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Tutta colpa della mia impazienza, di Virginia Bramati: incipit

Tutta colpa della mia impazienza, di Virginia Bramati. Libri, incipit

Incipit #149 | Amore mio, non dormo e ti scrivo. Ti scrivo una lettera che ti consegnerò domani lì dove mi aspetterai, e già immagino il tuo sorriso e il tuo sguardo divertito.

Tutta colpa
della mia impazienza

di Virginia Bramati
Chick-lit, Romance, Young Adult
Giunti
ebook 8,99€
cartaceo 12,66€



Ne sarai incuriosito, ma il gesto, così inconsueto, non ti stupirà (hai imparato a tue spese di cosa sono capace), né ti meraviglierai che io scelga un momento così poco opportuno per darti la mia missiva, perché mi conosci bene e sai come spesso sia l’impazienza a guidare le mie azioni e come questa sia stata fonte di molteplici guai ma anche di repentine fughe in avanti del mio cuore, senza le quali (ammettilo!) ora non ci sarebbe un «noi».
E poi so che solo il luogo in cui ci troveremo ti impedirà di esplodere in una risata e che tutti i presenti troveranno perlomeno bizzarro il mio comportamento, ma, come ben sai, degli sguardi degli altri poco o nulla mi importa. E già rido pensando a quello pieno di riprovazione della zia Lori («Sei la solita stravagante, Agnese!»).
Ti scrivo perché mi è impossibile prendere sonno in questa notte irrequieta e mi piacerebbe pensare anche te sveglio, reso insonne dalla mia stessa agitazione, ma credo che il tuo pragmatismo abbia avuto il sopravvento e che quindi ora tu stia (molto saggiamente) dormendo. E così domani sarai fresco e riposato, mentre neanche tutta la perizia della Ines, temo, basterà a nascondere le mie occhiaie. Ma io ho il cuore troppo, troppo inquieto per dormire, per riuscire, non dico a tacitare, ma almeno a smorzare il tumulto di pensieri, ricordi ed emozioni che ne ha preso possesso. E quindi eccomi seduta alla scrivania della mia stanza «da ragazza» (come la zia Lori ha già cominciato a definirla) nella luce tenue di una lampada, alle prese con una vera lettera e non con il solito messaggio veloce sul cellulare, mentre fuori questa notte di marzo è ancora profonda e carica di un senso di frizzante attesa che l’abito in seta duchesse e organza plumetis, illuminando la stanza con il suo candore lunare, molto contribuisce ad accentuare. Chissà se ti piaceranno, questo abito scelto con tanta cura e i capelli raccolti. O se ti andrebbero meglio la mia chioma scarmigliata e la mia mise improvvisata, illuminata dai bagliori del temporale di quella prima incredibile notte…
Mi prometti che non la perderemo, la capacità di stupirci a vicenda? E quella di toglierci tutto ciò che c’è di troppo, maschere e vestiti, e ascoltare il nostro respiro nel buio?
Ti scrivo tutto questo perché ne sento forte il bisogno, perché domani inizia la nostra avventura, quella nuova, quella impegnativa, quella che un po’ mi fa tremare i polsi.
E di nuovo pensieri, ricordi ed emozioni che si affollano intorno a me.
Ricordo la prima volta che ti ho visto. Ti avevo trovato perlomeno respingente e (perdonami) anche un po’ ridicolo, pensavo di non avere nulla in comune con te. Eri una conoscenza di quelle casuali a margine della vita, il nostro doveva rimanere (almeno nelle mie intenzioni) uno sfiorarsi quasi involontario. Non nutrivo aspettative su di te, lo sai, e tu di certo non ne volevi nutrire su di me. All’inizio, anzi, mi innervosivi e c’erano cose di te che mi infastidivano così tanto! Come spesso accade, non è stato immediato per noi comprendere che eravamo uno per l’altra. Certo la nostra storia non si annovera fra i colpi di fulmine – anche se i fulmini ci hanno dato una mano non da poco! Proprio no. Con grande stupore ho scoperto di amarti e credo che questo valga anche per te.
E poi il susseguirsi degli avvenimenti ha dato (in un modo fortuito e a tratti decisamente imperfetto, lasciamelo dire) un’accelerazione alla nostra storia e qualsiasi cosa ci possa accadere nel futuro o possa accadere al nostro amore ora così compiuto, sono certa che mai potremo dimenticare quell’estate incantevole e drammatica di otto anni fa in cui tutto ha avuto inizio…

Otto anni prima

Eccomi qui.
Agnese Treves, diciannove anni non ancora compiuti, milanese DOC attualmente in esilio nella campagna lombarda, inconsapevolmente nel pieno degli esami di maturità e in procinto di raggiungere il mare di Bonassola ma per il momento seduta sul mio trolley sotto il portico di quella che chissà se mai riuscirò a chiamare casa, mentre guardo mio padre salire sull’auto che lo porterà all’aeroporto.
È quasi mezzogiorno e intorno a me gli elementi distintivi di un’estate della bassa padana: afa assurda, ronzio di insetti di molteplici fogge e dimensioni con cui non vorrei interagire ma che sembra provino un grande interesse nei miei confronti, incessante stridio di macchine agricole al lavoro nei campi, fragranza di fiori mista all’odore del fieno che asciuga al sole e a un lontano sentore di stalla. Il tutto immerso in un’accecante luce gialla e azzurra.
Saluto mio padre con la mano e lui ricambia con uno dei suoi rari sorrisi prima di sparire dalla mia vista.
Sto per avviarmi anch’io alla fermata dell’autobus, la prima delle molte tappe che mi condurranno alla meta, quando squilla il telefono.
Frugo affannosamente nello zaino in cerca delle chiavi (operazione resa non facilissima dalla resistenza opposta dal contenuto dello stesso palesemente dotato di volontà propria) e nella fretta di rientrare in casa inciampo pure nel trolley. Un classico. Perciò, quando zoppicando raggiungo il telefono, sono già di cattivo umore.
«Ciao, Agnese, ciao… Passami papà, passami papà!» La zia Lori con il suo solito tono concitato e ansiogeno di chi ha sempre i minuti (anzi i secondi) contati.
«Ciao zia, mi dispiace ma papà è già partito» la informo con una certa soddisfazione mentre guardo dalla portafinestra l’auto che si allontana.
Suo sospiro deluso.
«Be’, allora ormai è tardi per… dunque, ascoltami bene, Agnese, adesso sei grande e puoi capire…» inizia con quel suo piglio da insegnante di scuola primaria «purtroppo è successo che tuo zio Guido, che come sempre fa quello che gli si dice di non fare e sinceramente credo che lo faccia anche apposta,» altro sospiro «è caduto sul sentiero della punta del Mesco, come peraltro io gli avevo molte volte predetto, e si è rotto il femore in due punti e non ti dico la difficoltà dei soccorsi, sono dovuti intervenire con l’elicottero e poi insomma l’hanno portato al pronto soccorso a Levanto dove l’hanno operato d’urgenza.» Qui tono decisamente compiaciuto per la gravità del fatto.
«Mi dispiace mol…»
«Sì sì, non interrompermi che sono di fretta. Mi hanno già avvertito che sarà una cosa lunga, la sola degenza durerà almeno un paio di settimane, perciò, per il momento, niente vacanze.» Piccolo sospiro da martire immolata e soddisfatta.
«Capis…»
«Quindi non è proprio il caso che tu venga oggi, oltretutto dovresti tornare per gli esami e io, figurati, trascorrerò tutto il mio tempo in ospedale, abbiamo una camera al piano solventi, naturalmente, così potrò prestargli assistenza anche di notte, mi allontanerò il poco tempo necessario per tornare a casa e cucinargli qualcosa di decente» ormai è lanciata sulla via dell’autobeatificazione «e di certo non avrei tempo di occuparmi di te.»
Manco avessi dieci anni e non diciannove.
«Ma magari potr…» Niente mare? Be’, è un colpo lo ammetto.
«Ti sto telefonando mentre vado in ospedale, se chiudo è perché sono entrata, lì è strettamente proibito tenere accesi i cellulari.» E mentre io penso fugacemente che questo può valere in terapia intensiva, non certo in ortopedia, lei continua a raffica: «Ho già richiesto il rimborso del tuo biglietto del treno, ma bisogna sistemare le cose lì da voi». Efficienza è il suo secondo nome.

«Qui da noi?» E cosa ci sarebbe da sistemare?

«Quando arriva il sostituto di papà?»
«Il dottor Nava? Dovrebbe arrivare oggi, gli abbiamo preparato la camera de…»
«La camera degli ospiti?» Ma non sarebbe più pratico farmi finire le frasi? «Lì nella casa padronale?»
E dove se no? Ma la zia non si aspetta una risposta, e con un altro sospiro, venato questa volta da una nota di esasperazione per la mia mancanza di rispetto (involontaria, oltretutto) delle convenzioni sociali, continua: «Agnese, adesso che tu rimarrai lì per le prossime settimane non è proprio il caso che abitiate sotto lo stesso tetto, non sta bene, anche se Nava è un vedovo piuttosto attempato. Proprio non è il caso».
«Quindi?» Ma sono sicura che abbiamo già trovato la soluzione.
E infatti: «Lo sistemeremo nella dépendance!». Ed è un ordine.
«Perché, abbiamo una dépendance?» Finalmente riesco a infilare una frase completa.
«Sì, insomma, gli annessi rurali.»
«Intendi il fienile?» E chiamiamo le cose con il loro nome!
«Intendo dove papà ha organizzato il suo studio.»
«Sì, ma…»
«Chiamerò Iginia, le chiederò di venire con qualcuno che l’aiuti a sistemare una stanza lì, facciamo in modo di non dare argomenti alle malelingue… Ah, e ricordati di togliere le housses dai divani!»
«No zia, sì zia.» La mia ironia si perde nella chiusura brusca della telefonata, probabilmente è arrivata in vista dell’ospedale.
«Salutami lo zio e abbraccialo da parte mia!» dico polemica al telefono ormai muto, ma subito il mio pensiero va allo zio Guido in un letto di ospedale e il cuore mi si stringe.
Ok.
Guardo il trolley. Niente vacanze per il momento. Niente Bonassola. Niente mare. Niente vecchi amici di spiaggia. Accidenti.

Quarta di copertina
"Tutta colpa della mia impazienza" di Virginia Bramati, Giunti, 2017.

«Sono nata con due mesi di anticipo, odio i tempi morti, sono fisicamente allergica ai giochi di pazienza e adoro il tasto fast forward»: Agnese è così, una ragazza esuberante, autonoma, in­sofferente verso il principio dell'«ogni cosa a suo tempo»…
Ma improvvisamente, ecco che la vita prende una piega terribilmente dolorosa e la scaraventa dal centro di una metropoli che non dorme mai a una grande casa lungo un fiume, lontana quanto basta per essere immersa nei ritmi lenti e immutabili della campagna. Non solo: quando l'inverno finalmente è alle spalle e tutto sta per sbocciare, si ritrova sola, con un esame importante da preparare e solo il ronzio delle api a farle compagnia.
Impulsiva come sempre, Agnese non si arrende e riesce ugualmente a riempirsi le giornate con tutto ciò che non dovrebbe fare… fino a che dalle pagine di un libro non spunta un piccolo dono prezioso: una bustina di semi di Impatiens, la pianta i cui fiori rosa hanno il potere di curare le ferite dell'anima e insegnare l'ascolto e l'armonia.
Sullo sfondo di una campagna lombarda sorprendente e rigogliosa, non lontano dal magico borgo di Verate che le sue lettrici hanno imparato ad amare, Virginia Bramati ci regala ancora una volta una protagonista adorabile, piena di vita, alle prese con un mistero da risolvere, un esame da superare e soprattutto con il compito più difficile: scoprire che la felicità è molto più vicina di quanto pensiamo, se solo sappiamo rallentare e guardarla negli occhi.

★★★★★

Il buon giorno si vede dal mattino, dicono, e un buon incipit e una copertina accattivante possono essere il perfetto bigliettino da visita di un libro.
Secondo voi, quante stelline si merita il biglietto da visita di questo libro?

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