta che abitavo innanzi la sentenza come del resto tutte quelle dei condannati di Toledo era lastricata di pietra e vi filtrava un qualche lume.
Un agghiacciante pensiero mi fece affluire tutt'a un tratto il sangue al cuore ed io perdetti nuovamente i sensi. 
Al mio risveglio balzai in piedi: un convulso tremore mi scuoteva ogni fibra. Tesi le braccia attorno a me sopra di me levandomi sulle punte dei piedi in tutte le direzioni senza incontrar nulla e avevo nondimeno il terrore di muovere un passo ché non avessi a urtare contro le mura di una tomba. Il sudore si scioglieva da tutti i pori e sulla fronte mi si gelava in grosse gocciole. L'angoscia per quell'incertezza della mia sorte divenne a un tratto insopportabile ed avanzai guardingo protendendo le braccia in avanti e sporgendo gli occhi fuori dell'orbita nella speranza che potessi infine percepire una qualche debole irradiazione di luce. Mossi qualche passo ancora ma ogni cosa all'intorno era tenebra e vuoto. Respiravo ora con maggior libertà. Era evidente almeno che non mi era stata riservata la più orribile delle morti.

E nel mentre che seguitavo ad avanzare con cautelala memoria mi s'affollava di mille dicerie contrastanti e vaghe sugli orrori di Toledo. 

Si raccontavano attorno alle segrete alcuni bizzarri fatti che io avevo sempre considerati come delle fole ma tanto bizzarri e insieme tanto paurosi che si possono solo bisbigliare all'orecchio. Ero forse dannato a morire di fame in quella tenebra sotterranea? Quale altro destino foss'anche il più spaventoso m'era riserbato? Che il risultato dovesse essere la morte e per giunta una morte straordinariamente amara non era più dubbio da che conoscevo troppo bene il carattere dei miei giudici e nondimeno io ero angosciato soltanto dal desiderio di conoscere il modo e l'ora.
Le mie mani tese in avanti urtarono infine in un solido ostacolo. Esso era un muro che pareva costruito di pietra molto levigato molto umido e freddissimo. Lo seguii con quella diffidente prudenza che m'avevano ispirata taluni antichi racconti. Quell'aggirarmi però non mi porgeva alcun modo d'intendere quali realmente fossero le dimensioni della mia prigione dal momento che il muro appariva tanto uniformemente levigato che potevo fare il giro completo del vano e tornare al luogo donde ero venuto senza peraltro avvedermene. Tastai allora nelle mie tasche per vedere se avessi ancora il coltello che avevo al momento in cui mi condussero al tribunale dell'Inquisizione: era scomparso. E i miei abiti erano stati sostituiti da un ruvido saio. L'idea che m'era balenata era stata quella di infigger la lama in una qualche crepa dell'intonaco per fissare e quindi poter ritrovare il mio punto di partenza. La difficoltà di attuare un disegno consimile era minima e nondimeno per il disordine di cui era preda in quel punto la mia mente mi parve dapprima insormontabile. Lacerai una striscia dall'orlo del mio abito e la posi in terra per tutta la sua lunghezza ad angolo retto con la parete di muro. Seguendo il cammino a tentoni attorno alla segreta non avrei potuto far dimeno che ritrovare quello straccio e in quel punto il mio giro sarebbe stato completo: almeno supponevo così. Ma in quella supposizione non avevo tenuto conto della eventualità che l'ambiente fosse molto vasto e della certezza che io ero per contro assai debole. Il terreno era umido e sdrucciolevole. Procedetti ancora qualche tempo vacillando poi inciampai e stramazzai a terra. L'estrema stanchezza mi fece restare prono per un pezzo e così fui ripreso dal sonno.
Al mio risveglio nell'atto che feci di stendere le braccia urtai contro un pane e un brocca piena d'acqua. Non ero in condizioni di riflettere a causa della mia debolezza su quella nuova circostanza e nondimeno bevvi e mangiai con avidità. Ripresi a camminare attorno al mio carcere e infine dopo molta fatica pervenni a rintracciare la striscia di stoffa. Avanti di cadere ero riuscito a contare cinquantadue passi ed ora dopo aver ripreso il cammino ne contai per ritrovare lo straccio altri quarantotto. Eran dunque un centinaio di passi fra tutto; calcolando una yarda ogni due passi la mia cella poteva misurare un circuito di cinquanta yarde. Avevo incontrato però nel mio cammino alcuni angoli e non potevo fare in questo modo alcuna congettura sulla probabile forma di quel sotterraneo da che io lo credevo tale.
Non v'era alcun preciso oggetto - e meno che meno poteva esservi al fondo il desiderio d'alimentare una qualche speranza a quelle mie ricerche - una vaga curiosità nondimeno mi spingeva a seguitarle. Mi staccai così dal muro e mi risolvetti a traversare diametralmente la superficie circoscritta dalle pareti del vano. Avanzai in principio con estrema circospezione da che il pavimento quantunque sembrasse costruito di materiale solido e duro era nondimeno come allagato da una viscida palta. Mi rinfrancai in seguito e presi un'andatura più spedita studiando di seguire una direzione la più diritta possibile. Avevo fatto a quel modo una dozzina appena di passi allorché il rimanente dell'orlo stracciato al mio vestito mi s'attorcigliò alle gambe e mi fece inciampare e stramazzare nuovamente a terra colla faccia in avanti.
Nella confusione di quella caduta non badai a osservare subito una circostanza abbastanza bizzarra la quale nondimeno qualche secondo appresso allorché ero ancora disteso attrasse la mia attenzione. Il mio mento toccava il suolo del carcere ma le labbra e la parte superiore del capo quantunque sembrassero essere in luogo meno elevato che non il mento non lo toccavano. Nell'istesso momento mi sentii la fronte madida per un vapore ghiacciato e le narici furon ferite ancor esse dall'odore caratteristico dei funghi putrefatti. Tesi il braccio in avanti e trasalii. Ero caduto sull'orlo d'un pozzo circolare del quale non avevo però alcun mezzo per calcolare l'ampiezza. Tentando la parete al di sotto del margine riuscii a rimuovere un piccolo frammento e lo lasciai cadere nell'abisso. Restai qualche secondo colle orecchie tese ai rimbalzi che esso faceva contro le pareti del pozzo cadendo e infine udii un tonfo sordo e lontano seguito da echi e sciacquii rumorosi. Nell'identico istante un rumore si produsse al di sopra della mia testa - come di una porta aperta e poi richiusa con grande rapidità - e un debole chiarore balenò all'improvviso e subito sparve.
Compresi con tutta chiarezza la sorte che mi era stata riservata e mi rallegrai non poco per l'opportuno incidente cui dovevo la salvezza. Ancora un passo e nessuno al mondo avrebbe mai saputo più nulla di me. Quella morte così tempestivamente evitata apparteneva proprio al genere che io mi ostinavo a considerare partecipe dell'assurdo e del fiabesco in tutto ciò che mi era giunto all'orecchio riguardo all'Inquisizione. Alle vittime di quella tirannide era riservata una scelta tra la morte in preda alle più atroci agonie fisiche ovvero quella che traeva tutto il suo orrore dalle più feroci torture dello spirito. Io ero stato votato a quest'ultima. I miei nervi erano talmente eccitati dalle estenuanti sofferenze che fino il suono della mia stessa voce mi provocava a rabbrividire. Ero diventato in breve un soggetto particolarmente atto alla specie di tortura che mi si voleva infliggere e sotto tutti gli aspetti.
Scosso da un pauroso tremito per tutte le membra arretrai nuovamente a tentoni verso la parete nella ferma risoluzione di lasciarmi morire addossato ad essa anziché affrontare l'orrore dei pozzi che la mia immaginazione moltiplicava nell'oscurità della cella. S'io mi fossi trovato in una diversa condizione di spirito non c'è dubbio che avrei avuto il coraggio di finire in un sol colpo le mie miserie gettandomi a capofitto in uno di quei baratri; ma in quel momento mi sentivo il più codardo tra tutti gli uomini. Giacché non potevo aver dimenticato che quei pozzi erano costruiti - secondo talune mie antiche letture - in modo tale che chi vi precipitava non poteva in alcun modo per questo soltanto assicurarsi d'una morte subitanea.



Quarta di copertina
"Il pozzo e il pendolo" di Edgar Allan Poe.

“Esplorare la tenebra. Con la ineluttabile consapevolezza che, nella tenebra, la morte è in attesa. Cadere, ecco la prima sfida della morte. Un salto senza fine in un baratro senza fondo. Solo che evitare il baratro è solamente il primo, e di certo non il peggiore, degli assalti della morte. In questa realtà in lenta dissoluzione, la sfida conclusiva è oltre il baratro. Una tavola in bilico sul vuoto, legami dai quali sembra impossibile liberarsi. E al di sopra del baratro, simile a un maleficio beffardo, una lama oscillante, sibilante, mutilante. Un pendolo letale che a ogni singolo ciclo cala sempre più.
Un pozzo. E un pendolo. L’alchimia perfetta per l’incubo perfetto. Concepito dal nemico perfetto: la Santa Inquisizione. Anche se, al fondo di questa segreta misteriosa, sprofondata in qualche luogo ignoto, la santità sembra essere null’altro che una macabra beffa.
Maestro di cerimonie di questa escursione infernale è Edgar Allan Poe, l’immortale profeta del lato oscuro. Ne Il Pozzo e il Pendolo, capolavoro assoluto e insuperato della letteratura dell’inquietudine, intesa nel senso più alto del termine, le geometrie della tenebra si distorcono e i tempi della morte si dilatano, raggiungendo i limiti estremi della follia umana. E inumana.”


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